Appello ai produttori sardi: chiamatele Tzipulas non Zippole.

Foto copiata dal profilo di Anthony Muroni

Zippole, casadine, papassini, tilicche, pirichiti, guelfi, formagelle, fregola, mostaccioli sono solo alcuni esempi di come i produttori sardi (soprattutto pasticceri artigiani) stanno continuando ad attentare all’identità ed alla storia delle migliori ricette tradizionali sarde affibiando ai propri prodotti sardi nomi italianizzati contribuendo all’appiattimento culturale, all’indistinzione, in altre parole alla confusione ed eclissi della tipicità, vero e proprio fattore di successo in campo alimentare.

Tzipulas, casadinas, pabassinos, tiliccas, pirichitos, gieffos, pardulas, fregula e mustazzolus sono in realtà i veri nomi originali dei medesimi dolci il cui termine, al pari delle ricette assolutamente originali e distinte da quelle della penisola, contribuisce in sè ed in maniera diretta a rimarcare una differenza, una storia, una lingua, una tradizione, un popolo, il popolo sardo.

In particolare lo scarso amor proprio di una parte dei sardi per la propria lingua e la propria cultura ha spinto verso una traduzione di ogni parola sarda mediante italianismi che nel tempo hanno finito per prevalere, secondo il criterio di affermazione della cultura dominante. Perchè qua tacere del fatto che in molti, in troppi, lo abbiano spesso fatto per affermare la propria emancipazione culturale, la propria modernità, quasi con la vergogna di apparire i soliti sardi vestiti da caproni incapaci integrarsi con il resto della Republica.

La parola Tzipula, nella viariante Tipula o, raramente, Zipula, ha in sè tutti i crismi per indicare orgogliosamente un dolce di Carnevale che non ha, per caratteristiche di ingredienti, gusto e forma, alcuna attinenza con le Zeppole provenienti dalla tradizione di altre regione italiche e se qualcuno si dovesse avventurare nel supporre che il termine Tzipulas sardo possa derivare dall’italiano Zeppole, sappia che la radice comune non è nè italiana nè latina, ma accadica, cioè assiro-babilonese, in altre parole, com’è ovvio per chi conosce la Storia della Sardegna, dell’Italia e del mondo, la lingua sarda non è certamente nata nè dall’italiano e nemmeno dal latino (nato almeno 2000 anni dopo la civiltà sarda c.d. nuragica), ma invero contiene una percentuale altissima di lemmi che trovano proprio nell’area linguistica semitica orientale la loro chiara ed incontestabile origine. Nel caso delle Tzipulas il termine accadico è esattamente Ki-pu, con il significato di stampo, cosa plausibile proprio osservando il modo di darle forma durante le prime fasi di cottura (fonte: vocabolario etimologico sardo del Prof. Salvatore Dedola)

Che la foga traduttiva di troppi sardi sia assolutamente sciatta e priva di qualsiasi valore culturale è confermato proprio dalla traduzione grossolana di molti dolci sardi, traduzione che finisce di fatto per creare una nuova parola che non esiste nè nel vocabolario sardo nè nel vocabolario italiano e questo è proprio il caso del termine irricevibile di Zippole, termine inventato di sana pianta frutto di un maldestro adattamento, che viene usato esclusivamente dai cittadini sardi nel pietoso tentativo di tradurre in italiano il caratteristico termine sardissimo Tzipulas.

Continuo a non comprendere questa foga traduttiva di tutto ciò che è sardo; di questo passo arriveremo a scrivere e dire “sa finestra (anzichè sa ventana(, sa bottiglia (in luogo di s’ampulla) e su bicchiere (in luogo di sa tazza), una vera e propria iattura che con il tempo cancellerebbe con un colpo di spugna una delle note più vere della nostra nazionalità non riconosciuta: la lingua.

Lancio a tutti i produttori sardi di prodotti tipici sardi caratterizzati da una ricetta tipica e dal gusto tipicamente sardo di prendere coscienza della grossa responsabilità che rivestono nella loro funzione di promotori di questi prodotti che devono rispettare appieno, al fine della loro reale tutela e tutelabilità, non solo determinate ricette, l’uso di determinati ingredienti, ma anche i nomi tradizionali, capaci in sè di esprimere un valore incommensurabile, un quanto espressione di una cultura millenaria. Ci sono ovunque nel mondo aziende disposte a pagare milioni di euro pur di poter disporre di marchi potenzialmente riconducibili a secolari tradizioni culinarie e noi che questi marchi li abbiamo ereditati dai nostri avi, ne facciamo pessimo uso.

P.S- Ringrazio Anthony Muroni per la foto.