Nuraghi, templi alla luce…

Etimologia del nome Nuraghe, di Salvatore Dedola

NURAGHE
Al nome di questo monumento sinora è stata confiscata persino l’esistenza. Al suo posto c’è un’overdose di assonanze e concettualizzazioni posticce, mai indagate criticamente.
Per una incredibile cocciuta renitenza, della quale dovranno rispondere davanti alla storia della cultura, gli accademici si sono sempre opposti ad affrontare le etimologie dello scibile sardo mercé i dizionari. Certuni hanno preferito affrontare le etimologie con l’uso della Cabala, altri hanno inventato radicali mai esistiti, anziché aprire i dizionari, esclusivamente i dizionari (e le rispettive grammatiche) delle antiche lingue mediterranee. In alternanza con la Cabala e con l’invenzione di assurdi radicali, gli accademici si sono soddisfatti con la sirena altrettanto perniciosa delle assonanze, in forza delle quali niente vieta di equiparare il sardo casu in quanto ‘formaggio’ all’it. caso in quanto ‘probabilità’. Eppure sì, hanno preferito orecchiare le assonanze (qualsiasi ne fosse l’esito), pur di non acquisire e non consultare tutti i dizionari e tutte le grammatiche affacciatisi nel Mediterraneo sin dal primo balbettio della cultura. Vivaddio, un etimo è tale se lo si indaga attraverso i dizionari con tecnica archeologica, scendendo livello dopo livello sino al primo apparire del radicale omo-fonico ed omo-semantico, il quale spesso dimostra di essere stato usato dai Nuragici almeno 800 anni prima che sul Palatino nascessero le prime capanne.
Chi immagina che nuraghe sia formazione moderna o al più medievale (da sardo nurra ‘cavità’, ‘mucchio di pietre’), si dispensa dall’indagare le mutazioni della cultura sarda e, andando al contrario, cerca di puntellarsi disperatamente su un qualsivoglia “ipse dixit”, che però non traspare dal pensiero dei “secoli bui” (600-1000 dell’Era volgare), allorché i preti bizantini in Sardegna assunsero il compito di stravolgere, senza testimoni, l’antica cultura ed ogni parola-chiave ad essa connessa, rielaborandola, affliggendola con contrappassi e satanizzazioni, giocando ad libitum proprio con le assonanze. Così avvenne per la nurra.
Ovvio che la Nurra (un territorio sassarese) prese nome, per espansione territoriale, da Nure, Nurae, a quei tempi l’unica città esistente nel nord-ovest. E tutto depone a scoprire che quella città fu dedicata al Dio Sole. La filiazione Nurra < Nure < Nora < accadico nūru ‘luce’ sembra persino ovvia. A sua volta quel concetto semitico era stato ripreso dalle sillabe sumeriche nu ‘creatore’ + ra ‘Dio’, agglutinate per legge fonetica proprio in nur-ra ‘Dio Creatore’, ‘Dio Iniziatore dell’Universo’. Poiché dappertutto nel Mediterraneo il Creatore fu identificato materialmente nel Sole (cfr. egizio Ra ‘Sole’, ‘Luce’, ‘Dio’), da lì nacque l’interfaccia Dio-Sole-Luce, e quest’ultima in semitico è detta ancora oggi nur, da accadico nūru ‘luce’. Nulla di nuovo nel Mediterraneo da 5000 anni a questa parte.
Debbo ora chiarire che cosa c’entri questa agglutinazione sumero-semitica significante ‘luce’ con la nurra intesa come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’. Il concetto deriva proprio dal tabernacolo del Nuraghe, dalla thólos, la camera sacerdotale, il sancta sanctorum impenetrabile e buio, la parte vuota del nurághe contenente lo spirito di Dio.
Badate bene che la tholos non era chiamata originariamente nurra! Però i preti trovavano insopportabile quel nur-ra, un epiteto del ‘Dio dell’Universo’. A quanto pare il nuraghe ancora nel VI secolo dell’Era volgare era adorato come simbolo del Fuoco-Sacro, come ‘altare della Luce’, come monumento al Dio Sole. Per quei preti c’era urgenza d’inserire il verme della dissoluzione, cominciando proprio dal vuoto vaginale della thólos (fuso carnalmente con la virga del nurághe, vuoto-per-pieno, simbolo unitario del Dio-della-Luce). Così essi demonizzarono tutto quanto atteneva alla santità del nuraghe. E le voragini terribili ed imperscrutabili del Supramonte furono additate come l’ingresso dell’Inferno. Alla sacra tholos fu imposto il nome nurra ed essa fu additata come contenitore delle tenebre sataniche dove il Diavolo celebrava i riti per propiziarsi il furto delle anime.
Sappiamo che i Romani, rispettosi dell’altrui religione, non scalfirono mai un nuraghe. Diecimila altari furono trasmessi intatti dai Romani sino all’avvento dei preti bizantini, allorché tutto precipitò nell’ignominia.
Va da sé che il contrappasso medievale di nurra in quanto ‘mucchio di sassi’ non è contraddittorio. Esso fu la conseguenza del modo spregiativo imposto dal clero nel considerare il nurághe: doveva essere considerato un ‘mucchio di sassi’. Ecco uno dei tanti esempi di come nei “secoli bui” fu sbranata la cultura sarda. Mancando al riguardo lo “ipse dixit” di uno scrittore medievale, oggi spetta allo studioso di penetrare nel buio culturale creato dai preti e illuminarlo con l’intuizione e l’interpretazione, nonché con l’ausilio delle grammatiche e dei dizionari del Mediterraneo, con i quali riusciamo a “bucare” scientificamente lo strato latino e l’ideologia imperiale.
Occorre dire la verità sui nuraghi. Attenti a schivare i luoghi comuni e gli accostamenti maldestri, viene da chiedersi in ultima istanza, razionalmente, che cosa fossero realmente i nuraghi. Dai concetti mediterranei che ho indagato nel mio “Dizionario Etimologico della Lingua Sarda” e nel mio “Dizionario Etimologico del Sassarese”, apprendiamo che la Sardegna, nei millenni precristiani, non aveva affatto penuria di parole per indicare altrimenti una “torre”. Semplicemente, disdegnava per essa l’uso di tūrre ‘rifugio’ in quanto quel termine gli era già servito per i porti-estuari (vedi l’etimo di Porto Torres). Preferì altri due termini. Il primo indicava la ‘torre difensiva’, e la chiamò dimtu (come gli Accadi), da cui il cognome sardo Denti (non a caso la torre difensiva ha la sagoma di un molare).
Il secondo concetto mirò a definire la “torre sacra”, e la chiamarono nurágu, nurághe, nuraki. Questa dai Babilonesi era detta nuḫar, ed era il tempietto posto in cima agli ziggurat, il quale – stando alle descrizioni degli archeologi – aveva proprio la forma dei nuraghes. Ma è la lingua sumera ad aver lasciato il significato profondo di questo nome venerando. Esso è tri-composto, nu-ra-gu (vedi il nome del villaggio Nuragus, evidentemente edificato in onore del Dio-Sole), da nu ‘creatore’ + ra ‘fulgido’ (vedi egizio Ra, il Dio-Sole) + gu ‘forza, complesso, interezza’ (di edificio). Nuragu significò ‘chiesa del fulgido creatore’. Esso era il tempio del Dio-Sole. In campidanese è chiamato nuraxi (effetto di lenizione dell’antica -k-); quindi il nome più arcaico è certamente quello del centro Sardegna, ossia nurake, nuraki. In questo caso è congruo interpretare il terzo componente dal sumerico ki = ‘luogo, sito’. ed indicare nuraki come ‘luogo del Dio Sole, luogo del Fulgido Creatore’.