La guerra ibrida russa dell’informazione distorta
Guerra ibrida, Intervento per Chieti dello studioso Adriano Bomboi (19-07-2025)
In questo preciso momento, dal nord al sud del Paese, esistono tantissimi italiani che reputano nociva l’Unione Europea e ammirano la Federazione Russa per ragioni che non hanno nulla a che vedere coi dati socioeconomici reali, dati in cui evidentemente le democrazie europee primeggiano sulla Russia. Tutto ciò è il prodotto di una guerra ibrida, e in particolare di una guerra cognitiva condotta sia tramite i media tradizionali che i social network.
Ciò significa che ci siamo riuniti in ritardo, perché ci siamo accorti della gravità del problema solo nel momento in cui questa guerra dell’informazione si è già estesa e ha già prodotto dei risultati. Certamente non si tratta di tutti i risultati sperati dai suoi promotori, ma hanno comunque ottenuto effetti di una certa rilevanza pubblica. E si tratta di una guerra pianificata e avviata diversi anni fa, ben prima dell’avvio del più maldestro e sanguinoso conflitto convenzionale a spese degli ucraini.
Con ogni probabilità, mentre parliamo, capitali come Mosca e Pechino stanno lavorando su modelli di comunicazione, basati pure sull’intelligenza artificiale, che saranno sempre più subdoli e pervasivi nella capacità di condizionare e manipolare le nostre opinioni pubbliche per finalità politiche.
Possiamo immaginare la guerra ibrida come una catena: ogni anello rappresenta l’elemento di una finalità funzionale al regime che l’ha lanciata, in questo caso russo.
Per esempio, abbiamo un anello che esalta la forza militare russa e il presunto ordine della società plasmata dal governo di Putin. A seguire, abbiamo un altro anello che mette in cattiva luce i governanti italiani ed europei, presentandoli come presunti “nazisti guerrafondai”, e un altro anello ancora che promuove determinati politici italiani, non necessariamente corrotti, che ripetono narrazioni analoghe a quelle del Cremlino. Tutto ciò è congeniale all’ultimo anello della catena: spingere i nostri governi ad adottare politiche compiacenti a quelle di Mosca, in modo che quest’ultima venga agevolata anche sotto il profilo militare.
Secondo il politologo lettone Jānis Bērziņš, la guerra ibrida russa si avvale sia della sfera civile che di quella militare per arrivare ai propri scopi di dominio. Infatti l’una non è separata dall’altra, agiscono in stretta continuità, condizionandosi a vicenda in base all’evoluzione del contesto.
Le autocrazie asiatiche fanno leva sulla “trappola del consenso” presente nelle nostre democrazie, perché annullano il confine tra propaganda e libertà di espressione, al fine di convincere i nostri elettori, che poi a loro volta opteranno per politici dediti e riciclare gli stessi contenuti pur di essere eletti o rimanere al potere. Si tratta di un circolo vizioso. E qui entriamo in gioco noi comuni cittadini, gli esperti e gli organi istituzionali. Perché chi è consapevole del problema ha il dovere di spezzare la catena prima che imprigioni sempre più la nostra democrazia spingendola verso una pericolosa accondiscendenza a nemici che intendono relativizzare e smontare pezzo dopo pezzo la nostra libertà.
La sfida è particolarmente difficile, la nostra battaglia andrà probabilmente combattuta con diversi strumenti: culturali, tecnologici, normativi e giudiziari, e che richiederanno ingenti risorse da investire, per cui il peso economico UE e dei Paesi NATO potrebbe rivelarsi estremamente utile rispetto alle finanze e alle competenze dei singoli Paesi membri. Non con l’obiettivo di censurare, incarcerare o mettere all’indice qualcuno, cosa che da liberale disapprovo, ma forse di contenere e circoscrivere il più possibile l’azione di troll fisici e digitali che diffondono fake news antioccidentali. Si tratta di strumenti che a loro volta potrebbero essere considerati autoritari dalle stesse persone che non si fanno scrupolo nell’utilizzare la nostra democrazia, e la lentezza delle istituzioni nell’inquadrare e contrastare il fenomeno, per amplificare la loro propaganda. Ma credo che nessuno ad oggi abbia soluzioni facili a portata di mano, anche in considerazione del fatto, come ci insegnò il politologo Thomas Schelling nel suo celebre saggio “Arms and influence”, che il terreno del dibattito da solo non è sufficiente per affrontare la minaccia. Perché la propaganda non si basa necessariamente su elementi concreti e confutabili, ma anche sull’illusione del possesso di una forza soverchiante, influenzando così l’orientamento dei destinatari del messaggio, timorosi di subirne le conseguenze. Pensate alla bufala dell’invincibilità russa o alle sue minacce atomiche rispetto ai Paesi NATO.
Bisogna anche aggiungere che, nonostante i nostri ritardi, le istituzioni non si trovano del tutto all’anno zero, e dei passi importanti sono stati già avviati. Per esempio, abbiamo avuto notizia della riuscita operazione della Polizia di Stato, in collaborazione con l’Europol, dell’identificazione e dello smantellamento di un noto gruppo di hackers russi, attivi tanto nella guerra cibernetica quanto nella disinformazione, che in Italia e in altri paesi europei gestivano una rete di circa 600 server, utili ad attaccare le nostre infrastrutture critiche.
Il nostro Esercito dispone inoltre da tempo di un’Arma delle Trasmissioni, come ben ci potrà illustrare il Generale Pietro Serino, penso anche al battaglione “Gennargentu” di Cagliari. Le cui funzioni, prima strettamente militari su teatri di guerra esteri, come sostiene il politologo svedese Mikael Weissmann, potrebbero assumere sempre più un ruolo a 360 gradi, data la natura composita dei moderni conflitti in corso: per la cyber sicurezza, o la protezione della logistica e l’uso crescente di droni anche per attività di sorveglianza e intelligence. Pensiamo alla Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence di Tallin, ma pure alla protezione delle strutture di telecomunicazione, dei cavidotti sottomarini dai sabotaggi, e a tutta un’altra serie di azioni associabili ad “aree grigie” di pertinenza militare.
In Sardegna abbiamo inoltre la più vasta presenza di servitù militari d’Italia. Una responsabilità che dovremmo condividere maggiormente con altre Regioni, senza però rinunciarvi, ma anzi approfondendo la nostra capacità di deterrenza. Perché in una recente intervista, il Generale Chiapperini ci ha ricordato che l’Europa e già sotto attacco attraverso varie modalità, e il Mediterraneo sarà uno dei maggiori fronti caldi su cui tenere alta l’attenzione. Pensiamo pure ai tentativi di accesso della Russia all’interno del contesto libico, nel territorio controllato da Haftar. Nel presente non è una minaccia di rilievo, ma nei prossimi anni potrebbe diventarlo. Per chi non lo sapesse, l’esercitazione militare Joint Stars di quest’anno ha evidenziato che a Cagliari la nostra Difesa sarebbe in grado di fermare la maggior parte dei missili e dei droni lanciati contro la città, ma il test ha comunque registrato il passaggio di sei missili a causa della saturazione della contraerea, e il rischio riguarda tutta Italia. Dunque abbiamo ancora molto su cui lavorare.
Allo stesso tempo, sotto al profilo civile, ricordo che il mondo scientifico e accademico possiede già una competenza in materia di guerra ibrida. E sta affinando una metodologia analitica che potrebbe operare sempre più in sinergia con i decisori politici, per interpretare al meglio le dinamiche del problema, e aiutare il legislatore ad individuare i passi normativi più efficaci. La giornalista Anne Applebaum ritiene che dovremmo realizzare standard internazionali in grado di monitorare l’intelligenza artificiale, prima che siano le autocrazie ad imporci i propri modelli.
Per tutto il resto il problema andrà inevitabilmente affrontato sul piano culturale, e le scuole dovrebbero trovarsi in prima linea su questo fronte. Anche in questo caso, non per indottrinare, come suggerirebbe qualche populista, ma per esporre i progressi delle liberaldemocrazie occidentali, in termini di benessere, conquiste tecnologiche e libertà civili, rispetto ai modelli asiatici esistenti, e al reale tenore di vita e libertà dei loro cittadini. Unica strada per cercare di ridurre la platea di potenziali utenti della propaganda che circola sui nostri smartphone.
Disgraziatamente, la situazione organizzativa, didattica e culturale della nostra istruzione, docenti compresi, non appare ancora all’altezza di un compito simile. Una minoranza di professori fa persino parte del problema e ne ripete gli schemi, alimentando i temi di una guerra cognitiva di matrice psicologica, che permea abilmente anche gli orientamenti ideologici dei destinatari. Si pensi alla tragedia nella tragedia del conflitto israelo-palestinese, dove una parte della propaganda russa ha utilizzato il conflitto mediorientale – anch’esso meritevole di attenzione – come argomento da mettere in bocca all’eterogenea galassia pacifista, per sottrarre attenzioni politiche alla vicenda ucraina. In questo caso con un relativo successo in termini di consenso popolare, perché sollecita le suggestioni benaltriste del pubblico.
Nonostante tutto, il primo passo per combattere la disinformazione è la consapevolezza e la necessità di non abbandonarsi al disfattismo, perché è esattamente ciò su cui conta il nemico: la nostra indifferenza, e l’idea che presto o tardi ci stancheremo di combattere.
Non mi dilungo oltre, temo che di questi argomenti continueremo a parlarne sempre più nel futuro. Lascio la parola ai presenti, grazie a tutti per l’attenzione.
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