Carta de Logu Noa, un nuovo Statuto per la Sardegna

Associazione Sardegna Federale

Manifesto politico-culturale

Presentazione

Questo documento rappresenta la visione dell’Associazione rispetto a ciò che la Sardegna vorrebbe e dovrebbe diventare all’interno di una cornice giuridica e istituzionale di tipo federale.

La responsabilità di ciò che è scritto lo si deve ai fondatori dell’Associazione e, segnatamente, in ordine sparso, alle seguenti persone: Gavino Guiso, Adriano Bomboi, Donatella Gallistru, Camillo Gosamo, Gavino Guiso, Giuseppe Melis, Renato Orrù, Piergiorgio Pira, Giovanni Scanu e Massimo Bacciu, Corrado Putzu e Andrea Riccio, con il contributo esterno di Francesco Casula del quale abbiamo fatto nostre alcune considerazioni riguardanti il federalismo di Emilio Lussu. Egli, pertanto, non ha alcuna responsabilità sul testo considerato nel suo complesso.

Estensori del Manifesto:

– Giuseppe Melis (docente di economia e gestione delle imprese all’università di Cagliari; capitoli deputati ad illustrare il contesto storico-istituzionale);

– Adriano Bomboi (saggista, capitoli deputati ad illustrare i principi dell’associazione ed il contesto socio-economico);

– Piergiorgio Pira (dott. commercialista, capitoli deputati ad illustrare la normativa fiscale e la sua possibile evoluzione).

Indice

  1. Lo scopo principale di Sardegna Federale
  1. La ricerca del benessere
  2. Le nostre ambizioni
  1. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.
  1. Il contesto di riferimento
  2. La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione
  1. L’Italia: una repubblica con tanti limiti e fondata sul debito pubblico

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

3.2 La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

3.3 Una economia poco produttiva.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

3.5. Quale contesto economico-culturale?

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

3.9. Un popolo in pensione.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

3.11. Una fotografia del presente.

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

  1. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

4.2 Il contributo della scienza economica

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

  1. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

  1. Per una ridefinizione democratica e pacifica delle relazioni tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

6.1.1 Il diritto alla felicità

6.1.2 Il diritto alla pace

6.1.3 Il diritto al lavoro

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

Alcune conclusioni

1. Qual è lo scopo principale di Sardegna Federale?

1.1. La ricerca del benessere

Sardegna Federale esercita ed interpreta ogni proposta di cambiamento, ogni posizione ed ogni impegno civico nel solco del raggiungimento del benessere della popolazione. Benessere che può essere raggiunto solamente attraverso un processo di studio e analisi delle risposte da offrire alle maggiori problematiche della Sardegna contemporanea, e che passano inevitabilmente per un necessario percorso di riforme utili ad uscire dalle sabbie dell’immobilismo.

Tale processo, che ha nella riforma dello Statuto di Autonomia il suo baricentro, non ignora i rilevanti ostacoli al cambiamento che oggi impediscono all’isola di costruire un domani migliore, sia esso di ordine politico, istituzionale, economico e culturale. E ciò nondimeno, con umiltà, espone il bisogno di immaginare una Sardegna diversa, proponendola a chi vorrà o saprà ascoltare. Esprimendo, soprattutto, l’esigenza di contribuire all’evoluzione del dibattito politico, affinché si pianti il seme per la diffusione di nuove riflessioni destinate ad arginare il trend di declino in cui la comunità sarda, come mostrano diversi dati, si è drammaticamente adagiata.

Sardegna Federale si propone altresì di contribuire al dibattito per un miglioramento dell’organizzazione e delle istituzioni europee in termini di maggiore rappresentatività delle autonomie locali, per lo snellimento delle burocrazie centrali ed una maggiore competitività, in chiave elvetica, con particolare riferimento ai settori del fisco, del lavoro, del commercio e dell’innovazione scientifica.

1.2. I nostri intenti?

La base di partenza del ragionamento risiede nella constatazione di dover immaginare un contesto sociale ed economico in cui gli individui siano tutelati e valorizzati in quanto tali e, nel contempo, possano sviluppare relazioni di varia natura, sulla base del principio che ci sono argomenti, materie e temi che possono trovare soluzione solo in una prospettiva di tipo collaborativo e che per questo occorre avere possibilità di decisione a un livello che non può essere solo quello individuale. Ciò che, sulla base delle conoscenze attuali conduce a un sistema di tipo federale.

Ecco, quindi, che il primo intento dell’Associazione è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il federalismo, interno ed esterno all’isola, garantisca lo sviluppo socio-economico, nonché un radicamento del potere a livello più vicino a quello dell’individuo per poi attribuirlo a livelli di decisione superiori per tematiche di interesse comune, fino ad arrivare al livello mondiale. Si tratta di una prospettiva che, tra le altre, vuole essere uno strumento di responsabilizzazione e trasparenza nell’amministrazione della spesa pubblica, senza pretendere né sostenere rapide o scontate capacità di successo.

Un altro intento è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la democrazia sarda, nella strada verso la dignità, amministri il proprio settore pubblico grazie alla ricchezza locale, limitando il ricorso a trasferimenti economici e la delega di funzioni di governo del territorio da/a terze istituzioni.

Analogamente ci si propone di costruire le condizioni per arrivare ad un contesto istituzionale in cui la democrazia sarda acquisisca e amministri gradualmente, in modo autonomo, con proprie risorse, sempre più funzioni e servizi destinati alla cittadinanza ed oggi gestiti dallo Stato, sino ad un’eventuale concordata e piena sovranità, tramite referendum, nel quadro del Diritto Internazionale e sulla base del principio di sussidiarietà.

Occorre altresì costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la politica miri a ridurre il proprio protagonismo nella tendenza a presidiare ogni ente, fondazione o pubblico servizio, fenomeno che oggi causa alti costi e detrimento dell’efficienza a danno dei contribuenti, senza peraltro garantire la finalità pubblica cui dovrebbe ispirarsi. La politica, in altre parole, deve stabilire valori e principi e verificarne il raggiungimento da parte degli attori chiamati a proporre, secondo criteri di efficienza ed efficacia, il loro perseguimento.

Riteniamo altresì necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il merito individuale non venga oscurato dall’eventuale mediocrità al potere né annichilito dalla sua incompetenza. In tale ambito, il successo personale deve trovare affermazione senza subire il peso dell’invidia sociale, del nepotismo e del clientelismo.

Nel contempo è indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società più equa, con maggiore mobilità sociale, in cui anche i meno abbienti possano ambire alla crescita della propria ricchezza culturale e materiale. Perché questo possa avvenire è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui lo studio, nelle sue molteplici modalità, non venga ritenuto superfluo, ma strumento di crescita personale, di crescita sociale e di affermazione professionale.

Coerentemente con tale prospettiva è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’impegno, la determinazione e lo spirito imprenditoriale vengano promossi rispetto alla tutela assistenziale.

L’obiettivo deve essere quello di costruire le condizioni per arrivare ad un habitat culturale, politico, fiscale e burocratico capace di stimolare e attrarre ricerca, innovazione e investimenti, interni ed esterni all’isola. Analogamente, ciò deve accompagnarsi con interventi volti a costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’innovazione tecnologica, comprese quelle legate all’intelligenza artificiale, venga interpretata come un’opportunità di sviluppo e non alla stregua di un insidioso mutamento in negativo.

Vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la produttività totale dei fattori premi adeguatamente il reddito dei lavoratori. Così come vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il libero scambio della cultura e del commercio, seppur unite alla preservazione e valorizzazione delle tradizioni locali, oscurino volontà protezionistiche e lesive tendenze nazionalistiche. Una formula orientata al civic nationalism come strumento di garanzia della nostra società.

In quest’ambito ci proponiamo di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la storia, l’archeologia e i beni culturali sardi rappresentino un patrimonio collettivo degno di adeguati studi e di efficace promozione, a partire dal loro insegnamento durante la scuola dell’obbligo.

Ciò è premessa imprescindibile per costruire le condizioni per arrivare ad una società il cui tessuto produttivo trovi una via autonoma alla crescita e alla diversificazione dell’economia locale.

Quanto indicato in precedenza è presupposto indispensabile per costruire le condizioni per arrivare ad una società che sappia attrarre i giovani, frenando l’emorragia dell’emigrazione, consentendo di investire in loco il talento individuale.

Coerentemente con quanto fin qui indicato vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la tutela dell’ambiente rappresenti uno strumento di decoro civico ed una risorsa destinata a garantire il reciproco benessere dell’individuo, dell’economia e del suo habitat.

Vogliamo quindi costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui si guardi alla comunità internazionale, tra cui l’Unione Europea, non come vincolo allo sviluppo, ma come strumento di opportunità collettive di crescita da interscambi culturali e commerciali.

Coerentemente con questa visione liberale della società vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui siano rispettati sia i diritti civili individuali che quelli di ogni minoranza.

In tale prospettiva di valorizzazione delle diversità riteniamo indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il plurilinguismo, tra cui il sardo, l’italiano e l’inglese, sia considerato non un limite ma un valore aggiunto nella formazione e nella comunicazione tra individui.

Infine, sulla scorta di pensatori e uomini illustri quali Giovanni Battista Tuveri, Giuseppe Todde, Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Gianfranco Pintore, Luigi Einaudi, Ludwig Von Mises, Konrad Adenauer, Karl Popper, Albert Dicey e Thomas Jefferson; ed in linea con mirabili esperienze intellettuali, istituzionali e costituzionali, come quella dei Federalist Papers, del Commonwealth britannico, del Liechtenstein e della Confederazione Elvetica, guardiamo ad una nuova stagione di riforme.

Nelle pagine successive cerchiamo di dare risposte alla domanda di sostegno dei cambiamenti auspicati in questo punto.

2. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.

2.1 Il contesto di riferimento

A distanza di oltre 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana e dello Statuto speciale della Sardegna, quest’ultimo approvato con legge costituzionale il 26 febbraio 1948, si rende necessaria una riflessione sulla capacità di entrambe queste carte di rispondere in modo efficace ed efficiente alla nuova situazione venutasi a creare per effetto dei cambiamenti ambientali di tipo politico, sociale, culturale, scientifico e tecnologico, intervenuti sia a livello mondiale che euro-mediterraneo.

Rispetto ad allora, infatti, i confini hanno mutato natura sia di diritto che di fatto, sia sul piano mondiale che su quello più vicino rappresentato dai contesti europeo e italiano. In particolare, tale mutamento, si manifesta nella molteplicità di tali confini e nel fatto che ciascuno di essi assolve a molteplici funzioni: da un lato demarcano e segnano differenze, da un altro mettono in relazione diversità legittime e meritevoli di tutela e, da un altro ancora, svolgono una funzione di selezione e filtro rispetto ad altre relazioni tra popoli e loro aggregati politico-istituzionali.

Nello specifico, sul piano mondiale non si può non tenere conto del fatto che, da quando sono nate la Costituzione italiana e lo Statuto della Sardegna, le cose siano cambiate in modo talmente significativo che oggi quella situazione non esiste più: innanzitutto sono venuti meno gli accordi di Yalta che avevano sancito la divisione del mondo in due sfere di influenza, una sotto il dominio USA e l’altro sotto quello dell’URSS. Da allora, sul piano politico l’URSS non esiste più, la Cina è diventata un soggetto tanto potente da entrare nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e nel contempo, altri Stati in Asia, come nell’America Latina, hanno cambiato il proprio ruolo, accrescendolo in termini di capacità di influire sulle vicende mondiali. Ciononostante, le istituzioni mondiali create dopo la Seconda guerra mondiale sono rimaste pressoché immutate e l’ONU, in particolare, è sostanzialmente bloccata dal perdurare del diritto di veto esercitabile da uno qualsiasi dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e, di conseguenza, incapace di agire efficacemente e con puntualità, soprattutto di fronte a problemi come i conflitti tra stati e, segnatamente, tra quelli in cui è coinvolto uno qualunque degli Stati del Consiglio di Sicurezza. Rendendo peraltro flebile l’uso del diritto come strumento di composizione delle controversie.

Dal punto di vista commerciale la nascita degli accordi GATT che hanno originato l’attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) hanno creato i presupposti per la progressiva abolizione e riduzione delle barriere doganali favorendo il libero commercio di beni e servizi e l’affermarsi del fenomeno della globalizzazione che porta con sé una serie di implicazioni, sia positive che negative.

Sul piano economico e monetario, dopo il venir meno degli accordi di Bretton Woods1, allorché il Presidente USA Richard Nixon dichiarò unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro in oro il 15 agosto 1971, gli europei, dopo alterne vicende riuscirono, grazie agli accordi di Maastricht del 1992 a mettere a disposizione degli scambi commerciali mondiali l’euro, utilizzabile anche come moneta di riserva da affiancare al dollaro. Questa scelta che è servita a restituire stabilità al commercio mondiale da un lato e, agli Stati europei aderenti all’accordo dall’altro, la possibilità di contenere l’inflazione e di non subire più la volatilità derivante da operazioni speculative, non è riuscita ad esprimere tutte le potenzialità, dal momento che si è dato seguito soltanto all’unione monetaria ma non anche a quella economica che avrebbe richiesto, invece, una armonizzazione, che non c’è stata, sul piano della fiscalità e dei sistemi di welfare e tutela del lavoro.

Sempre sul piano europeo, la nascita del processo di integrazione, in parte frutto della capacità visionaria del federalista Altiero Spinelli, ma soprattutto di statisti come De Gasperi, Schumann, Monnet e Adenauer ha creato i presupposti di tipo economico, commerciale ed energetico perché da un lato si impedisse un nuovo conflitto tra popoli storicamente nemici e, dall’altro, ha creato i presupposti per far diventare il contesto dei paesi aderenti all’Unione, oggi arrivata a 27 Stati, la prima potenza commerciale al mondo. Senza scordare il fondamentale apporto degli Stati Uniti d’America.

Se l’approccio funzionalista ha permesso la nascita e ha favorito i primi allargamenti della Comunità inizialmente a 6, poi a 9 nel 1973, a 10 nel 1981 e a 12 nel 1986, di seguito ha perso di efficacia con i successivi allargamenti a nord e a est, incancrenendo i processi decisionali a questioni spesso marginali rispetto alle generali finalità definite dai padri fondatori. Infatti, la liberalizzazione dell’economia ha catturato completamente l’attenzione dei paesi aderenti e non è stata accompagnata da una altrettanto auspicabile liberalizzazione della democrazia che, nel rispetto del diritto di autodeterminazione dei popoli, dovrebbe ancora oggi porsi come vero e proprio laboratorio sperimentale di esperienze partecipative. L’UE, di converso, dovrebbe affondare le proprie radici nella condivisione di politiche inerenti principalmente alla difesa, i rapporti con l’estero e il bilancio, mentre, a tutt’oggi tale procedimento risulta del tutto disatteso o è molto debole, anche se il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato all’attenzione l’importanza di dotarsi di una politica europea di difesa, così come di una strategia comune in campo energetico, ambientale e di produzione di materie prime agricole.

In sostanza, a distanza di settant’anni esatti dall’entrata in vigore del primo accordo riguardante la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)2, si può affermare che se da un lato il processo di allargamento a nuovi Stati3 è stato ampiamente positivo per creare un contesto di cittadinanza europea, fondato sull’idea di una cultura inclusiva, aperta e collaborativa, dall’altro lato, la crescita di complessità non è stata accompagnata da provvedimenti che impedissero sia il progressivo incancrenirsi dei processi decisionali sia l’emergere di posizioni opportunistiche assai distanti dalle intenzioni dei padri fondatori. Il risultato della mancata gestione del processo di approfondimento e consolidamento in senso politico ha fatto sì che uno dei Paesi entrati col primo allargamento (il Regno Unito di Gran Bretagna) abbia deciso di uscire dall’Unione ponendo il problema di prevedere nei Trattati anche l’eventuale uscita dall’Unione, nel rispetto del fatto che gli interessi a partecipare e la delega sulle materie attribuite possono mutare nel corso del tempo4.

Certo è che il processo di integrazione europea ha modificato il concetto di “confine” degli stati nazionali rendendoli sempre più permeabili per rispondere alla necessità di favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, così come, di fatto, è nella consapevolezza di tutti che la crescita dei fenomeni migratori impone a tutta l’area dell’Unione europea nuove sfide in termini di creazione di condizioni inclusive delle molteplici diversità in essa presenti.

Questo significa che occorre una seria riflessione e revisione di tutto l’impianto istituzionale che va dall’Unione Europea agli Stati nazionali e da questi alle unità sub-statali, considerando con la dovuta attenzione la questione delle Nazioni senza Stato che coinvolge diversi territori ad ovest come a est, a sud come a nord del Continente europeo.

Di certo il processo di integrazione europea ha prodotto tali e tanti cambiamenti che sarebbe estremamente sbagliato non considerare nella loro globalità e complessità, sia positivi che negativi, circostanza questa che non deve permettere giudizi sommari volti a enfatizzare o demonizzare il percorso fatto fino ad oggi.

Nondimeno, sul piano scientifico/tecnologico l’evoluzione digitale ha favorito e favorisce la costruzione di reti e di relazioni che attraversano i confini degli Stati, abbattono le barriere linguistiche e culturali, permettono a ogni individuo di essere nel contempo parte della propria realtà locale e di quella europea e, più in generale, mondiale.

2.2 La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione

La premessa di cui al punto precedente è parte integrante del ragionamento che sta alla base della proposta di un nuovo Statuto di autonomia della Sardegna, poiché sarebbe metodologicamente errato ignorare che anche per questa terra e il popolo che la abita, il problema è quello di trovare, responsabilmente e da protagonisti, una adeguata e dignitosa collocazione del nostro stare nel mondo. Uno stare nel mondo che è, di fatto e di diritto, condizionato prima di tutto, volenti o nolenti, dall’appartenere sia alla Repubblica italiana che all’Unione europea. Tale appartenenza, infatti, è di certo all’origine di numerosi vincoli e condizionamenti negativi ma non si può sottacere che, dalla stessa scaturiscono importanti opportunità che occorre individuare e saper cogliere.

Sono queste ragioni che suggeriscono, responsabilmente, di rivedere lo Statuto della Sardegna all’interno dell’organizzazione complessiva della Repubblica italiana e, in prospettiva, dell’Unione europea; questo è propedeutico per comprendere in che modo la struttura dello Stato, nelle sue istituzioni centrali, possa essere più adatta e capace di agire per dare soddisfazione alle legittime, molteplici e diverse istanze provenienti dalle popolazioni presenti nei diversi territori dello Stato. A supportare questa esigenza c’è l’amara constatazione del fatto che l’attuale architettura istituzionale non è stata finora in grado di supportare efficaci azioni volte a impedire l’aumento delle differenze socioeconomiche tra le diverse aree mentre, di converso, l’attuale ordinamento non permette di attribuire valore alle differenze positive di tipo storico, culturale e linguistico che, anzi, nel tempo, sono state represse e perfino annullate se non anche criminalizzate.

Ciò implica una revisione della Carta costituzionale in modo da renderla strutturalmente adatta per far fronte alla nuova società in corso di formazione. Una revisione che mantenga saldi alcuni valori e principi che non tramontano e non devono tramontare ma che sia allo stesso tempo capace di accogliere istanze finora ignorate se non anche calpestate. Ecco perché serve una ridefinizione dei poteri metodologicamente coerente con il rispetto di valori e principi universali riconosciuti istituzionalmente ma negati sostanzialmente per effetto della prevaricazione di chi, avendo dei vantaggi dalla situazione esistente, voglia in modo miope ed egoistico continuare a impedire quanto già oggi la stessa Costituzione pone a base della formazione dello Stato italiano e i Trattati europei pongono a base della cittadinanza europea. In tal senso, infatti, i poteri attribuiti alle Regioni dalla Costituzione, anche dopo la riforma del Titolo V, appaiono inadeguati rispetto alla necessità di favorire quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 3 che recita:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

L’inadeguatezza dell’architettura politico-istituzionale è connessa con la necessità di riconoscere all’origine il principio in base al quale si è in grado di esercitare il potere e cioè che questo libero esercizio è possibile solo se si dispone degli strumenti e delle risorse necessari, ovviamente nel rispetto della responsabilità, cioè del fatto che chi decide risponde personalmente del proprio operato, nel bene e nel male.

Questo significa che non è solo una questione di materie sulle quali esercitare il potere, alcune in modo esclusivo e altre in modo concorrente con lo Stato, quanto di riconoscere per ciascuno dei livelli di potere decisionali la responsabilità e la capacità di stabilire le risorse utilizzabili allo scopo, a partire da quelle finanziarie ottenibili attraverso la fiscalità.

Se quindi lo Statuto originario ha attribuito alla Sardegna il potere di legiferare in maniera esclusiva su alcune materie (ad esempio: ordinamento degli enti locali, edilizia, urbanistica, agricoltura e foreste), mentre in altre (come sanità, assistenza pubblica) può legiferare nell’ambito dei principi stabiliti con legge dello Stato, con la riforma del Titolo V tali competenze sono state ampliate (ad esempio, ricerca e formazione professionale). Ciò che manca, tuttavia, è la possibilità di prevedere all’origine risorse proprie per ciascun livello decisionale, visto che tutte le entrate fiscali sono dello Stato e poi da questo trasferite alle Regioni. Questo è uno dei vulnus più evidenti che spingono a considerare non più rinviabile la revisione della Costituzione italiana e la costruzione di un nuovo Statuto che assicuri un livello reale e sostanziale di esercizio del diritto di autodeterminazione.

Nondimeno occorre evidenziare che l’attuale Carta costituzionale, nell’attribuire allo Stato centrale tutto il potere prevedendo che sia quest’ultimo a delegarlo a livelli istituzionali inferiori, legittima l’idea di una gerarchia che non si discosta da quello monarchico dal quale il popolo decise di volersi staccare col referendum del 1946. Sarebbe invece opportuno che, coerentemente con una idea reticolare e sistemica della società, la Carta costituzionale riconoscesse pari dignità a ogni livello politico-istituzionale, dal momento che la suddivisione del potere andrebbe realizzata nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di efficienza ed efficacia dell’azione politica.

Analogamente, ancorché il tema verrà sviluppato in un punto successivo, va chiarito fin d’ora che una democrazia compiuta si fonda sul coinvolgimento diretto e totale dei cittadini cui si rivolge un determinato ordinamento, sia esso lo statuto, la costituzione o un trattato internazionale. Questo, per noi Sardi, dal 1720 a oggi non è mai avvenuto. Anzi, i sardi hanno subito tutte queste decisioni senza mai esprimersi. La democrazia diretta è indice di maturità. Rifiutarla, significa che ci sono delle élite che si arrogano un diritto che non gli appartiene, quello di pensare di essere migliori di altri.

3. L’Italia? Una repubblica fondata sul debito pubblico.

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

Le ragioni fondamentali che inducono ad agire per modificare il contesto politico-istituzionale italiano, a dispetto della convinzione di possedere la “costituzione più bella del mondo”, sono due.

La prima è che la cultura politica largamente consolidatasi nell’isola, e in generale in tutto il territorio italiano, ha visto i partiti trasformarsi in meri comitati elettorali dediti a raggiungere il potere per incrementare la spartizione della spesa pubblica. Sia a vantaggio della propria replicazione al potere, sia a diretto vantaggio di ampie fette del proprio elettorato, in termini di sussidi di varia natura, tanto al reddito individuale quanto alle imprese.

Terminata infatti la stagione dei grandi idealismi politici, si è alimentata una prassi di governo che reclama diritti ma in assenza di doveri. E nonostante la presenza di alcune figure politiche preparate all’interno dei vari schieramenti, l’assenza di responsabilità nella gestione dei conti pubblici rappresenta il tratto unificante della linea assunta dalla quasi totalità di tali organizzazioni politiche. Un fenomeno di degenerazione del neokeynesismo amministrativo che ha avuto come principale conseguenza quello di alimentare la seconda ragione che motiva il nostro impegno.

Ci si vuole riferire, nello specifico, all’immobilismo politico, che a sua volta genera quello economico e sociale.

L’elargizione di sussidi e in linea generale di spesa corrente improduttiva, destinata non agli investimenti in crescita, ma ai consumi, rappresenta l’unico concreto collante nazionale italiano. Una tradizione che ha creato un ceto politico incapace di portare avanti riforme strutturali, il quale potrebbe altrimenti limitare la sua capacità acquisita di sviluppare nuovo consenso elettorale. Ragion per cui, nel momento in cui tale classe dirigente raggiunge i gangli del governo, locali o statali, si limita ad occuparsi di ordinaria amministrazione, senza aggredire le basi della nostra bassa competitività economica, e coinvolgendo media e intellettuali in un conformismo al ribasso. Un contesto in cui si moltiplicano progressivamente le varie crisi di settore, a cui si risponde con provvedimenti spot, dal tenore populistico, o tampone, rimandando nel tempo ogni soluzione, o accrescendo la dimensione dei problemi5.

Pertanto, l’uso sconsiderato della spesa pubblica accresce il debito pubblico, che a sua volta diventerà sempre meno sostenibile, in quanto l’incapacità di generare nuova ricchezza, dovuta a storici e consolidati gap economici e al crescente declino demografico, ne comprometteranno la solvibilità.

Per comprendere meglio quanto affermato è opportuno riferirsi ad alcuni dati come quelli pubblicati nei periodici bollettini statistici, tra cui quelli di Bankitalia, Istat, Eurostat, Ocse e, in ambito locale, Crenos, inerenti alla struttura della società sarda, che, purtroppo, dipingono una realtà drammaticamente in declino destinata a peggiorare ulteriormente la sua performance. A sua volta inserita nel più drammatico calderone del debito pubblico italiano, che nel 2024, secondo la Banca d’Italia, ha raggiunto la cifra record di 2.872,4 miliardi di euro.6

Cosa sta accadendo nell’economia sarda del primo ventennio del XXI° secolo?

3.2. La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

Le imprese reggono l’urto della fase pandemica, con una lieve tendenza alla crescita, ma stentano a tornare ai livelli pre-crisi. Preoccupa maggiormente il mercato del lavoro, spia della struttura reale della nostra economia e dunque della natura delle nostre imprese. Ciò poiché i lavoratori sardi si differenziano principalmente da quelli della penisola e ancor di più dal resto dei paesi dell’UE, per due elementi negativi: il primo riguarda il minor numero pro capite di ore lavorate, che non riguarda tuttavia professioni ad alto valore aggiunto che giustifichino il trend; mentre il secondo riguarda i più bassi salari dei sardi rispetto ai concittadini della penisola. Anche pari al 10,6% in meno7, aspetto tanto più grave se consideriamo che i salari medi italiani risultano già essere tra i più bassi di tutta l’area Ocse. Sono cresciuti infatti appena dell’1%, tra il 1991 e il 2022, rispetto al 32,5% degli altri Paesi8.

Figura _ – Mettere titolo

Fonte:

A cosa si devono queste differenze? Secondo Bankitalia «L’economia sarda si caratterizza infatti per una maggiore specializzazione nei settori e nelle classi dimensionali di impresa con salari orari più bassi, quali i servizi ricettivi e ricreativi e le aziende di piccola dimensione. Nel confronto con l’Italia, è inoltre proporzionalmente più elevata la quota di occupati che ricoprono mansioni meno qualificate. Anche la maggiore prevalenza rispetto al resto del Paese di rapporti a tempo determinato e stagionali influenza il divario salariale a sfavore della Sardegna.»

La bassa produttività della nostra forza lavoro è dunque uno dei principali motivi dell’esiguità dei nostri salari, su cui pesano (micro)imprese, per la maggiore, tecnologicamente arretrate e scarsamente diversificate verso altri settori. Imprese che, oltre ad un generale carico fiscale elevato, scontano pure un nuovo problema dovuto al fenomeno del labour shortage. Ossia la difficoltà di trovare personale in quantità e qualità adeguato e formato per le esigenze dell’impresa. Un problema oggi relativamente comune anche al resto d’Italia, e non solo.

Siamo inoltre al paradosso per cui, da un lato le imprese cercano figure professionali adeguate alle mansioni richieste, ma per contro, dall’altro, a causa del peso di fisco e burocrazia, propongono sottobanco contratti che, seppur in linea con la contrattazione collettiva nazionale del lavoro italiano, dequalificano le mansioni del singolo lavoratore. Per cui, anche laddove si trovasse un candidato valido per una determinata azienda, e nonostante gli indubbi miglioramenti apportati dal jobs act, esiste la sommersa tendenza ad assumerlo come “principiante”, o di una categoria più bassa di quella posseduta, pur di risparmiare qualcosa in busta paga, orientando poi tale lavoratore sia all’esercizio delle sue effettive competenze, che di altre mansioni che esulano da tali competenze. Anche questo fenomeno contribuisce a generare un mercato del lavoro low cost, in cui il lavoratore appare sempre e comunque la figura più debole nel rapporto con i propri principali. A sua volta, inoltre, esposto alle periodiche ondate inflattive che erodono ulteriormente il suo potere d’acquisto9.

3.3 Una economia poco produttiva.

L’Istat pone la Sardegna al penultimo posto d’Italia tra le Regioni per tasso di produttività. I Comuni sardi ospitano un tessuto del lavoro mediamente più produttivo della sola Calabria, vedere tabella al seguito:

???

(Pag. 3, dati rispetto alla media nazionale italiana, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, a. 2018, Roma, Istat, 30-12-2020).

La Sardegna risulta inoltre essere agli ultimi posti tra le Regioni nella capacità di attirare investimenti da multinazionali estere, a conferma dell’inefficienza generale del sistema Sardegna in ambito economico. Risultati confermati dall’Istat anche nel successivo rapporto del periodo 2020/21.

Figura _ – Investimenti esteri nelle diverse regioni italiane

Fonte: Il grafico mostra la quota di valore aggiunto sul totale per tipologia di unità locale e Regione nel 2018, a valori percentuali, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, Roma, Istat, 30-12-2020, p. 6).

Per comprendere da cosa derivi la bassa produttività del sistema economico sardo occorre soffermare l’attenzione sul capitale umano, come si evidenzia nel punto successivo.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

La scarsa formazione del nostro capitale umano rappresenta la base di tutti i principali problemi attorno a cui si è avvitata la società sarda. E non riguarda solamente cittadini, lavoratori e imprese, ma anche la classe dirigente, e precisamente il ceto politico chiamato a risolvere quegli stessi problemi di cui, tuttavia, è espressione. Basti un dato su tutti, in Italia, limitandoci ad un range di età di persone tra i 25 e i 34 anni, le persone dotate di una laurea sono appena il 29.2%, contro il 40.5% della Polonia, per intenderci, e il 50.4% della Francia.

La situazione peggiora ulteriormente se osserviamo la fascia di età adulta dai 55 ai 54 anni, in cui i laureati italiani scendono al 12,4% (Dati OCSE 2022).

Il problema genera a sua volta un limite di mismatch tra domanda e offerta di lavoro, con la conseguenza che, in un territorio in cui per la maggiore si sono sviluppate imprese a basso valore aggiunto, come la Sardegna, persino i laureati si trovano nella condizione per cui dovranno accettare in loco un lavoro inferiore alla propria formazione (nell’isola si tratta del 25,9% di occupati). O in ogni caso un lavoro per cui non sono sufficientemente formati. In entrambi i casi raccogliendo un salario medio-basso. (Pag. 112, Istat-BES 2022, Roma, 2023)

Per essere più precisi ed avere un’idea dell’entità della situazione, è necessario osservare i dati della Sardegna, che la collocano agli ultimi posti d’Italia (e d’Europa) per formazione dei propri giovani, unitariamente alla bassa performance della nostra istruzione, che non in rari casi tende ad attestare falsamente titoli su competenze che i maturandi in realtà non posseggono. L’indice Istat-BES indica che nel 2022 appena il 54,6% dei sardi di età compresa tra i 25 e i 64 anni possiede una qualifica o un diploma secondario superiore. Per intenderci, contro il 72% della Provincia Autonoma di Trento.

Figura _- Popolazione con educazione superiore

Fonte: Dati OCSE 2022 Occorre mettere il documento e il link

La Sardegna si trova al terzo posto, dietro Sicilia e Campania, per abbandono scolastico precoce, ed al primo posto d’Italia per l’abbandono scolastico maschile (pari al 20,7% di defezioni). I nostri giovani si trovano anche al 5° posto d’Italia tra le Regioni con maggiore incompetenza alfabetica, e al 4° posto d’Italia nella maggiore incompetenza numerica. E ciò ci porta ad una domanda conseguente, ossia, quanti sono i laureati in discipline tecnico-scientifiche (STEM) oggi indispensabili per tenere il passo con la crescita? Appena il 13,5% del totale. Un numero pericolosamente inidoneo a mandare avanti una società. (Pp. 77-86-95, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Eppure, i dati continuano a confermare che lo studio premia la capacità occupazionale. I sardi dotati di titolo di studio hanno un tasso di occupazione maggiore rispetto a chi si trova privo di formazione, con sfumature crescenti dal più basso al più alto gradino tra i due poli. Al 2022, nella fascia tra i 15 e i 64 anni, gli occupati tra chi ha titoli di studio medio-bassi si collocano al 54,6% degli uomini, e al 30,4% delle donne, mentre i diplomati uomini raggiungono il 69,6% e le donne diplomate raggiungono il 51,0%. Infine, i laureati, con gli uomini che raggiungono un tasso di occupazione pari al 79,8%, e le donne del 72,6%. Livelli in ogni caso inferiori alla media italiana, ma ampiamente indicativi del valore intrinseco della formazione.10

Ciò nonostante, in tutta Italia e nell’ultimo decennio, gli iscritti in discipline STEM sono cresciuti appena dell’1%, mentre rimane preoccupante il tasso di gender gap del sesso femminile. Ossia la minor propensione delle donne a scegliere tali branche del sapere, ed in seguito la modesta possibilità di trovare posizioni soddisfacenti nei rami ad hoc del mondo del lavoro.

(Nota Deloitte Italy S.p.a. su competenze STEM, Milano, 2024).

3.5. Quale contesto economico-culturale?

Di fronte ad uno scenario formativo a tinte fosche, come quello illustrato, Sardegna Federale pone al centro della sua azione la priorità dell’istruzione come pilastro essenziale della crescita. E purtuttavia, il contesto merita un ulteriore commento per capire l’eziologia della crisi in atto.

L’idea che studiare, letteralmente, “non serva” a nulla nell’isola rappresenta una vera e propria emergenza nazionale, sedimentata e ripetuta nel tempo per effetto combinato di vari fattori. Oggi sappiamo che un laureato STEM ha ben cinque punti percentuali di successo in più sul mercato del lavoro, con possibilità occupazionali che per l’intera media italiana raggiungono l’85,7%11. Eppure, l’isola sembra non tenere conto dei dati.

Storicamente, la Sardegna non ha mai conosciuto sensibili investimenti statali in istruzione, al punto che persino negli anni del boom economico italiano, il territorio è rimasto luogo di emigrazione verso terzi centri produttivi, come il Nord Italia, la Germania ed altri Paesi sviluppati. Infatti, in tempi in cui non esisteva l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i paesi ricchi erano meno numerosi e l’Italia era la “Cina dell’Occidente”, con forza lavoro low cost, larga parte della ricchezza prodotta nell’isola è derivata dal settore pubblico e dalle rimesse degli emigrati concentrati in tali poli industriali. Denaro confluito spesso irresponsabilmente non verso nuove iniziative imprenditoriali, per cui non vi era formazione né infrastrutturazione adeguata, ma verso un miglioramento del tenore di vita, grazie a maggiori consumi, e verso investimenti nel mattone, con conseguente deprezzamento del valore degli immobili in tempi in cui il territorio si è avviato ad una progressiva fase di spopolamento.

Pertanto, un’economia tecnologicamente arretrata come quella sarda, salvo note eccezioni, non richiedeva personale particolarmente qualificato, né si comprendeva che proprio una qualificazione di maggior livello avrebbe consentito di far sviluppare in loco nuovi investimenti che si portassero al di fuori del classico settore primario (agro-allevamento, peraltro assistito), e dai servizi (oggi prevalentemente rivolti alla stagionalità turistica), con esigue note di merito nell’industria, nelle manifatture e nel terziario avanzato. Studiare veniva e viene dunque erroneamente percepito come “un esercizio superfluo, che non muta sensibilmente le condizioni reddituali” del singolo individuo, e che, in modo abbastanza proverbiale, tale impegno “sottragga braccia all’agricoltura”.

Le nuove generazioni sarde hanno parzialmente ereditato la ricchezza citata, per un verso derivante da rendite di posizione ottenute da trasferimenti pubblici, e per altro verso dal duro lavoro delle generazioni precedenti, che ha migliorato i consumi a vantaggio delle famiglie, le quali si sono adagiate nella stagnazione e nell’immobilismo, con giovani che possono permettersi di stare nella casa dell’infanzia molto più a lungo dei propri genitori, che invece avevano necessità di entrare presto nel mercato del lavoro (non a caso la Sardegna si posiziona nel cluster delle Regioni più problematiche con alta presenza di NEET, cioè individui che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego, pari al 21,4% dei giovani).

In Sardegna sono appena il 4% gli scienziati e ingegneri presenti in rapporto alla popolazione attiva, mentre il settore privato investe per appena il 14% in ricerca e sviluppo, la più bassa quota d’Italia, pari ad appena 289 milioni di euro.12

La politica assistenziale ha ulteriormente aggravato il fenomeno, sacrificando la meritocrazia a vantaggio del clientelismo, contribuendo così a generare un contesto culturale in cui la competenza diventa un mero orpello simbolico di una società in realtà basata sulla cooptazione. E danneggiando infine, per diretta conseguenza, l’efficienza generale dei servizi offerti a cittadini e imprese.13

().

Da ciò ne deriva un contesto culturale ed economico cronicamente in ritardo con lo sviluppo, e perennemente esposto al rischio di povertà, con redditi medi inferiori a quelli della maggior parte delle Regioni italiane. La Sardegna ha un reddito lordo pro capite di 16.859 euro annui, contro, per capirci, i 23.862 della Lombardia e i 26.296 della Provincia di Bolzano. (https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-bes-2022-il-benessere-equo-e-sostenibile-in-italia/ Pp. 87-126, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Da considerare poi che ad aggravare ulteriormente il nostro quadro si uniscono terzi fattori capaci di incidere sensibilmente sulla qualità della vita dei sardi, i quali detengono primati poco invidiabili. Tra questi, uno dei maggiori tassi di suicidi di tutta la Repubblica, pari all’8,25%, dietro solamente alla Provincia di Trento (9,75%)14. Ed uno dei maggiori tassi di alcolismo nella popolazione di età compresa tra i 18 ed i 69 anni, pari al 66,2% del biennio 2021-2215.

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

In un territorio in cui la popolazione inattiva cresce rispetto a quella attiva, investire in produttività (per compensare il calo della forza lavoro), ed accrescere l’immigrazione, possibilmente qualificata, con un’oculata politica di controllo dei flussi, sono certamente strumenti utili ad arrestare il declino.

E perché puntare su questi argomenti? Perché grazie agli studi del Nobel per l’economia Robert Solow (1924-2023) e dei suoi successori, tra cui N. Gregory Mankiw, sappiamo che l’innovazione tecnologica è uno dei fattori principali che determinano la crescita di ricchezza di una nazione. L’innovazione porta ad un aumento della produttività, produttività che a sua volta genera un incremento dei salari.16

Al problema salariale e in generale alla rigidità del nostro mercato del lavoro occorrerebbe inoltre rispondere con una decentralizzazione della contrattazione collettiva, rimuovendo così l’aberrazione per cui in Italia, da nord a sud, territori con diverso livello di produttività e diverso costo della vita, debbano tenere un identico livello di remunerazione per i lavoratori. Una differenziazione contrattuale, inoltre, con la crescita della produttività, agevolerebbe anche la crescita dei salari.17

Si tratta di processi che oggi larga parte dei sardi, a partire da politici e “intellettuali”, sfortunatamente ignorano, puntando blandamente su settori che non garantiscono affatto una riscossa dell’isola.

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

Tra i vari fattori che penalizzano il mercato del lavoro locale, ma anche i bassi investimenti delle nostre imprese e soprattutto gli investimenti stranieri nel territorio, pesa indubbiamente il cuneo fiscale. Una responsabilità primaria dello Stato su cui purtroppo ad oggi la Regione non ha un’autentica voce in capitolo. Un peso, peraltro, non giustificato dall’esistenza di efficienti servizi pubblici statali, come invece accade in altri Paesi dell’area OCSE.

A tal proposito, il rapporto OECD Taxing Wages 2024 evidenzia che il cuneo fiscale italiano, per un lavoratore single, senza figli e percettore di retribuzione media, è salito nel 2023 al 45,1%. Al quinto posto tra i paesi dell’area; di 10,3 punti percentuali sopra alla media OCSE, calcolata nel 34,8% del costo del lavoro.

Osservando i singoli elementi che compongono il cuneo, si registra che l’Italia si colloca al 4° posto tra i paesi OCSE per i contributi sociali a carico del datore di lavoro; al 12° per le imposte sui redditi del lavoratore ed al 31°, in via temporanea, per i contributi sociali a carico del lavoratore.18

La situazione non migliora neppure quando spetta a Stato ed enti locali pagare i fornitori privati di beni e servizi, mettendo in difficoltà soprattutto le PMI, che non vedono ripagato in tempi brevi il frutto del proprio lavoro. La burocrazia del mezzogiorno appare più lenta nel soddisfare tali pagamenti, con l’intera Pubblica Amministrazione che al 2023 ha cumulato un debito commerciale di circa 50 miliardi di euro. Tra i ritardatari, ben 9 ministeri su 15. Sul podio, la maglia nera spetta a quello del Turismo, con un ritardo di 39,72 giorni, seguito dall’Interno, con 33,52 giorni di ritardo, e Università, con 32,89 giorni di ritardo.19

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

Due domande fondamentali a cui è necessario trovare risposta sono le seguenti:

  1. Quanto spendono le istituzioni nell’isola?
  2. Qual è il volume di spesa pubblica?

La Ragioneria Generale dello Stato, dipartimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si occupa di elaborare periodicamente una stima regionalizzata di tale impegno finanziario.20

Per la Sardegna, lo Stato ha impiegato nel 2022, al netto degli interessi sul debito pubblico, 11 miliardi e 360 milioni di euro. Pari a 7.177 euro per abitante, con un rapporto del 32,88% sul PIL. Quest’ultimo, il valore più alto d’Italia, smentisce anche la tesi di quanti giudicano insufficienti i trasferimenti economici per l’isola. Senza neppure considerare che, in termini di consumi, gli stipendi erogati dalla pubblica amministrazione in loco hanno un peso maggiore rispetto alle Regioni del centro-nord, gravate da un costo della vita più alto. Bisogna infatti considerare anche la spesa, capitolo a parte, destinata ad Enti e Fondi pubblici, ed una quota di spesa non regionalizzabile (che al dato lordo per le Regioni si attesta ad un totale di oltre 488 miliardi di euro, pari ad un ulteriore 15,93% sul PIL), più la spesa delle autonomie locali.

Ad offrirci un quadro complessivo della drammatica situazione dell’isola c’è lo studio dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani, per cui, nella media degli anni 2014-2016, ed includendo la spesa pensionistica, il peso della spesa complessiva sul PIL regionale raggiunge il 68%, a fronte del 45% di entrate. Al secondo posto in Italia dopo la Calabria per negatività della performance.21 Il che conferma un’isola in cui la maggior parte dell’economia reale dei cittadini viene intermediata a vario titolo dal settore pubblico e che brucia più risorse della capacità di creare e riprodurre ricchezza da parte dei sardi.

Oltre a ciò, bisogna aggiungere che parte della spesa pubblica destinata all’isola, derivante da trasferimenti esterni, non viene neppure programmata e spesa integralmente. Osserva in proposito il Crenos: «I risultati mostrano come la buona riuscita degli investimenti pubblici dipenda dalla qualità istituzionale degli enti locali, confermando le recenti denunce di sindaci e amministratori locali del Mezzogiorno. In diversi sostengono, infatti, che il loro personale sia numericamente insufficiente e non abbastanza specializzato per poter gestire adeguatamente le risorse pubbliche in arrivo. Lo studio ha confermato la scarsa efficienza delle istituzioni locali del Mezzogiorno: la loro bassa qualità rischia dunque di mettere a repentaglio la realizzazione di numerose politiche di sviluppo fondamentali per la crescita e la resilienza delle regioni economicamente più fragili.

L’analisi dei dati sugli investimenti pubblici ha mostrato una forte dipendenza delle regioni del Mezzogiorno, e in particolar modo della Sardegna, dalle amministrazioni pubbliche per la realizzazione di investimenti. I soggetti centrali assumono un ruolo fondamentale nella realizzazione degli investimenti nel Mezzogiorno suggerendo una scarsa capacità di investimento degli enti locali. La scarsa qualità istituzionale delle regioni del Mezzogiorno rischia di compromettere la realizzazione di importanti politiche pubbliche future22

Ancora in itinere, inoltre, lo sviluppo della connessione internet nelle varie aree dell’isola, nell’era della rivoluzione IA, con le conseguenti ricadute economiche di mancata convergenza economica verso le Regioni più sviluppate. Osserva il Crenos: «Analizzando i dati forniti dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, emerge non solo un’Italia a due velocità, ma anche una Sardegna che fatica a non lasciare indietro le aree interne e meno popolate, già economicamente svantaggiate e da tempo in forte declino demografico. L’ultimo dato rilasciato dall’AGCOM (2023) indica che la percentuale di famiglie sarde raggiunte dalla connessione FTTH (fibra) è del 39,2%. La copertura è distribuita in modo molto disomogeneo, concentrandosi principalmente, se non esclusivamente, nell’area del Cagliaritano, dove raggiunge il 77%. In netto contrasto, nelle province del Sud Sardegna, Nuoro e Oristano, la percentuale di copertura scende drasticamente, variando tra il 17% e il 19%. Per quanto riguarda la provincia di Sassari, il tasso di copertura è leggermente migliore e pari al 37%. Ad ulteriore conferma della disparità territoriale, Sud Sardegna, Oristano e Nuoro sono le ultime tre province italiane per copertura di FTTH, mentre Cagliari si trova nella top 10. La Sardegna risulta quindi la penultima regione italiana per tasso di copertura FTTH, seconda solamente alla Calabria (36%), con una copertura nettamente inferiore sia alla media nazionale (59,1%) che a quella del Mezzogiorno (58%)».23

3.9. Un popolo in pensione.

Sul versante della spesa pubblica, le pensioni rappresentano indubbiamente uno dei nostri maggiori talloni di Achille, non solo perché la loro totalità non riguarda residenti che percepiscono pensioni maturate da regolari versamenti contributivi, ma anche da pensioni retributive, sociali e assistenziali a vario titolo.

Al 2022 la Sardegna registra ben 649.000 pensioni, rispetto a 566.000 occupati (ossia persone che versano dei contributi al sistema previdenziale). Un saldo negativo di 83mila soggetti, che giustifica anche in parte il nostro residuo fiscale negativo in termini di trasferimenti pubblici a favore del territorio.24

Secondo i dati offerti dall’INPS, nel totale delle nostre pensioni, ben 112.853 riguardano pensioni di dipendenti pubblici25. E si tratta di uno dei fattori che evidenzia le maggiori capacità di consumo dei cittadini sardi rispetto a Regioni maggiormente produttive della nostra, benché il processo di invecchiamento demografico rappresenti un trend comune all’intera Italia e a tutto l’Occidente.

Il dato strutturale, al di là di ogni contingenza e congiuntura economica periodica, evidenzia l’insostenibilità corrente del nostro welfare.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

All’insostenibilità del nostro welfare concorre peraltro il drammatico fenomeno dello spopolamento e della denatalità, problemi comuni ai paesi più sviluppati, ma particolarmente incisivi nelle aree che presentano problemi economici strutturali come la nostra.

La Sardegna è la regione con la fecondità più bassa. Stabilmente collocata sotto il livello di un figlio per donna, nel 2023 si posiziona a 0,91 figli (in calo rispetto allo 0,95 del 2022). In parallelo, la performance della popolazione residente registra ancora dati negativi, perché le regioni in cui se ne è persa di più sono la Basilicata (-7,4 per mille) e la Sardegna (-5,3 per mille). Al 2023 inoltre la nostra isola si colloca sempre sotto la media della speranza di vita tra le regioni: -7° posto per i maschi, e -2° posto per le femmine.26

Ciò nonostante, malgrado il destino incerto e di declino a cui la realtà sarda pare proiettata, esistono al mondo contesti in cui il tasso di popolazione residente non desta particolari preoccupazioni per la tenuta della stabilità economica. Si pensi al caso di Singapore, Stato insulare divenuto indipendente e completamente privo di risorse, ed oggi balzato in testa a tutti i maggiori indici di sviluppo internazionali.

Tra i maggiori centri finanziari del globo, la fortissima economia della città Stato ha conquistato una popolazione composta per il 43% da persone di origine straniera, capace di attirare un’alta densità di investitori e milionari, ma anche una variegata composizione etnica di lavoratori e basso valore aggiunto, per lo più impiegati nel settore dei servizi.27 Quest’ultima fascia sociale costituisce attualmente il maggior tallone d’Achille del contesto singaporiano, e attualmente oggetto di dibattiti da parte delle forze politiche locali.28

In questa sede l’esempio serve a evidenziare quanto una maggiore sovranità ed una maggiore libertà economica, abbinata ad una sapiente politica immigratoria (civic liberal nationalism), consentano di rendere appetibile un territorio ben oltre le singole capacità della popolazione originaria. In altri termini, qualora la Sardegna lavorasse per accrescere la propria formazione, le proprie competenze, e conquistasse maggiori poteri nell’ambito delle leve fiscali e burocratiche, potrebbe limitare i danni oggi derivanti da un tessuto sociale locale alle corde e scarsamente orientato ad immaginare un futuro di benessere in Sardegna.

3.11. Una fotografia del presente.

Nell’isola esiste ancora uno spettro ben tangibile, la povertà. In base ai dati dell’Indagine sulle spese delle famiglie dell’Istat, nel 2021 – ultimo dato disponibile – la quota di famiglie sarde in povertà assoluta è stata stimata nel 7,8%, poco superiore alla media nazionale (7,5 per cento). A dicembre 2022 gli individui appartenenti ai nuclei beneficiari di Reddito di Cittadinanza in Sardegna erano circa 75.000, in parte successivamente convertiti in assegni di inclusione.29 Mentre la ricchezza pro capite dei sardi si è attestata a circa 143.000 euro, inferiore ai 176.000 euro della media italiana. (pag. 32)

A mandare avanti un siffatto contesto tra luci ed ombre ci pensa oggi anche la spesa degli enti territoriali, che vale la pena osservare.

Sul piano istituzionale, nel 2022 la spesa primaria totale degli enti territoriali (al netto delle partite finanziarie) è stata pari a 7,7 miliardi di euro. In termini pro capite è ammontata a 4.930 euro, inferiore alla media delle RSS ma superiore alla media nazionale; poco meno del 90% delle erogazioni è rappresentato dalla spesa corrente al netto degli interessi (spesa corrente primaria). (Pag. 47).

Per capire come sono state utilizzate queste risorse è utile fare riferimento alla Tabella che segue

Tabella _ – Spesa degli enti territoriali nel 2022 per natura

Nel 2022 i costi della sanità hanno continuato ad aumentare, seppur in misura più contenuta rispetto all’anno precedente (tav. a6.15). L’incremento è dipeso soprattutto dalla spesa in convenzione (2,6 per cento rispetto al 2021), mentre si sono ridotte le spese relative al personale (dell’1,2 per cento), per effetto del calo di organico nel comparto medico e infermieristico. Parallelamente, la spesa per l’acquisto di collaborazioni e consulenze sanitarie esterne, rafforzatesi significativamente nel 2020 in risposta all’emergenza sanitaria, ha continuato a mantenersi elevata: nel biennio 2021-22 la sua incidenza, rapportata al totale del costo del personale, ha raggiunto il 6,5 per cento, crescendo di 2,6 punti percentuali rispetto agli anni 2012-13.

A fine 2021 la dotazione di infermieri e di personale medico risultava in regione inferiore non solo ai valori antecedenti la pandemia, ma anche a quelli del 2011, nonostante l’ampio ricorso alle forme contrattuali diverse da quella a tempo indeterminato. Nello stesso periodo sono cresciute invece le consistenze dell’altro personale sanitario e del ruolo professionale, anche qui per la crescita delle forme contrattuali a termine. (Pag. 56).

Tabella _ – Costi del servizio sanitario

Gli incassi correnti della Regione sono stati pari a 5.064 euro pro capite, nella media del triennio 2019-21 le entrate correnti erano riconducibili per il 6,0% all’addizionale all’Irpef, per il 2,3 all’IRAP e per l’1,0 alla tassa automobilistica. (Pag. 57). In Sardegna nel 2021, ultimo anno di disponibilità dei dati, le entrate pro capite accertate, ossia quelle che gli enti si aspettano di incassare nell’anno, sono state inferiori alla media nazionale per tutti i tributi considerati. La differenza tra il gettito pro capite regionale e quello italiano ha risentito sia delle più contenute basi imponibili, in ragione delle peggiori condizioni socio-economiche del territorio, sia della minore aliquota effettiva applicata ai diversi tributi. (Pag. 59).

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

Una delle conseguenze principali dei ritardi della Sardegna è che la politica cerca di affrontarli secondo l’armamentario classico del populismo. Ossia attraverso la tendenza a scaricare ogni responsabilità su cause esterne (che in parte ci sono), evitando di confrontarsi con le proprie, pur di preservare il potere ed i privilegi da esso derivanti, ed alimentando tattiche dilatorie per rimandare a data da destinarsi ogni necessaria riforma. Per cui, l’abuso verbale e mai sostanziale del principio di sussidiarietà, di perequazione e di solidarietà tra Regioni, sancito dalla Costituzione, diventa la foglia di fico con cui giustificare l’immobilismo nel dibattito sulle aberrazioni della nostra finanza pubblica, anestetizzando nel contempo i pochi passi riformistici concessi dalla stessa Costituzione: si pensi, per esempio, ai frequenti tentativi, anche da parte di intellettuali e accademici organici al potere politico, di attribuire colpe alle Regioni settentrionali, accusandole di “avidità”, ignorando i deficit del nostro capitale umano, solleticandone i bassi istinti e facendo ricorso ad una retorica che tende a promuovere solo diritti in luogo dei doveri.

E così, ignorando i generosi trasferimenti delle Regioni settentrionali, tanti sardi finiscono spesso per accusarle di “scarsa solidarietà”, o di subdoli tentativi di minare le radici dell’impianto costituzionale a nostro sfavore. Né si tiene conto del fatto che tali Regioni oggi pagano un progressivo deficit di competitività sui mercati internazionali, zavorrate da un pesante obbligo di solidarietà verso territori della Repubblica che poco o nulla fanno per migliorare l’efficienza delle proprie istituzioni e della propria economia. Il nord frena verso il basso, con un tasso di crescita reale del PIL italiano passato dal 6,7% della seconda metà degli anni ’90, all’1,4% nel primo decennio del nuovo secolo, allo 0,6% degli ultimi 10 anni.30

Politiche nettamente diverse vengono invece attuate in Stati e isole, anche e soprattutto minori, muniti/e di sovranità. E non solo perché tra le prime dieci economie del mondo vi sono anche paesi piccoli, come ci hanno insegnato studiosi del calibro di Leopold Kohr e Alberto Alesina, ma anche perché diversi recenti studi e ampie evidenze empiriche suggeriscono che territori minori amministrati da istituzioni dimensionalmente contenute presentano una serie di vantaggi. Il sociologo maltese Godfrey Baldacchino ha riassunto il contesto mediante un’efficace sintesi della loro natura: benché contrassegnati da rilevanti elementi di criticità e vulnerabilità, si mostrano ampiamente resilienti, perseveranti, abilmente opportunisti e dinamici, in grado di offrire ottime possibilità di investimento finanziarie, in ordine sia alla capacità di attirare capitali, che di sfoltire la burocrazia ai fini del radicamento e dello sviluppo delle imprese.31

Oltre a ciò, la politica e, in generale, lo Stato, non si pongono il problema dei “residui fiscali”, negativi per il centro-sud, tra cui la Sardegna, che per tenersi in piedi, infatti, spende più ricchezza di quella prodotta. E dunque i vertici amministrativi non si occupano di analizzare le causali del fallimento delle politiche redistributive a vantaggio di una parte del Paese, derubricando il problema del cronico assistenzialismo come un mero problema di deficit di capacità fiscale dei singoli contribuenti, a prescindere dalla diversa capacità fiscale del territorio in cui sono ubicati.32

Bisogna inoltre considerare, che a fronte di un residuo fiscale negativo, pari a 3.681 euro pro capite dei sardi, pari a 5.773.004.325 miliardi di euro, occorre valutare il dato sulla base di una potenziale e differente ripartizione delle entrate, ed una potenziale differente ripartizione delle spese.

Questo significa che una diversa strutturazione del fisco sardo ed una diversa composizione della spesa pubblica, potrebbero determinare un residuo fiscale pro capite nettamente inferiore al presente. Un esempio? Si potrebbe lavorare alla rimozione delle spese per corpi, enti e agenzie istituzionali le cui funzioni rappresentano autentici doppioni, razionalizzandone la spesa in un’unica struttura.33

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

Anche la retorica dell’insularità, che in realtà cela la solita povertà culturale dell’assistenzialismo, rientra nella dinamica vittimistica poc’anzi illustrata. L’idea che basti avere nella Costituzione la parola “insularità”, oltre alla manifesta ingenuità, nasconde la volontà di reclamare più trasferimenti pubblici dallo Stato centrale, ignorando uno storico precedente giuridico.

Un aspetto singolare, infatti, del cosiddetto “comitato scientifico” sardo che ha promosso il progetto di insularità in Costituzione non ha tenuto conto del fatto che tale strumento è già esistito. La Costituzione italiana infatti ha riconosciuto il principio di insularità sino alla riforma del Titolo V° avvenuta nel triennio 1999-2001. Così recitava il terzo comma dell’articolo 119:

«Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il mezzogiorno e le isole, lo Stato assegna per legge a singole regioni contributi speciali».

Il testo è stato riformato nei seguenti termini:

«La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insu-larità».34

Nonostante la mole di contenziosi Stato-Regioni affrontato negli anni dalla Corte Costituzionale a causa della complessiva riforma del Titolo V°, il novellato art. 119 non rappresenta un evidente miglioramento rispetto alla vecchia versione, per due ragioni principali:

  • la prima è che, pur non risolvendo il problema dei divari economici del Paese, permane il principio secondo cui esisterebbero precise aree atavicamente considerabili come arretrate in luogo di altre, al punto da meritare una costante elargizione di sussidi;
  • la seconda è che, quantomeno, in ragione del primo motivo, si è scelto di istruire il principio di coesione sociale e territoriale estendendolo indistintamente a tutte le Regioni (e non solo) suscettibili di manifestare periodi di difficoltà. Questo concetto ammorbidisce, ma non rimuove, l’ottica assistenziale presente nel vecchio articolo, introducendo un approccio più attuale al lavoro di perequazione svolto dallo Stato centrale.

La Costituzione italiana emersa nel 1948 non chiariva tali aspetti, pur garantendo analoga tutela giuridica dei territori insulari, e pur essendo meno chiara della Costituzione spagnola, che include il concetto di insularità nella carta.

Pertanto, alla luce di tali argomenti, è lecito domandarsi: c’è stata una tutela maggiore dell’isola da parte dello Stato sino al 2001?

La complessa e articolata vicenda relativa, ad esempio alla vertenza entrate, financo ai programmi di continuità territoriale, dimostrano che prima del 2001 non vi è stata alcuna differenza di trattamento rispetto al presente. E d’altra parte, solo una certa dose di demagogia e superficialità politica potrebbe pensare che inserire una semplice parola – “isola” – in una carta costituzionale, possa automaticamente cambiare le sorti di quest’ultima. Le cui condizioni di sviluppo dipendono da una vasta serie di variabili, non tutte imputabili al dettato costituzionale, che sono di natura storica, geografica, culturale ed economica. Se così non fosse, tutte le aree insulari del globo si troverebbero, ipso facto, in condizioni economiche disagiate e assistite da terzi centri amministrativi maggiori. Si pensi a Taiwan, o in particolare al Regno Unito, dalle cui isole scaturì un impero di dimensioni globali, senza il minimo supporto degli Stati continentali.

Sul piano scientifico, inoltre, il paper di Marlene Jugl, Finding the golden mean. Country size and the performance of national bureaucracies35, ci suggerisce che la quantità dell’intervento pubblico non è necessariamente connessa alla qualità dei servizi erogati ad una data popolazione. Ma nonostante tali evidenze scientifiche, esistono persino giuristi e costituzionalisti italiani che si affannano a sostenere il contrario, ideologicamente allineati al mito dell’unità istituzionale, senza una ponderata valutazione della sua bassa efficienza.36

Pertanto, quantificare i deficit economici dell’insularità, come paravento per ignorare diritti vigenti e articolati processi riformistici, diventa un mero esercizio statistico che porta automaticamente alla fallace idea – peraltro diffusa nella politica italiana – secondo cui un territorio disagiato avrebbe solamente bisogno di più attenzioni e di più spesa pubblica da parte dello Stato centrale. In quest’ottica, come noto, non solo la Sardegna ma l’intero mezzogiorno italiano avrebbe già sperimentato da anni degli interessanti tassi di crescita, che invece non si sono verificati.37

Alla Sardegna non servono più sussidi ma più responsabilità. Ossia maggiore autogoverno, da cui derivano sia diritti che doveri. Ad esempio, il diritto ad un fisco a misura di imprese, e il dovere di non reclamare soldi allo Stato o ad altre Regioni se si sperperano i propri. Che ciò avvenga tramite una difficile riforma federale dello Stato, o tramite una difficile indipendenza della Sardegna, non cambia la sostanza dei problemi, ma sicuramente incide nella retorica nazionalista di chi vuole conservare istituzioni obsolete e inefficienti.38

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

Sardegna Federale immagina un graduale impegno riformistico, che, legislatura dopo legislatura, porti la politica a revisionare tanto la cultura, quanto le istituzioni espresse dalla nostra società.

Il modello di riferimento, sulla scorta delle storiche intuizioni di filosofi come Giovanni Battista Tuveri, od economisti come Giuseppe Todde, è quello rappresentato dalla Confederazione Elvetica. Ma ben sappiamo tuttavia quanto la Svizzera sia lontana, culturalmente parlando, dalla tradizione politica italiana, basata quest’ultima su un centralismo amministrativo di derivazione franco-sabauda. A sua volta basato sul culto di un nazionalismo ottocentesco, tipico degli Stati-nazione sorti all’epoca. E bisogna pertanto distinguere, nel nostro contesto, l’ideale dal concreto, e il concreto dal possibile.

L’ideale guarda ad un’Europa, un’Italia ed una Sardegna che si avvicinino quanto più, a seconda delle rispettive differenze, ad istituzioni federali, in cui il potere sia attribuito al livello più vicino alla popolazione. Va da sé che, per materie di interesse generale e ampio (come per esempio moneta, difesa, trattati internazionali), è più efficiente ed efficace, hic et nunc, che le competenze siano attribuite al livello europeo, sottraendolo ai singoli stati nazionali come oggi li conosciamo. Questa dinamica innescherebbe comportamenti virtuosi sia nell’amministrazione della spesa pubblica che degli investimenti in ricerca. L’uso del condizionale è d’obbligo perché non esistono ricette magiche in grado di portare automatici sviluppi socio-economici per tutti. Esiste però sicuramente lo strumento, il federalismo appunto, che può consentire la capacità di rimuovere centri di governo e di potere lontani dai cittadini e dalle loro esigenze, affrontando un’ampia gamma di criticità in vari ambiti. Come suggerisce il sociologo Gianfranco Bottazzi, il mutamento non è altro che un processo sistemico, in cui pertanto la modernizzazione comporta cambiamenti in tutte le dimensioni del sistema sociale.39

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

Un’Italia formata da Regioni con poteri simili ai Cantoni elvetici sarebbe auspicabile, in cui lo Stato limita la propria presenza nella sfera pubblica a poche materie, in concerto con i partner internazionali, tra cui, per esempio, la Difesa. A sua volta, la Sardegna potrebbe sviluppare una struttura confederale, in cui ogni subregione storica, dalla Barbagia alla Gallura, possa sviluppare un proprio fisco, competitivo con le proprie vicine, e in grado di attrarre investimenti a seconda delle esigenze del proprio contesto. Per esempio, più basso nelle regioni interne, più equilibrato nelle regioni costiere.

E sarà solo in un simile quadro normativo che i sardi potrebbero sviluppare maggiore capacità deliberativa, decidendo direttamente su materie di pubblica utilità, in modo tale che non danneggino il proprio futuro allargando le maglie del debito pubblico. Un problema invece ben diffuso nel presente, in cui la spesa pubblica, come sosteneva il Nobel per l’economia James M. Buchanan, pare essere di tutti e di nessuno, avvantaggiando unicamente i professionisti della politica che la gestiscono irresponsabilmente. Un po’ per perpetuare il proprio potere, un po’ per assecondare l’irresponsabilità e l’analfabetismo economico-finanziario del proprio elettorato.40

In un mondo sempre più interconnesso, e nel quadro delle istituzioni UE, il potere è e sarà sempre più ripartito in termini verticale in luogo di un esercizio esclusivamente o prevalentemente orizzontale. La sovranità diventerà dunque uno strumento dei popoli sempre più diffuso e diluito nei territori, ma che oggi, ben lungi dall’essere configurata in tali termini, deve essere riformata, seppur per passi graduali. Un processo che potrebbe richiedere anni.

Laddove poi l’Italia non riuscisse a liberarsi dei costumi più desueti, sarebbe diritto dei cittadini sardi battersi per una riforma delle istituzioni italiane in tal senso: o percorrendo un vero e proprio percorso che porti, dapprima ad una maggiore autonomia; e successivamente, tramite un referendum e degli irrinunciabili strumenti democratici, all’indipendenza della Sardegna nel quadro dell’Unione Europea, in accordo coi partner internazionali.41

Oltretutto, non manca un terreno di dibattito attorno ad una ulteriore varietà di questioni irrisolte.

Nondimeno occorre sottolineare che è proprio il principio di sussidiarietà che implica una frantumazione del potere in senso verticale non già sulla base di deleghe provenienti dal potere centrale ma considerando ogni livello di decisione autonomo e indipendente, per quanto coordinato con gli altri.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

Il nodo delle servitù militari, i cui soli poligoni interessano una superficie di oltre 22.000 ettari, la più alta d’Italia tra le Regioni, a fronte di basse ricadute economiche per il territorio in rapporto ai fenomeni dell’inquinamento ad esse riconducibili rappresenta, a tutt’oggi, un vulnus non sopito, nonostante alcuni cambiamenti derivanti dopo il 2008 in termini di salvaguardia ambientale e ripristino dei siti oggetto di esercitazioni.42

Il problema fondamentale riguarda l’estensione di tali servitù, da ridiscutere con lo Stato e con i partner internazionali, riqualificando le infrastrutture che devono comunque garantire l’addestramento del nostro personale preposto alla sicurezza collettiva, secondo i migliori standard NATO, e i test di efficienza dei nostri strumenti/mezzi tecnologici preposti allo scopo. Nondimeno, occorre far sì che tali cambiamenti debbano avere anche delle ricadute di carattere civile e sociale sia in termini tecnologici che di qualificazione e riqualificazione del personale coinvolto

Reputiamo, peraltro, che la Sardegna, non possa in ogni caso rinunciare al suo posizionamento nell’ambito di un’architettura di sicurezza che vede nei valori della libertà e della salvaguardia dei territori, così come sanciti nel Diritto internazionale, i canoni della propria stabilità, anche al fine di prevenire ogni potenziale minaccia proveniente da regimi ostili e/o instabili in materia di politica estera e interscambi commerciali.

4. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

Il malcontento crescente verso le Istituzioni politiche, acclarato da una crescente disaffezione all’esercizio del principale diritto esistente nelle mani dei cittadini (il voto) porta alcune correnti di pensiero a teorizzare l’inutilità delle Istituzioni. Questo pensiero è poi alla radice di pubblicazioni che, nel mostrare tutte le contraddizioni e le debolezze degli ordinamenti che danno origine a queste Istituzioni, non si limitano a far prendere consapevolezza su tutto ciò (cosa buona e giusta) ma alimentano, più o meno volontariamente, fastidio, contestazione e, non raramente, odio, il quale ultimo non aiuta a prendere decisioni razionali.

Orbene, nel tentativo di fornire un contributo al dibattito, si è ritenuto utile dedicare uno spazio per rispondere alla domanda: servono le istituzioni?

Espressa con altre parole, questa domanda cerca di chiarire semplicemente se gli individui per soddisfare le proprie necessità umane possono fare a meno delle Istituzioni oppure se, invece, esse sono indispensabili e allora è un problema di come sono progettate, organizzate e attuate.

4.2 Il contributo della scienza economica

Era il 1937 quando Ronald Coase pubblicò nella rivista Economica un articolo intitolato “The nature of the firm”43. In questo suo lavoro di ricerca nell’interrogarsi sulla natura dell’impresa si domandava in sostanza che cosa ne giustificasse l’esistenza.

La sua conclusione è stata che le imprese esistono perchè svolgono una funzione che altrimenti i singoli individui (tutti noi che siamo il mercato) non potrebbero svolgere da soli. Ronald Coase introdusse questo tema contrapponendo i concetti di gerarchia (oggi possiamo chiamare questo concetto istituzione o organizzazione) e mercato. In sostanza, tutte le volte che qualcuno di noi ha bisogno di qualche cosa (che normalmente costa poco ed è prodotta in grande quantità) si rivolge al mercato. Se invece si tratta di beni e servizi specializzati, che richiedono competenze, ecc. allora preferisce internalizzare queste all’interno di un contesto organizzativo coordinato, quindi di un contesto istituzionale, chiamata impresa.

Estremizzando il discorso, se ciascuno di noi fosse in grado di produrre da sé tutto ciò di cui ha bisogno nella vita, non avrebbe bisogno di altri dai quali recarsi, chiedere, comprare, ecc. Analogamente, ci sono servizi che nessuno comprerebbe o che, per questioni di diversa disponibilità di risorse e opportunità qualcuno non si potrebbe permettere ma che sono indispensabili per avere determinati standard di civiltà (servizi sanitari, di smaltimento dei rifiuti, ecc.)

Orbene, a questo punto chiediamoci:

– siete in grado voi, da soli, di procurarvi l’acqua di cui avete bisogno?

– siete in grado voi di procurarvi, da soli, di ciò che ritenete utile per vestirvi, per viaggiare, per studiare, ecc.?

– siete in grado voi di allestire un sistema di smaltimento dei vostri rifiuti?

– come pensereste di viaggiare senza auto, moto, navi, aerei, ecc.?

– e se viaggiaste dove andreste a dormire, mangiare, ecc. se non ci fossero imprese che offrono questi beni e servizi?

– e chi vi dovrebbe curare se state male?

– in che modo compensereste chi vi cura se non avete beni e servizi da scambiare?

– e se siete malati e poveri e incapaci di lavorare come potreste sopravvivere se non c’è qualcuno che istituzionalmente si prende cura di voi?

Potremmo continuare all’infinito e se voi foste in grado di rispondere sì a queste domande, allora non ci sarebbe alcun motivo per creare istituzioni che costano. In questo senso, per esempio, non avremmo bisogno di istituzioni comunali, regionali, statali, internazionali. Ovviamente, vale il principio di efficienza in base al quale tutto ciò che posso fare da solo devo farlo da solo e ricercare forme di cooperazione, collaborazione e coordinamento con altre entità nel momento in cui riconosco che io da solo non posso fare una serie di cose o, in altre parole, servono risorse, capacità e competenze che io da solo non possiedo.

Si potrebbe pensare che tutto ciò serva a livello di piccole comunità mentre non ci sarebbe necessità di disporre di istituzioni internazionali come l’ONU o l’Unione europea, ma pure il World Trade Organization o il Fondo Monetario Internazionale o l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’idea di un mondo che torna alle sue origini, fatto solo di boschi, praterie, animali, ecc., dove ognuno vive nel suo piccolo spazio e si alimenta di cibo locale e degli animali del luogo è alquanto affascinante e bucolica ma, forse, non troverebbe i consensi necessari nel mondo. Né si può pensare che tutto ciò possa funzionare senza aver condiviso alcune regole base comuni. Ecco, quindi che gli uomini, nel corso della storia, hanno concepito istituzioni nel tentativo di creare condizioni per lo sviluppo di relazioni stabili, eque e positive per la vita di ciascuno. Mi si dirà che non hanno funzionato bene, che non funzionano bene, che sono state utilizzate da alcuni per finalità diverse da quelle per cui sono nate. Benissimo, si intervenga su questi aspetti ma non si proponga la distruzione delle stesse ritenendole aprioristicamente inutili o dannose.

Quindi, se le Istituzioni hanno una loro ragione di esistere, il problema non è distruggerle perché funzionano male, ma cambiarle e renderle efficienti. In altre parole, guardiamo con favore ad una “distruzione creativa”, pur opponendoci ad una distruzione tout court, che col federalismo non ha nulla a che fare.

In altre parole, se la distruzione di ciò che c’è, seppure con la giusta e corretta osservazione che quello che c’è, è limitante di molte libertà, non funziona bene, è soggetto a corruttela di varia natura in cui l’interesse particolare prevale su quello generale, ecc., si impone la necessità di un cambiamento.

Questo è un punto dirimente per chiunque voglia costruire una proposta politica alternativa all’esistente. Vogliamo cambiare la Costituzione italiana, vogliamo cambiare i Trattati dell’Unione europea, vogliamo cambiare lo Statuto di autonomia della Regione Sardegna, vogliamo contribuire a creare una società più giusta, equa, responsabile, dove ciascun individuo abbia la possibilità di affermarsi come tale e di collaborare con altri per comuni obiettivi e interessi.

Viceversa, Sardegna Federale ritiene che gli intenti di chi vorrebbe distruggere l’Unione europea, lo Stato italiano, e qualsiasi istituzione non corrispondono a un approccio razionale, soprattutto se, come è facile osservare, mancano di proposte alternative credibili e attuabili. Le istituzioni si mettono in discussione e si cambiano per migliorarle, non già per distruggerle tanto per distruggerle. Si tratta di idee (neppure di progetti) che non danno prospettive, che non hanno nulla che possa migliorare le condizioni di vita dei cittadini di questo mondo.

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

Quanto indicato nei punti precedenti è il risultato dell’adozione di un metodo di analisi prima e di proposta poi, quello sistemico. Quest’ultimo, infatti, trae origine dallo studio della realtà fatta di parti in relazione tra loro. Non è un caso che alla base di tale metodo ci sia il concetto di “sistema”, cioè un insieme di parti interagenti tra loro, tale che ogni parte condiziona l’altra ed è da essa a sua volta condizionata. Un sistema, pertanto, è un fenomeno emergente dall’interazione tra le parti. Dal che si evince che, non tutti gli insiemi di parti sono sistemi.

Se queste parti di un insieme godono di un certo grado di libertà, come nel caso dei sistemi organizzativi e sociali (sistemi aperti) ciascuno dei quali ha una propria specifica identità, non è scontato che ci sia interazione e, se esiste, potrebbe anche assumere connotazioni negative, al punto che invece di generare valore, lo distruggono. Per questi motivi, in ambito organizzativo, sono i valori e gli obiettivi che favoriscono e guidano la costruzione dell’interazione tra le diverse identità interessate e, in base a questi, il sistema delle relazioni formali e informali che si genera per effetto dell’adozione di una appropriata struttura organizzativa che definisca funzioni, compiti e responsabilità.

Partire da questa premessa metodologica implica che alla base di ogni costruzione organizzativa di tipo sistemico ci sia l’individuo, la sua libertà e i suoi diritti inalienabili, il cui unico limite è rappresentato dall’impatto che il suo comportamento può originare in termini di pregiudizio alla libertà di altri individui come lui. A tale proposito, Karl Popper (1902-1994) abbracciava la tesi secondo cui: “ciò che esiste veramente sono gli uomini [..], in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. [..] Ciò che non esiste è la società [..]. Uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggior ideologia44.

Tutte le organizzazioni, comprese quelle politico-istituzionali nascono (o dovrebbero nascere) da una volontà di donne e uomini liberi che decidono di aggregarsi, si organizzano e si danno delle regole per interagire positivamente perseguendo comuni finalità, sapendo che queste relazioni sono dinamiche e, quindi, possono evolvere nel corso del tempo, rinforzarsi o indebolirsi se non adeguatamente gestite.

A questo punto sorge la domanda: cosa succede alle parti (sia individui che aggregati degli stessi) che intraprendono questo percorso di aggregazione? Si annullano e perdono di identità? Si annacquano nel sistema? Oppure continuano a esistere conservando ciascuna una propria identità, un proprio grado di libertà e un proprio ambito di competenza decisionale esclusiva?

La risposta, in questo caso è: dipende. Infatti, se avvenisse la scomparsa di una o più parti o il loro depotenziamento fino all’emarginazione significherebbe che una parte ha prevalso sull’altra e questa prevaricazione potrebbe avere diverse cause. Altrimenti, proprio perché le parti hanno concordato obiettivi comuni, ognuna di esse ha titolo e diritto per essere parte attiva del processo interattivo e, di conseguenza, ha titolo per conservare la propria identità e un proprio grado di libertà, pur all’interno di un processo di progressiva aggregazione.

In altre parole, quanto testé evidenziato mostra come l’emergere del sistema possa derivare, alternativamente, da processi di integrazione per colonizzazione oppure per inclusione: nel primo caso, se l’integrazione deriva dal prevalere di una parte, si va incontro a processi di annullamento o prevaricazione di una identità sull’altra45, mentre nel secondo caso si ha un processo evolutivo basato sul riconoscimento e sul rispetto reciproco delle diversità, considerata ciascuna come una ricchezza. In questo secondo caso è lecito affermare che ogni parte conserva un grado di libertà/indipendenza rispetto alle altre parti e rispetto al sistema, per tutto ciò che rimane nelle prerogative esclusive della parte considerata, a partire dall’individuo.

L’implicazione concettuale è che una parte può essere un sottosistema di un sistema più ampio e, nel contempo, rimanere indipendente nelle decisioni per tutto ciò che è efficiente ed efficace gestire in modo diretto, a patto che le stesse non contravvengano a principi e interessi più generali coinvolgenti anche altre parti. Nell’applicazione di questo principio si configura la pari dignità di ogni livello decisionale, senza una gerarchia precostituita.

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

Per entrare nel concreto, se prendiamo le Regioni italiane attuali come parti costitutive della Repubblica, in quanto espressive di popoli e territori – cosa che dovrebbe essere naturale e scontata se si conoscesse la storia iniziata con il passaggio del Regno di Sardegna ai principi del Piemonte46 – occorre capire quali sono i valori e i princìpi che si pongono alla base dello stare insieme di queste parti e, nel contempo, capire quali sono invece le specificità positive che differenziano tali parti e che vanno tutelate con il riconoscimento di adeguati poteri e risorse, e quelle negative da rimuovere, che negano alla base i valori e i princìpi che questi popoli vogliono darsi per stare insieme in modo civile e conveniente per tutti.

Applicando questo metodo si arriva facilmente a individuare alcune aree di modifica della Carta costituzionale in modo che, per esempio, si valorizzino le differenze positive:

  • Riconoscendo che i popoli che abitano i territori dello Stato hanno storie, culture e lingue meritevoli di tutela e che, per queste aree e per questi popoli, occorrerebbe inserire adeguati poteri per la tutela e la valorizzazione di tali differenze, la cui esistenza e perpetuazione non solo non contrastano con lo status di cittadino italiano ed europeo ma, addirittura, rafforzerebbero il senso di appartenenza allo Stato, proprio perché rispetto al passato, ne sentirebbero una maggiore appartenenza divenendone i primi difensori, come del resto è avvenuto nel caso della costruzione della Confederazione elvetica47;
  • Riconoscendo che le differenze di sviluppo sociale ed economico affondano le radici nel fallimento delle politiche di sviluppo attuate fin dall’inizio della Repubblica, il cui principale limite è stato rappresentato dall’essere calate dall’alto, senza alcun legame con le realtà dei luoghi48. Eppure, oggi si sa bene, come previsto dai regolamenti europei che disciplinano l’uso delle risorse dei fondi strutturali e delle altre politiche comunitarie, che alla base di qualsiasi progetto di programmazione occorre una stretta interazione e collaborazione tra Territori, Stato e Commissione europea sulla base del principio di responsabilità diffusa, in grado di prevedere non solo poteri ma anche risorse proprie così che la fiscalità posta in essere in questi territori possa essere controllata dagli stessi cittadini, sapendo bene che non ci sarà lo Stato a intervenire qualora tali risorse non vengano utilizzate in modo efficace ed efficiente.

È a partire da queste considerazioni che abbiamo maturato le seguenti proposizioni:

  1. non si può revisionare efficacemente lo Statuto sardo se non si interviene sulla Costituzione italiana;
  2. modificare la Costituzione italiana è interesse di tutti i popoli che abitano questo Stato e che sono insoddisfatti del suo funzionamento;
  3. i Sardi hanno interesse a dialogare con gli altri popoli che abitano l’Italia per fare massa critica rispetto alla necessità di modificare la Costituzione;
  4. qualsiasi progetto di revisione statutaria o costituzionale si fa per “costruire qualcosa” e non “contro qualcuno”;
  5. le uniche proposte di revisione dello Statuto e della Costituzione devono fondarsi sulla scienza sistemica e non sulle ideologie, una proposta che sia in grado di conciliare l’indipendenza delle parti con il coordinamento delle stesse per il raggiungimento di comuni obiettivi.

5. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

La teoria del federalismo si fonda sulla volontà di due o più entità (di norma nazionali) di sottoscrivere un patto (foedus) volto ad affrontare e risolvere insieme problematiche di comune interesse. In questo senso, “federalismo significa potere che si esprime dal basso, potere che ha origine primariamente nell’Ente che si federa, e che trova un proprio equilibrio con il potere del governo centrale, attraverso nuovi organi costituzionali e leggi correttive, proprie di tutti i veri Stati federali49.

È facile rilevare in questo concetto una sostanziale analogia con il linguaggio proprio della teoria dei sistemi: due o più unità parziali sottoscrivono un accordo per raggiungere comuni finalità. In sostanza, una federazione è un sistema, qualcosa che non esiste di per sé ma un fenomeno che emerge dalla volontà delle parti, una volontà che va esercitata e praticata con sistematicità e continuità.

Alla base di tale accordo o processo di aggregazione c’è il principio di sussidiarietà50 che stabilisce una cosa elementare: le decisioni vanno prese al livello politico-istituzionale più vicino al cittadino e devono essere delegate a un livello superiore solo per ragioni di efficienza ed efficacia della decisione, oppure quando la tematica su cui si discute coinvolge comunità più ampie. Se si parte dal presupposto che ogni aggregazione parte dall’individuo è evidente che è questo il primo titolare del potere che lo delega a livelli organizzativi e politico-istituzionali superiori proprio in virtù di quanto indicato in precedenza. Federalismo significa “potere decisionale ai cittadini” circostanza che nulla ha a che vedere con il decentramento amministrativo o con la “devolution”51. Di converso, occorre anche precisare che la delega di potere a un livello superiore non significa che viene meno il diritto-dovere di monitorare l’esercizio di quel potere, così come non significa che il delegato si ritenga titolare originario dello stesso.

A livello organizzativo istituzionale, pertanto, il potere originario risiede nelle comunità sulla base dell’idea che finché è utile, conveniente e non impatta su altri interessi esterni alla comunità, ognuna deve essere in grado di provvedere a sé stessa fintanto che è possibile, mentre partecipa solidaristicamente con altre comunità per questioni comuni e di interesse più ampio.52

Orbene, la piena e consapevole adozione del principio di sussidiarietà, permette di individuare tanti livelli di decisione politico-istituzionali quanti sono gli ambiti di condivisione dei problemi: estremizzando, dal condominio al quartiere (o villaggio), dalla città alla provincia, dalla regione alla nazione, dallo stato all’insieme di stati (o di nazioni se c’è coincidenza tra gli stessi), fino ai continenti e al mondo.

Ciò non dovrebbe sorprendere: come si può pensare che a decidere sul cambiamento del sistema di climatizzazione di un condominio possa essere il Comune?

Analogamente, come si può pensare di affrontare il tema dei cambiamenti climatici senza un coinvolgimento di tutti gli stati del mondo?

In sostanza, ogni livello istituzionale ha legittima sovranità nel proprio campo di competenza, che rappresenta esattamente un ambito di indipendenza. Va da sé che il dialogo e la negoziazione sono gli strumenti per addivenire a forme di coordinamento tra “sovranità” distinte, coordinamento che deve prevedere, necessariamente, forme di condivisione di risorse, a partire dalle conoscenze, in funzione di comuni finalità, a iniziare dalla pace e dallo sviluppo socio-economico armonico ed ecosostenibile di tutti gli individui e i loro aggregati.

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu53

Al fine di evitare fraintendimenti è utile precisare che la prospettiva federalista si distingue assai nettamente da quella autonomista. Giova in tal senso ricorrere al contributo di Emilio Lussu che in un saggio del 1933 pubblicato nel n. 6 di Giustizia e Libertà, scrive:

Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento. L’autonomia concepita come decentra-mento non è più autonomia.

Gli autonomisti della Sardegna si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federalismo, non già decentramento… D’ora innanzi adoperando la terminologia “Federalismo’ non ci saranno più equivoci.

Poi precisa:

Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto.

Lussu esprime in questo passo, modernamente, con precisione e lucidità – e ancora oggi di grande attualità – la discriminante vera fra autonomia/decentramento e federalismo. E quando afferma che per fare chiarezza politica non basta più dire «autonomia», bisogna dire «federazione» non lo sostiene per una questione lessicale e terminologica, ma di sostanza.

La visione autonomistica, anche rivista e irrobustita, dello Stato è ancora tutta dentro l’ottica dello stato ottocentesco, unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente, può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitate e parziali alla Regione che, comunque, in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri54.

In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale.

Lussu non si limita a disegnare in astratto il futuro stato federale, gli stati membri e le rispettive competenze, ma individua con precisione e nettezza anche l’ente, il soggetto che dovrà costituire lo stato membro o federato: la regione. E lo argomenta così:

La regione in Italia è una unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica… La provincia al contrario non è che una superficiale e forzata costruzione burocratica. La provincia può sparire come è venuta, in un sol giorno, la regione rimane. La terra, il clima, le acque, la posizione geografica, antiche influenze commerciali, rapporti e attitudini particolarmente sviluppati da tempo, contribuiscono a dare a ogni regione una sua economia caratteristica e quindi una vita sociale chiaramente distinta.

Da questo passo emerge non solo che per Lussu il futuro stato federato dovrà identificarsi con la regione ma che egli fonda il suo federalismo sulla identità etno-linguistica. Vi è di più: descrivendo la regione Lussu ci dà – al di là delle sue intenzioni – un ritratto compiuto della “nazione”, modernamente intesa e da non identificare con lo stato; identificazione operata invece dalla cultura ottocentesca, che purtroppo permane ancora e che permeava profondamente la visione di Lussu tanto da indurlo a parlare di “nazione mancata”, intendendo, forse, “stato mancato”.

Il ritratto che Lussu delinea della regione si attaglia in modo particolare alla Sardegna che “deve essere nello stato italiano all’incirca quello che è il cantone nella confederazione svizzera e il lander nella repubblica federale tedesca”. Ma anche alla Sicilia perché “godevano di una situazione di privilegio in quanto il mare era sufficiente a risolvere ogni contestazione territoriale”. Ma in genere per tutte le regioni prevede un’organizzazione federale “a un dipresso come i «paesi» in Germania, le «province» in Austria e i «cantoni» in Svizzera”. Scrive a proposito della Svizzera55

Io ho conosciuto molto da vicino la Svizzera, la piccola grande democrazia organizzata in Stato federalistico, la più antica che l’Europa conosca. Ebbene, è a quel tipo d’organizzazione federalistica dello Stato democratico che la Sardegna aspira.

Quanto alla questione del nome delle entità che dovrebbero costituire lo stato federale: regioni, repubbliche, stati federati, territori autonomi, Lussu non ha dubbi: avrebbero dovuto chiamarsi “repubbliche federate”. E così argomenta:

Io propendo per la denominazione di ‘repubblica’ perché questa è la più rispondente a mettere in evidenza la parte di sovranità conquistata e a dare più popolarmente coscienza dell’attività autonoma e distinta nel seno della intera comunità italiana.

A chi obiettava che per diventare «stato» le nostre regioni sarebbero troppo piccole rispondeva: “Lo sarebbero come stati indipendenti, – io preciserei ‘separati’-, non lo sono come stati federati.” E aggiunge: “Nella Confederazione svizzera non vi è un solo cantone più grande delle più piccole delle regioni italiane”. Non era quindi il criterio del territorio – secondo Lussu – ad impedire a una regione di essere l’unità di base di uno stato federale. Inoltre, l’autore di Un anno sull’altipiano ricordava a questo proposito che nulla vietava a due o più regioni che avessero interessi comuni o unità di vita economica di unirsi in un solo stato federale.

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

Uno dei temi di più difficile soluzione riguarda il rapporto tra gli individui (sistemi reali) e le istituzioni (sistemi concettuali): i primi cioè esistono in modo oggettivo, le seconde sono il frutto della volontà dei primi.

Questa constatazione non è banale poiché pone una serie di questioni finora risolte in un modo che se poteva andare bene nel passato, oggi costringono a una più attenta riflessione. La ragione fondamentale della necessità di “aprire” un dibattito sul tema è connessa con le trasformazioni sociali intervenute nel mondo nel corso degli ultimi decenni e che hanno visto una porzione crescente di popolazione accedere ai più alti livelli della conoscenza e del sapere umano. Ciò significa che se prima il coordinamento sociale poteva utilmente avvalersi di strumenti “coercitivi” perché il contesto non poteva capire la necessità di comportamenti finalizzati al perseguimento di comuni obiettivi, ora questo è più difficile da accettare e, soprattutto, è da rifiutare a priori sulla base di una visione filosofica dell’uomo come soggetto capace di intendere e di volere, quindi di decidere sempre più responsabilmente per sé e per i propri simili.

Ergo, ci si deve chiedere: possono essere costrette le persone a sottostare a vincoli ritenuti obsoleti, inadeguati o inefficienti in relazione alle legittime ambizioni di ciascuno di potersi realizzare nella vita scegliendo il meglio per sé?

Nel contempo, se fino a ora anche nei paesi che fondano il loro ordinamento giuridico sulla partecipazione della popolazione senza distinzione di censo, reddito, genere, credo religioso o altro (concetto di democrazia), è accettabile che il meccanismo della rappresentanza (così come lo abbiamo conosciuto) debba operare sempre e comunque quando, anche grazie alle tecnologie digitali, oggi si possono realizzare forme diffuse e frequenti di partecipazione diretta ai processi decisionali riguardanti, sempre più, questioni diverse e mutevoli nel tempo?

Si tratta di domande legittime che riportano al rapporto tra individui e istituzioni: sono i primi che costituiscono le seconde o, invece, queste ultime hanno assunto talmente vita propria da essere dominanti sui primi al punto che il ruolo degli individui tende a essere non quello formalmente dichiarato di cittadini ma di sudditi?

La complessità degli argomenti posti non può liquidarsi con posizioni “dogmatiche”, spesso contrapposte ed estremiste, volte a evitare la discussione e imporre l’accettazione acritica di quel che è stato finora ereditato dal passato. Come si possono spiegare altrimenti le azioni di varia natura esercitate dagli Stati per reprimere i tentativi di “recupero” di una soggettività degli individui che si identificano come popoli che con quello Stato invece non vogliono accettare un rapporto di sottomissione con lo Stato di cui fanno parte?

Non si tratta, in altre parole, di liquidare come “anacronistici processi di secessione” le istanze di popoli, come i Catalani, i Corsi, gli Scozzesi, ecc. che, per il tramite di azioni come i referendum, rivendicano una soggettività che considerano annullata se non criminalizzata e, comunque, non valorizzata, anche in termini di sfruttamento a fini di sviluppo socio-economico. Come evidenziato all’inizio di questo documento, il problema legato alla revisione del rapporto tra individui e istituzioni, se fosse affrontato in modo dialogico e finalizzato a creare effettive ed eque condizioni di sviluppo per tutti, non darebbe luogo a contrapposizioni che esacerbano gli animi e che accentuano la percezione di un profondo squilibrio tra istituzioni detentori del potere, che pure gli deriva dal popolo, e gli individui che in questo modo perdono la loro sovranità trasformandosi da cittadini in “sudditi obbedienti”.

Si tratta di temi che riportano al grande tema proprio delle scienze sociali della contrapposizione tra individualismo e collettivismo, incapaci, ciascuno, di addivenire a una soluzione56.

Per superare questa dicotomia occorre una terza via, costituita, come è stato indicato in precedenza, dall’approccio sistemico, l’unico metodo in grado di tenere insieme le prospettive di tutela dell’individuo (le parti) con quelle dell’insieme (il tutto, il collettivo). Ciò che rende possibile l’interazione tra le parti e il tutto sono le relazioni e ciò che le rende possibili: il dialogo reciproco che si fonda sull’ascolto dei punti di vista dell’altro, la condivisione delle risorse, l’assunzione diffusa delle responsabilità e, infine, la trasparenza dei comportamenti che ha come base il riconoscimento reciproco degli interessi legittimi.

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

A supportare la necessità di revisione della Costituzione italiana, oltre che un approccio metodologico rispettoso delle parti e il tutto, vi sono gli stessi Trattati europei che nel definire i valori fondamentali all’articolo 257, stabilisce all’articolo 7 che il Consiglio europeo, “deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo”, possa “constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”.

Nello stesso articolo 7, al comma 3, invece, si stabilisce che “Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche”.

Peraltro, anche con riferimento ai criteri che disciplinano l’ingresso di nuovi Stati dentro l’UE, i Trattati stabiliscono che siano rispettati i seguenti:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;
  • un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, tra cui la capacità di attuare efficacemente le regole, le norme e le politiche che costituiscono il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Di rilievo è l’ultimo capoverso del comma 3 dell’articolo 3 che recita testualmente: “Essa – l’Unione europea (ndr) – rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.”

Analogamente occorre considerare quanto previsto dalla Convenzione UNESCO per la Protezione e Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali58 nell’ambito della quale, all’articolo 1, si esplicitano chiaramente le finalità riguardanti tra gli altri:

  • la protezione e la promozione delle diversità e delle espressioni culturali;
  • la creazione delle condizioni che permettano alle culture di prosperare e interagire liberamente, in modo da arricchirsi reciprocamente;
  • la promozione e il rispetto per la diversità delle espressioni culturali nonché la presa di coscienza del loro valore a livello locale, nazionale e internazionale;
  • la riaffermazione dell’importanza della connessione tra cultura e sviluppo per tutti i Paesi, soprattutto per quelli in via di sviluppo, e sostenere le misure nazionali e internazionali volte a evidenziare il valore capitale di questo nesso;
  • il riconoscimento della natura specifica delle attività, dei beni e dei servizi culturali quali portatori d’identità, di valori e di significato;
  • la riaffermazione del diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e applicare politiche e misure che ritengono adeguate in materia di protezione e di promozione della diversità delle espressioni culturali sul proprio territorio.

Anche in considerazione di quest’ultimo riferimento alla Convenzione UNESCO emerge in modo abbastanza chiaro che lo Stato italiano, almeno con riferimento al tema del rispetto e della tutela delle minoranze, in questo caso etniche e linguistiche, abbia articoli della Costituzione quanto meno ambigui e suscettibili di una attenta rivalutazione.

Ecco perché, qui di seguito, si propongono alcune possibili modifiche volte a rendere più coerente la Carta costituzionale italiana con i Trattati dell’Unione.

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

Quanto ora indicato, se ritenuto ragionevole e perseguibile, rappresenterebbe una prospettiva rispetto alla quale non conta quanto oggi siamo distanti dal renderla operativa, quanto il fatto di agire subito per avvicinarsi ad essa. In tal senso non c’è un prima e un dopo, si agisce laddove oggi è possibile farlo alle condizioni ora esistenti.

Va da sé che questo progetto richiede una revisione della Costituzione italiana per renderla capace di accogliere al suo interno questi principi organizzativi che non ledono affatto le fondamenta della Carta ma anzi, le danno maggior vigore, proprio perché più rispondente alla complessità della situazione attuale che, come è noto, non va ridotta ma compresa e gestita.

In particolare, i primi articoli che richiedono un sostanziale adeguamento sono l’1, il 5 e il 6 in modo da renderli coerenti col principio che coniuga unità e diversità, quest’ultima da considerare come parte costitutiva della Repubblica e non come soggetto di delega come, purtroppo, accade ora.

Nello specifico, l’articolo 1, proprio per far emergere la natura sistemica ed emergente dello Stato dovrebbe indicare, ponendo rimedio agli errori del passato, che la sovranità appartiene congiuntamente ai popoli che abitano il territorio dello Stato e ai rispettivi territori. In questo senso, per esempio, la nuova formulazione potrebbe essere la seguente:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla libertà.

La sovranità appartiene congiuntamente al popolo e alle Comunità territoriali, organizzate in Comuni, Province e Regioni, il cui esercizio si esprime sulla base della pari dignità con gli organi centrali dello Stato e del principio di sussidiarietà per quanto riguarda la ripartizione delle competenze e delle risorse.

L’articolo 5 dovrebbe essere modificato proprio nella stessa direzione: attualmente il potere è in capo allo Stato mentre in una prospettiva sistemica, sulla base del principio di sussidiarietà, dovrebbe essere in capo ai popoli e ai territori che si organizzano attribuendo a livelli superiori quelle parti di potere che secondo criteri di efficienza ed efficacia coinvolgono tutti i popoli o è utile e conveniente che siano gestiti a tale livello superiore. Allo stesso tempo, occorre codificare il principio secondo il quale l’unità nasce dal riconoscimento delle diversità e non invece ribadire il principio contrario dell’unitarietà e della indivisibilità che non intacca le differenze negative da rimuovere e impedisce invece la valorizzazione di quelle positive. Una nuova possibile configurazione dell’articolo 5 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica si fonda sulla comune volontà delle Comunità locali organizzate in Comuni, Province e Regioni di operare, secondo criteri di efficienza ed efficacia, per il benessere, la felicità e l’equità di trattamento dei popoli che la abitano, adottando come criterio di ripartizione delle competenze e delle risorse, il principio di sussidiarietà.

La Repubblica si impegna a garantire la pari dignità dei diversi organi rappresentativi dei popoli e dei territori, attraverso misure di perequazione sociale e territoriale, combinando criteri demografici con altri territoriali e socio-economici.

Infine, nell’articolo 6 occorre stabilire che le minoranze linguistiche hanno pari dignità con l’italiano nei territori in cui esse vengono parlate, favorendo altresì lo studio di tali lingue proprio per conservare e valorizzare nel tempo queste specificità. Si tratta in altre parole di riconoscere in Costituzione la possibilità del bilinguismo perfetto. A tale proposito, per esempio, una nuova configurazione dell’articolo 6 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica riconosce la pari dignità con l’italiano alle diverse lingue parlate nei diversi territori. In particolare, la pari dignità è riconosciuta al francese, al tedesco, al ladino, al sardo, [e terze]nei territori in cui queste lingue sono parlate.

La Repubblica, al fine di garantire la tutela e la valorizzazione di queste lingue ne garantisce e ne promuove l’insegnamento e lo studio nelle scuole di ogni ordine e grado, così da incentivare il plurilinguismo come competenza di maggiore competitività delle popolazioni.

Un’architettura come quella così ipotizzata crea le basi per la trasformazione dello Stato da centralista e unitario in sistemico-federale, così che l’autonomia di ogni livello di potere politico-istituzionale diventi sostanziale, perché garantita da responsabilità di ciò che si fa e da risorse direttamente gestite, pur conservando a livello federale un sistema di perequazione volto a ridurre e rimuovere le differenze negative di tipo socio-economico, ciò che in gergo si chiama federalismo fiscale e che non avrebbe bisogno di specificazione, visto che il federalismo non sarebbe tale senza responsabilità delle parti e senza risorse proprie.

Non è da trascurare il fatto che questa trasformazione crea le basi per un recupero di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni repubblicane, oggi fortemente compromessa e testimoniata dalla progressiva scarsa partecipazione dei cittadini alle consultazioni elettorali. Sarebbe invece utile restituire agli stessi maggiori opportunità di partecipazione alla vita democratica, cosa che, nella prospettiva indicata, suggerisce una integrazione dell’attuale Carta con l’ampliamento dell’utilizzazione dell’istituto referendario non solo in termini abrogativi ma anche propositivi e confermativi, circostanza che oggi sarebbe possibile grazie all’uso delle moderne tecnologie che possono permettere l’esercizio del voto senza il dispendio di risorse umane, materiali e finanziarie che di fatto scoraggiano l’esercizio di questo diritto59.

6. Per una ridefinizione democratica e pacifica del rapporto tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

Alla base di questa proposta di ridefinizione della Carta fondamentale del popolo sardo e della sua convivenza pacifica con gli altri popoli della Repubblica italiana e dell’Unione europea c’è solo l’idea di costruire un’organizzazione delle relazioni basata su valori universali e inalienabili quali, al di sopra di tutti, il benessere e la felicità di ogni individuo che si possono realizzare solo se si creano condizioni di esercizio della propria libertà individuale, nel limite già indicato rappresentato da quella di ciascun altro, la pace e la creazione di condizioni di diritto, interne e internazionali, per la soluzione delle controversie che dovessero sorgere, nonché l’equità e la creazione di pari opportunità perché ogni individuo possa trovare, secondo le sue propensioni, la possibilità di tutelare il diritto alla salute, al lavoro, ad una dimora stabile, a istituzioni educative e formative in grado di favorire il miglioramento delle condizioni di umana esistenza.

Questo significa altresì che una organizzazione di questo tipo si fonda sia su beni individuali che su beni comuni: questi ultimi sono quelli di cui tutti devono avere il diritto di poterne fruire alle medesime condizioni e che sono la base per la convivenza pacifica delle persone, a iniziare da quelli che permettono la vita e l’affermazione della dignità umana.

6.1.1 Il diritto al benessere e alla felicità60

Gli Stati Uniti hanno inserito il diritto alla felicità, già nel 1776, nella dichiarazione d’indipendenza. In particolare, questo testo, redatto da Thomas Jefferson (1743-1826) e approvato dal Congresso di Filadelfia il 4 luglio 1776, qualifica il perseguimento della felicità come diritto inalienabile. In virtù di ciò, il popolo avrebbe quindi il diritto di pretendere dal governo le misure in grado di assicurare a ogni cittadino la propria quota di benessere; in caso contrario i consociati avrebbero il diritto di sovvertire o modificare l’ordine precostituito. La Dichiarazione americana identifica quei valori politici, tra cui la felicità, che i nuovi governi da quel momento dovranno perseguire.

A livello mondiale, esiste persino una giornata dedicata alla felicità, che si celebra il 20 marzo di ogni anno, istituita dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, nella consapevolezza che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone61.

In Italia questo diritto non è affermato, almeno a livello formale, anche se spesso i giudici tendono a riconoscere, tra le righe delle pronunce, valori che almeno in parte postulano il fantomatico diritto alla felicità.

Il Global Happiness 2020 di Ipsos, riporta che sei adulti su dieci, in 27 paesi, sono felici62. Nonostante la pandemia, la prevalenza della felicità a livello aggregato è quasi immutata rispetto all’anno precedente. I paesi più appagati da questa emozione, cioè quelli in cui più di tre adulti su quattro riferiscono di essere molto felici, sono Cina, Paesi Bassi, Arabia Saudita, Canada, Francia, Australia, Gran Bretagna e Svezia.

Quanto ai driver della cultura della felicità, l’indagine mostra che le principali fonti di tale sentimento tendono ad essere universali. In 14 dei 27 paesi intervistati, ognuna delle prime cinque fonti di felicità, cioè quelle che le persone riferiscono più di frequente, è tra le prime 10 fonti a livello globale. Questa lista di paesi include anche l’Italia, oltre a Brasile, Canada, Cile, Cina, India, Messico, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Sudafrica, Spagna, Svezia e Stati Uniti.

Tra le 29 potenziali fonti di felicità, le persone in tutto il mondo, tendenzialmente, sostengono che “la più grande felicità” deriva da:

  • salute e benessere fisico (citato dal 55%)
  • rapporto col partner o coniuge (49%)
  • figli (49%)
  • sentire che la vita ha un significato (48%)
  • condizioni di vita (45%)
  • sicurezza personale (45%)
  • sentirsi il controllo della vita (43%)
  • avere un lavoro o occupazione significativo (43%)
  • soddisfazione per la direzione in cui sta andando la vita (40%)
  • avere più soldi (40%)

Rispetto alla precedente indagine, le fonti di felicità che hanno guadagnato terreno a livello globale riguardano le relazioni, la salute e la sicurezza.

Alcuni elementi mostrano un calo quale fonte di felicità, come la situazione finanziaria personale, la quantità di tempo libero, la nuova leadership politica del paese.

Codificare questo diritto significa porlo alla base delle scelte che un qualsiasi governo si propone di portare avanti, significa altresì utilizzare questo criterio e le sue determinanti quali criteri discriminanti per la valutazione delle decisioni pubbliche prese a qualsiasi livello, da quello più vicino al cittadino (il comune) a quelli superiori, fino ad arrivare, almeno alla dimensione europea, per ciò che concerne noi Sardi.

6.1.2 Il diritto alla pace

Coerentemente con queste finalità e seguendo quanto auspicato da Immanuel Kant ne La pace perpetua, la prospettiva di una convivenza pacifica nel mondo trova un fondamento essenziale nella creazione, a qualsiasi livello, di condizioni giuridiche che impediscano ogni forma di conflitto, di violenza, di prevaricazione e sopraffazione di qualsivoglia natura. Di conseguenza, è auspicabile che si adottino provvedimenti volti, da un lato, al coordinamento, alla riqualificazione e, persino, alla riduzione delle spese militari (almeno per mere questioni di economia di scala) e, dall’altro, per mettere al bando le armi di distruzione di massa e le imprese che le producono.

Nondimeno, la pace e lo sviluppo sociale ed economico trovano oggi possibilità di realizzazione anche nel rispetto dell’ambiente e di ogni forma di vita in esso contenuta. Il patrimonio naturale ereditato dal passato deve essere salvaguardato, protetto e se possibile migliorato a beneficio delle future generazioni, superando la visione antropocentrica per abbracciare invece quella ecosistemica, il che implica che ogni investimento deve essere valutato nel rispetto di questo vincolo. Questo è il concetto di sostenibilità definito dalla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite che questa proposta fa proprie compresi gli obiettivi dell’Agenda 203063.

In altre parole, si può affermare che le guerre nascono dalla volontà degli Stati di espandere il proprio dominio economico e/o di reprimere le libertà individuali. Lo Stato, in troppi casi, invece che strumento per garantire i valori di cui sopra, diventa esso stesso soggetto preponderante sulle persone tanto da tradursi, assai spesso, in forme di colonizzazione di varia natura.

Va da sé che ove c’è colonizzazione non c’è libertà o, comunque, questa è di molto limitata, così come dove non c’è libertà non c’è uguaglianza e non c’è giustizia sociale. Giovanni Battista Tuveri in proposito osservava che “l’uguaglianza … consiste nella libertà garantita indistintamente a tutti, di manifestare i loro valori sociali, e nell’equa e costante proporzione tra i valori che ciascuno manifesta, e l’estimazione che la legge è disposta a farne. È inutile il soggiungere, che una siffatta eguaglianza non può effettuarsi compiutamente sotto quei governi la cui essenza ripugna al pieno svolgimento delle libertà: dacché, ogni attentato inferito alla medesima è inseparabile dalla lesione di un qualche diritto ingenito o acquistato, e quindi di quella proporzione, senza la quale, non dessi vera uguaglianza64.

6.1.3 Il diritto al lavoro

Il diritto al lavoro è riconosciuto come un principio fondamentale nell’ambito delle legislazioni europea, italiana e della Regione Sardegna. Questo diritto non solo garantisce la possibilità di ottenere un impiego dignitoso e giustamente remunerato, ma impone anche agli enti governativi il dovere di promuovere condizioni che favoriscano lo sviluppo economico e l’occupazione. Sostenere il diritto al lavoro significa quindi implementare politiche attive che stimolino la creazione di nuove opportunità lavorative, formazione professionale adeguata e misure di supporto per l’inserimento nel mercato del lavoro.

In termini di azioni concrete, è essenziale che la Regione Sardegna operi in sinergia con le direttive europee e le normative statali per elaborare programmi specifici che mirino a ridurre la disoccupazione, in particolare nelle aree più svantaggiate e tra le fasce più vulnerabili della popolazione, come i giovani e i disoccupati di lungo termine. Questo può includere incentivi per le aziende che assumono disoccupati, sgravi fiscali per i nuovi investimenti produttivi e partenariati con istituzioni educative per l’aggiornamento delle competenze professionali in linea con le esigenze del mercato.

Un altro punto chiave è l’adattamento della forza lavoro alle trasformazioni digitali e ecologiche, che sono centrali nelle politiche dell’Unione Europea. La Sardegna dovrebbe pertanto promuovere la formazione e la riqualificazione nel settore delle tecnologie verdi e digitali, settori che presentano un elevato potenziale di crescita e di creazione di impiego. Parallelamente, è cruciale implementare misure di protezione sociale che garantiscano una rete di sicurezza per chi perde il lavoro a causa delle fluttuazioni economiche o della trasformazione industriale.

Per garantire l’efficacia di queste politiche, la Regione Sardegna può avvalersi di fondi europei, come quelli del Fondo Sociale Europeo e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che offrono risorse significative per l’impiego e lo sviluppo economico. Inoltre, è fondamentale che queste iniziative siano monitorate e valutate regolarmente per assicurare che rispondano in modo efficace alle dinamiche del mercato del lavoro locale.

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

Mai come in questo periodo storico l’ambiente è al centro delle attenzioni delle persone più responsabili che operano nel pianeta terra. Tuttavia, nonostante la crescita di consapevolezza, i dati sui cambiamenti climatici sono impietosi e le misure finora adottate non sono più sufficienti per evitare una catastrofe annunciata. I grafici seguenti ne sono una palese dimostrazione.

Figura 1 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: NOAA, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 2 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: OWID, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 3 – Quota emissioni globali di gas serra per ambito di attività economica.

Fonte: Climate Watch e WRI, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

A tutto questo occorre una azione forte che prima di tutto ponga al centro dello sviluppo socio-economico e di tutela dell’ambiente non più l’approccio antropocentrico ma quello ecocentrico. Il primo approccio (definibile come antropocentrismo-ecologico), si fonda su un ambientalismo che cerca di conciliare lo stile di vita consumistico dell’uomo con la conservazione dell’ambiente, con risultati finora del tutto deludenti, poiché l’esercizio del benessere per questa prospettiva è più importante della salvaguardia delle altre specie. Il secondo approccio, invece, individua la conservazione dell’ambiente nel suo complesso come bene indipendente dall’uomo; quest’ultimo, pertanto, è solo una delle tante specie esistenti sulla terra e qualsiasi gerarchizzazione è arbitraria e fondata sulla presunta separazione tra uomo e ambiente.

La conservazione e la rigenerazione dell’ecosistema dovrebbero essere alla base di qualsiasi visione di sviluppo sociale ed economico: questa scelta è alla base della vita, non solo di una vita decente. Ciò significa che occorre una azione ad ampio spettro che coinvolga indistintamente tutti, a livello individuale sino a quello planetario.

A partire da questa consapevolezza, l’azione a livello locale diventa fondamentale, sia per preservare il contesto in cui si vive, sia per contribuire al più generale miglioramento del sistema Terra.

Ambiente, agricoltura, salute, educazione alimentare, ecc. sono quindi le leve sulle quali agire e le attività da svolgere sono chiarissime:

  • riforestazione e rigenerazione urbana sono priorità assolute. Solo l’incremento della flora può aumentare la capacità di assorbire la quantità di emissioni di CO2 che vengono emesse in atmosfera, può contrastare efficacemente l’erosione dei suoli, le conseguenze devastanti delle alluvioni, l’aumento della temperatura al suolo, ecc.. Queste attività andrebbero fatte, da subito, in ogni centro abitato e nelle aree rurali e di montagna, sia pubbliche che private. Ogni cittadino dovrebbe sentirsi investito della necessità di mettere a dimora delle piante a partire dai propri possedimenti, se qualcuno ne possiede, e per questo dovrebbero esserci delle misure atte ad agevolare con azioni premianti i comportamenti virtuosi o penalizzanti per quelli non consoni a questa visione;
  • incremento delle produzioni agricole così da ottenere almeno due risultati: quello di non lasciare terreni incolti, come purtroppo si vede troppo spesso in Sardegna, e quello di ridurre la dipendenza dall’esterno della nostra bilancia commerciale. Sotto questo profilo serve una azione sinergica molto forte tra l’istituzione regionale (alla quale compete l’onere di definire una visione e gli obiettivi), agenzie regionali (come Laore e Agris) cui spetta il compito di dialogare con le istituzioni statali e comunitarie da un lato e di ritornare a fare divulgazione nei campi a beneficio di chi vuole fare impresa in agricoltura, sia per migliorare la qualità delle specie, in una prospettiva di tutela e valorizzazione delle varietà tipiche, sia per incrementare l’efficienza gestionale di questi imprenditori. Allo stesso tempo occorrono provvedimenti volti a scoraggiare la rendita da possesso che, in molti casi, coincide con l’attesa di cambi di destinazione d’uso da agricoli a industriali o altro per lucrare su affitti o vendite, senza concorrere alla produzione di beni primari.

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da rapidi cambiamenti e da un’economia basata sulla conoscenza, la formazione continua emerge non solo come un diritto, ma come una necessità impellente per ogni individuo. Il principio fondamentale di una “Scuola come spazio di formazione della persona umana” si articola nella visione di un’istruzione che non si limita a trasmettere conoscenze, ma che modella i cittadini, fornendo loro gli strumenti per navigare e prosperare in una società complessa. In questo quadro, proponiamo l’implementazione di programmi educativi che enfatizzano lo sviluppo delle competenze critiche, creative e relazionali, oltre alla pura acquisizione di saperi.

Parallelamente, la visione della “Scuola per la formazione di una identità contestuale, multidimensionale e dinamica che dia valore alle radici e alle ali” si concentra sulla costruzione di percorsi formativi che riconoscano e valorizzino le specificità culturali e storiche del contesto sardo, integrandole con una prospettiva globale. È essenziale che la formazione scolastica in Sardegna incoraggi la consapevolezza delle proprie radici culturali e al contempo prepari gli studenti a inserirsi in contesti internazionali. Per realizzare ciò, suggeriamo l’introduzione di moduli dedicati alla storia e alla cultura sarda in tutti i livelli di istruzione, affiancati da programmi di scambio internazionale che espongano gli studenti a diverse realtà globali.

Azioni concrete da intraprendere includono l’istituzione di laboratori di apprendimento permanente nelle scuole, aperti alla comunità, dove le lezioni di storia locale possano essere integrate con workshop su tecnologie emergenti e competenze digitali. Inoltre, si propone di collaborare con enti culturali e università per sviluppare corsi che esplorino l’intersezione tra identità sarda e fenomeni globali, equipaggiando così gli studenti con le competenze per operare efficacemente sia a livello locale che internazionale.

Queste iniziative, finanziate tramite partenariati pubblico-privati e con il supporto di fondi europei dedicati all’istruzione e alla cultura, mirano a creare un sistema educativo che non solo rispetti il diritto alla formazione continua, ma che trasformi la scuola in un luogo di crescita continua e di preparazione a una vita di attiva partecipazione alla società.

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

Nella visione di una società che valorizza ogni suo membro, il diritto al reinserimento sociale rappresenta un pilastro fondamentale per combattere la cultura dello scarto e promuovere l’inclusione di tutti i cittadini, specialmente quelli che si trovano in condizioni di vulnerabilità. Questo diritto si estende dalle politiche carcerarie che favoriscono il reinserimento degli ex detenuti, fino al sostegno per le fasce più deboli, come le persone senza fissa dimora, gli anziani soli e i minori in difficoltà.

Per quanto riguarda il sistema carcerario, proponiamo l’adozione di programmi di educazione e formazione professionale all’interno delle carceri, finalizzati a fornire agli detenuti le competenze necessarie per un efficace reinserimento nel tessuto lavorativo e sociale al termine della loro pena. Questi programmi dovrebbero essere integrati da partnership con imprese locali per facilitare stage e opportunità di lavoro a tempo determinato post-detenzione.

Inoltre, per contrastare la cultura dello scarto, è essenziale implementare politiche di sostegno che includano servizi di assistenza domiciliare per gli anziani, programmi di tutoraggio per i giovani a rischio di dispersione scolastica e iniziative di housing sociale per offrire soluzioni abitative stabili a chi si trova in condizioni di precarietà. Queste azioni possono essere potenziate attraverso l’utilizzo di fondi regionali, nazionali ed europei destinati all’inclusione sociale e al miglioramento delle condizioni di vita dei gruppi vulnerabili.

Per rafforzare ulteriormente queste politiche, suggeriamo la creazione di centri di ascolto e supporto in ogni comune, dove professionisti qualificati possano offrire consulenza legale, psicologica e lavorativa gratuita. Questi centri dovrebbero operare in rete con le strutture sanitarie locali, le organizzazioni non governative e le associazioni di volontariato, formando una rete di sostegno capillare che possa intervenire prontamente e efficacemente nelle situazioni di emergenza sociale.

Infine, per promuovere un cambiamento culturale duraturo, è fondamentale integrare nei programmi scolastici moduli specifici dedicati al valore della solidarietà e dell’inclusione sociale, educando le nuove generazioni al rispetto e al sostegno reciproco tra cittadini di ogni età e condizione sociale.

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

Nell’ambito di una visione rinnovata dell’impegno politico, il diritto ad una politica del servizio sottolinea l’importanza di considerare l’attività politica non come una carriera a lungo termine, ma come un servizio temporaneo reso alla comunità. Questo principio si concretizza nella proposta di limitare il numero di mandati elettivi a un massimo di due per ogni carica, promuovendo così un rinnovamento continuo all’interno delle istituzioni e prevenendo la stagnazione e l’accaparramento del potere.

Limitare i mandati a due termini aiuta a garantire che le cariche politiche siano occupate da individui motivati dal desiderio di servire il pubblico e non da interessi di lungo termine legati al mantenimento del potere. Tale misura incoraggia anche una maggiore partecipazione civica, aprendo regolarmente le porte a nuovi leader con fresche idee e prospettive, essenziali per affrontare le sfide in continua evoluzione della società moderna.

Inoltre, questa limitazione dovrebbe essere accompagnata da politiche che promuovano la trasparenza e la responsabilità, come la dichiarazione obbligatoria degli interessi e la valutazione periodica delle performance. Queste politiche assicurano che i politici rimangano veri servitori del pubblico, mantenendo sempre un alto livello di integrità e allineamento con gli interessi dei cittadini che rappresentano.

Per implementare efficacemente questa visione, si propone di introdurre modifiche legislative che formalizzino la limitazione dei mandati e che stabiliscano chiari criteri di accountability per i politici in carica. Si suggerisce anche di avviare campagne di sensibilizzazione per educare i cittadini sui vantaggi di una rotazione regolare dei rappresentanti politici, enfatizzando come questo approccio possa portare a una politica più dinamica e reattiva alle necessità della popolazione.

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

In Italia la pressione fiscale si situa intorno al 60%, ciò sta a significare che oltre la metà del frutto del nostro lavoro è appannaggio dello Stato, ossia, su 312 giornate lavorative siamo costretti a lavorare oltre 187 giorni per lo Stato e solamente 125 giorni per noi stessi. Con un prelievo di tale portata si può affermare che siamo di fronte al fenomeno che possiamo definire una schiavitù moderna.

Qualcuno può trovare consolazione nel fatto che siffatta moderna schiavitù è deliberata da un Parlamento democraticamente eletto?

Ricordiamoci che sulla base della legislazione italiana, a differenza del sistema istituzionale elvetico, in campo tributario non sono ammessi referendum. Pertanto, tra la fiscalità e la libertà personale esiste una relazione inversa, nel senso che, oltre un certo punto, la crescita della fiscalità ha luogo a spese della nostra libertà.

Coloro i quali hanno dubbi sulla validità di questa relazione dovrebbero spiegarci quale sarebbe il senso della libertà in un paese in cui lo Stato mi portasse via il 100% del mio reddito. A tal proposito vedasi la efficace descrizione del fenomeno che fa Herbert Spencer, nel libro L’individuo contro lo Stato (1884) Bariletti editori, 1989.

La leva fiscale che, da che mondo e mondo può essere utilizzata anche rispettando adeguatamente la libertà dei cittadino per favorire lo sviluppo economico e sociale di un territorio, può anche essere utilizzata per ostacolarlo, oppure, anche inintenzionalmente o indirettamente, per frenarne le potenzialità.

In Sardegna, è amaro constatare che, fin dal momento in cui il Regno di Sardegna passò sotto il dominio sabaudo prima e italiano poi, la fiscalità è stata usata con quest’ultima finalità. E a tal proposito G.B. Tuveri in un famoso articolo dal titolo “Chi oserà attaccare i campanelli al gatto?”, apparso sul giornale La Cronaca in data 27 gennaio 1867, in cui denunciava che il prelievo fiscale operato dallo Stato italiano in Sardegna era di gran lunga superiore ai benefici che il suo operato apportava alla nostra isola, sosteneva altresì che

“Un’isola qualunque non può prosperare, ove non si governi da sé, o non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi colle prerogative del potere centrale più limitato. E la Sardegna non raggiunse in alcun tempo la prosperità cui è chiamata dalla sua posizione, dai suoi porti, dalla varietà dei suoi prodotti, appunto perché non ebbe mai nel suo seno un governo unico e si organizzato, da poter essere emendato radicalmente e costituzionalmente.”

E sull’operato del Governo di allora sentenziava:

“Un governo che pone tanta diligenza nello spendere il meno che possa nell’isola, quanta ne pone nel ricavarne sempre di più; un governo che, per ciò, non ci lascia che un’ombra di forza pubblica; che macchina tutto dì soppressioni d’uffici e d’istituti pubblici, […] che nel mentre s’appropria la maggior parte delle rendite comunali, addossa ai Comuni ed alle Provincie quasi tutti i suoi carichi, e che inoltre li sottopone ad un’amministrazione dissennata e dispendiosissima, un governo insomma la cui grettezza non può essere pareggiata che dalla sua avidità: un governo siffatto basterebbe ad immiserire, non noi ma il popolo più industre e più dovizioso della terra”.

Tuveri fu il primo ad individuare quella che venne successivamente conosciuta come la “questione sarda”. Qualche anno più tardi anche Camillo Bellieni, in un articolo pubblicato sul “Solco” il 18 dicembre 1921, aveva individuato più o meno le stesse problematiche e così si esprimeva:

“Di fronte al problema sardo, quale noi lo prospettiamo nel nostro programma e nella nostra propaganda quotidiana, le riforme e le concezioni governative, sono nient’altro che pannicelli caldi sopra un membro in cancrena. […] Lasciata a se stessa la Sardegna sarà capace non solo di governarsi e di crearsi ordinamenti più consoni alle proprie condizioni e alle proprie necessità più che oggi non accada, ma anche di crearsi quella prosperità economica che ora le manca, ed è ostacolata in tutti i modi e alla quale le sue risorse naturali e l’energia dei suoi figli le danno diritto di aspirare.

Le esiguità dei tributi, la scarsità della produzione attuale non sono elementi tali che possano dare soverchie preoccupazioni per l’avvenire di una regione come la nostra, che non ha ancora avuto la possibilità di sviluppare tutto il suo rendimento economico.

La Sardegna vuole liberarsi dall’oppressione di tutela dello Stato italiano, per fare da sé, per curare le sue piaghe da sé.

Liberismo, autonomia, cooperazione.

Sono questi gli elementi entro cui è compreso il problema sardo, che è anche il problema dell’Italia.”

Applicato al tempo presente, il fare da sé che auspicava Bellieni equivale ad applicare nel campo tributario i concetti del federalismo.

In campo tributario, il Federalismo attiene essenzialmente alla configurazione e distribuzione delle competenze e delle funzioni tra Stato ed Enti territoriali in materia di entrate fiscali, secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà più volte richiamato.

In un assetto federale deve essere riconosciuto a ciascun ente territoriale il potere di governare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel medesimo ente ai cittadini.

Tenendo ben presente questa premessa vediamo di esaminare l’attuale sistema tributario vigente in Sardegna in quanto Regione appartenete al territorio doganale dello Stato italiano.

A seguito della riforma fiscale del 1972, in vigore in Italia dal 1973, le imposte dirette e indirette più rilevanti dal punto di vista sociale e finanziario, sono concepite e strutturate e sono funzionali ad un sistema sostanzialmente unitario, e mal funzionerebbero in un sistema di tipo federale senza una radicale revisione dei presupposti impositivi e delle procedure di riscossione.

Per quanto riguarda le imposte dirette, la capacità contributiva e la progressività sono i cardini su cui è costruito il sistema tributario italiano ai fini della tassazione dei redditi. Da questo ne discende che il sistema tributario italiano è informato a criteri di progressività e il prelievo fiscale può essere illimitato.

Per quanto attiene al prelievo delle imposte dirette vigenti nel territorio dello Stato italiano, occorre fare riferimento in primis all’articolo 53 della Costituzione che così stabilisce:

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Il primo principio cardine: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” come sopra richiamato, non prevede alcun limite a questo contributo. Sulla base di questo principio, assurdo se ci si pensa un attimo, può succedere e succede ad un qualsiasi contribuente che in base alle sue capacità imprenditoriali, bravura o altro, riesca a conseguire un reddito di 5, 10, 20, 50 o 100 milioni di euro, con il sistema tributario attualmente in vigore dovrebbe/deve concorrere con oltre la metà: 2, 5, 5, 10, 25, 50 e passa milioni di euro alle spese pubbliche. Con siffatta cifra, deriverebbe un concorso abnorme alle spese pubbliche da parte di un singolo contribuente che, con un reddito simile, molto probabilmente non farebbe ricorso, né lui né la sua famiglia, alla stragrande maggioranza dei servizi pubblici tipo (sanità, istruzione, trasporti, etc.) erogati dallo Stato.

In un sistema federale sardo si potrebbe proporre un limite quantitativo al prelievo fiscale. Per esempio, stabilendo un tetto che, oltre al criterio di progressività, tra contribuenti, .si introduca anche un importo informato a criteri di proporzionalità.

Poiché l’altro principio cardine della progressività, su cui si basa il prelievo tributario, appare innaturale.

Normalmente chi lavora di più si attende un maggior guadagno mentre, con il sistema delle aliquote progressive, chi lavora di più, per assurdo, guadagna di meno, e questo vale per qualsiasi contribuente, sia esso lavoratore dipendente o autonomo. Pertanto, in una ipotesi di federalismo fiscale, in un sistema federale sardo, si dovrebbe integrare il principio della progressività col criterio della proporzionalità, prevedendo, per esempio, una percentuale massima del prelievo fiscale sulla base di pochi scaglioni, oppure di una aliquota unica del 15%.

Nell’ottica della trasparenza e di un corretto rapporto fisco-contribuente, nel territorio della Sardegna, si dovrebbe abolire o limitare la figura del sostituto d’imposta prevista nel nostro ordinamento dagli artt. 23 e seguenti del D.P.R. 600/73.

Tra l’altro i sostituti d’imposta, dovrebbero garantire questo servizio di riscossione per conto dello Stato senza alcuna retribuzione, a fronte di notevoli e gravose responsabilità sanzionabili anche sotto il profilo penale come previsto dall’articolo 5 del D.Lgs. n. 74/2000.

Per quanto riguarda le imposte indirette, di cui la principale è l’imposta sul valore aggiunto istituita con il DPR 633 del 26 ottobre 1972, considerato che è un’imposta che grava essenzialmente sul consumatore finale, in linea di principio, ad un’ipotetica crescita della ricchezza prodotta nell’isola, dovrebbe corrispondere la previsione di una esenzione dal tributo per i beni di prima necessità quali, pane, acqua, latte e suoi derivati, pasta, prodotti per l’infanzia, etc.

La diminuzione del gettito che ne deriverebbe da tale esenzione potrebbe essere compensata con l’aumento e la diversificazione delle aliquote per taluni prodotti e servizi, prevedendo delle aliquote maggiori oltre un determinato prezzo di vendita.

Per quanto riguarda l’imposta di registro si potrebbe ipotizzare un’aliquota dell’1% su tutti gli atti soggetti a registrazione, mentre dovrebbero essere abolite l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale e tutti gli altri balzelli che costellano l’universo tributario italiano.

Inoltre, considerato che il patrimonio del de cuius in generale è il frutto degli investimenti realizzati con risorse finanziarie già sottoposte a tassazione, l’imposta di successione dovrebbe essere soppressa.

Tutte le norme fiscali da applicare nella nostra isola dovrebbero essere contenute in un Testo Unico scritte in modo chiaro e di facile interpretazione.

Dovremmo accuratamente evitare il delirio normativo generato dalle centinaia di norme, circolari e risoluzioni ministeriali che affollano la legislazione tributaria italiana e rendono oltremodo vessatorio l’adempimento fiscale.

Attualmente, i rapporti tra la Regione Sarda e lo Stato italiano sono regolati dagli articoli del vigente statuto speciale della Regione Sardegna sulla base di quanto previsto al Titolo III. Finanze – Demanio e Patrimonio, con gli articoli dal 7 al 12.In particolare,l’art. 8 è stato modificato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1 comma 834 e seguenti della Legge 27 dicembre 2006 n. 296 che recita:

Comma 834 

L’articolo 8 dello Statuto speciale per la Sardegna, di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “Art. 8. – Le entrate della regione sono costituite: a) dai sette decimi del gettito delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle persone giuridiche riscosse nel territorio della regione; b) dai nove decimi del gettito delle imposte sul bollo, di registro, ipotecarie, sul consumo dell’energia elettrica e delle tasse sulle concessioni governative percette nel territorio della regione; c) dai cinque decimi delle imposte sulle successioni e donazioni riscosse nel territorio della regione; d) dai nove decimi dell’imposta di fabbricazione su tutti i prodotti che ne siano gravati, percetta nel territorio della regione; e) dai nove decimi della quota fiscale dell’imposta erariale di consumo relativa ai prodotti dei monopoli dei tabacchi consumati nella regione; f) dai nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto generata sul territorio regionale da determinare sulla base dei consumi regionali delle famiglie rilevati annualmente dall’ISTAT; g) dai canoni per le concessioni idroelettriche; h) da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato; i) dai redditi derivanti dal proprio patrimonio e dal proprio demanio; l) da contributi straordinari dello Stato per particolari piani di opere pubbliche e di trasformazione fondiaria; m) dai sette decimi di tutte le entrate erariali, dirette o indirette, comunque denominate,. ad eccezione di quelle di spettanza di altri enti pubblici.

Nelle entrate spettanti alla regione sono comprese anche quelle che, sebbene relative a fattispecie tributarie maturate nell’ambito regionale, affluiscono, in attuazione di disposizioni legislative o per esigenze amministrative, ad uffici finanziari situati fuori del territorio della regione”.

Comma 835. 

Ad integrazione delle somme stanziate negli anni 2004, 2005 e 2006 è autorizzata la spesa di euro 25 milioni per ciascuno degli anni dal 2007 al 2026 per la devoluzione alla regione Sardegna delle quote di compartecipazione all’imposta sul valore aggiunto riscossa nel territorio regionale, concordate, ai sensi dell’articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, per gli anni 2004, 2005 e 2006.

Comma 836. 

Dall’anno 2007 la regione Sardegna provvede al finanziamento del fabbisogno complessivo del Servizio sanitario nazionale sul proprio territorio senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato.


Comma 837. 

Alla regione Sardegna sono trasferite le funzioni relative al trasporto pubblico locale (Ferrovie Sardegna e Ferrovie Meridionali Sarde) e le funzioni relative alla continuità territoriale. Al fine di disciplinare gli aspetti operativi del trasporto di persone relativi alle Ferrovie della Sardegna ed alle Ferrovie Meridionali Sarde, il Ministero dei trasporti e la Regione Autonoma della Sardegna, entro il 31 marzo 2007, sentito il Ministero dell’economia e delle finanze, sottoscrivono un accordo attuativo relativo agli aspetti finanziari, demaniali ed agli investimenti in corso.

Comma 838. 

L’attuazione delle previsioni relative alla compartecipazione al gettito delle imposte di cui alle lettere a) e m) del primo comma dell’articolo 8 dello Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, non può determinare oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato superiori rispettivamente a 344 milioni di euro per l’anno 2007, a 371 milioni di euro per l’anno 2008 e a 482 milioni di euro per l’anno 2009. La nuova compartecipazione della regione Sardegna al gettito erariale entra a regime dall’anno 2010.

Comma 839. 

Dall’attuazione del combinato disposto della lettera f), del primo comma, dell’articolo 8 del citato Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, e del comma 836 del presente articolo, per gli anni 2007, 2008 e 2009 non può derivare alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Per gli anni 2007-2009 la quota dei nove decimi dell’imposta sul valore aggiunto sui consumi è attribuita sino alla concorrenza dell’importo risultante a carico della regione per la spesa sanitaria dalle delibere del CIPE per gli stessi anni 2007-2009, aumentato dell’importo di 300 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009.

Comma 840. 

Per gli anni 2007, 2008 e 2009 gli oneri relativi alle funzioni trasferite di cui al comma 837 rimangono a carico dello Stato.

L’ultimo comma aggiunto all’articolo 8 che prevede la compartecipazione della Regione anche ai tributi diretti e indiretti maturati in ambito regionale ma riscossi fuori del nostro territorio è entrato in vigore nel 2010.

Sulla base delle nuove disposizioni le entrate fiscali (fonte CPT) riferibili alla Sardegna ammonterebbero per l’anno 2021 (in milioni di euro) a € 24.164,35, mentre i trasferimenti operati dallo Stato italiano sarebbero pari a € 30.812,65, per cui risulterebbe un residuo fiscale negativo pari a € 6.648,30. Ogni residente in Sardegna riceverebbe in più dallo Stato una cifra rispondente a circa 4.155,00 euro. A tale proposito, non avendo la possibilità di verificarne l’attendibilità, è lecito solo dubitare che i dati su riportati siano corretti e, anche se lo fossero per quanto verrà riportato in seguito, si ritiene che la Sardegna vanti ancora un credito consistente nei confronti dello Stato italiano. Il problema, di ordine politico e, si badi bene, solo conseguentemente contabile, è farselo riconoscere per poi pervenire alla riscossione.

Intanto, possiamo tranquillamente affermare che fino all’anno 2010, in base alle norme vigenti, in primis i D.P.R. 917/86 e D.P.R. 633/72, e le altre che regolano il prelievo fiscale, una cospicua parte delle imposte dirette e indirette versate dai contribuenti, non venivano riscosse nel nostro territorio dove si creava la base imponibile, ma dove il contribuente, individualmente o in forma societaria, aveva il domicilio fiscale.

La scelta legislativa, applicata fino al 2010, di individuare il luogo di riscossione o d’imputazione delle imposte nel luogo di domicilio fiscale del contribuente, anziché nel luogo di produzione della ricchezza o della materia imponibile, era solo una convenzione fondata sulla presunta esigenza di rendere agevole l’adempimento tributario del contribuente, e non di stabilire un legame diretto tra luogo di produzione del reddito e versamento delle imposte.

Tale scelta per oltre 60 anni, ha comportato che la totalità delle imposte e tasse dovute dalle ditte individuali e dalle società commerciali che operavano nel nostro territorio, e qui producevano base imponibile, non risultavano riscosse nella Regione Sardegna ma, in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e nel resto del territorio italiano dove le stesse avevano il domicilio fiscale o la residenza anagrafica. L’elenco sarebbe lunghissimo e qui ci si limita nel ricordare che la stragrande maggioranza delle banche, delle compagnie di assicurazione, aziende di trasporti aerei e marittimi, grande distribuzione commerciale, aziende che operano nel settore turistico, telecomunicazioni ed energia, non dispongono di sede in loco.

Lo stesso avveniva per tutti i contribuenti di derivazione peninsulare che avevano le seconde case in Sardegna e pagavano l’IRPEF maggiorata di un terzo nei loro Comuni di residenza e non nei Comuni della Sardegna, dove ricadevano le loro case.

Inoltre, non facevano capo alla Sardegna tutte le ritenute IRPEF che venivano operate sugli stipendi dei dipendenti pubblici (insegnanti, magistrati, etc.) per i quali le buste paga venivano elaborate nel Centro elaborazione dati dei vari Ministeri di riferimento, situato a Latina, mentre le ritenute risultavano versate nella Regione Lazio.

Le imposte riscosse in Sardegna sulla base di questa convenzione e in applicazione (da oltre 60 anni) dell’art. 8 dello Statuto Speciale, sono state di gran lunga inferiori a quelle che saranno quantificate e riscosse con l’applicazione del nuovo criterio previsto dal novellato art.8.

Sarebbe utile e vantaggioso per noi quantificare l’ammontare delle imposte che in 60 anni sono state incamerate dallo Stato e non restituite alla Sardegna. A questo ammontare dovremmo sommare anche gli interessi e tutti gli indennizzi che lo Stato italiano dovrebbe corrisponderci per l’uso del nostro territorio, per esempio quello gravato dalle servitù militari e nella dubbia ottemperanza delle normative ambientali.

Nell’ottica di un’ipotetica e graduale affermazione della sovranità della nostra autonomia, le risorse finanziarie suindicate, nel breve periodo potrebbero essere usate per sopperire all’eventuale contrazione delle entrate tributarie.

Appare del tutto verosimile, sulla scorta delle numerose esperienze internazionali, che con un sistema fiscale quale quello ivi abbozzato, che preveda oltre alla possibilità di riscuotere tutte le imposte e tasse, anche la necessaria autonomia impositiva (con la previsione di poter stabilire aliquote differenziate rispetto al resto del territorio italiano), nel giro di pochi anni la Sardegna potrebbe diventare attrattiva per numerose imprese e, persino, per molti contribuenti italiani ed europei che si trasferirebbero nella nostra isola apportando vitali risorse umane e finanziarie.

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

La costruzione di una architettura federale, realizzabile in Italia con una modifica di alcuni articoli della sua Carta costituzionale, sul piano formale richiede modifiche che impattino su due dimensioni in modo particolare: i poteri attributi a ciascun livello sulla base del principio di sussidiarietà e le risorse, finanziarie, umane e materiali, necessarie per l’esercizio di quei poteri.

Sotto questo profilo non si parte da zero. Si tratta di ragionare intorno ai poteri oggi delegati dallo Stato per verificarli e, se necessario, modificarli in funzione del principio secondo cui tutto ciò che si può fare a livello più vicino del cittadino deve rimanere a tale livello. Il Comune è, pertanto, titolare primo di tali poteri, ripartendo da quanto previsto nella Legge 8 giugno 1990, n. 142 in cui si definiva questo ente come quello che “rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Via via che si sale di livello si individuano poi gli altri Enti fino ad arrivare allo Stato e all’Unione europea. I diversi confini tra questi livelli, pertanto sono tutti importanti e nessuno è e deve diventare, come purtroppo è accaduto finora, un “dogma” in nome del quale fare guerre o impedire legittime aspirazioni di libertà dei popoli che vi abitano all’interno.

Per quanto riguarda le risorse vale lo stesso ragionamento. Ogni livello istituzionale deve essere dotato di risorse proprie in funzione degli obiettivi della propria azione di governo. In questo senso, il concetto di federalismo fiscale non è opzionale rispetto al federalismo ma ne è parte costitutiva senza il quale non si potrebbe neppure fare riferimento ad una architettura federale.

Alcune conclusioni

Calando il ragionamento di cui sopra alla Sardegna, si può affermare, senza tema di smentita, che questa terra e questo popolo sono oggi una parte dell’insieme Italia65, costruita fino a oggi sulla base di un processo di integrazione per colonizzazione, visto che una parte (la nazione italiana) ha prevalso sull’altra (la nazione sarda, anche se il tema coinvolge altre Nazioni senza stato presenti nel territorio della Repubblica), costringendola in molti casi a perdere alcuni tratti distintivi. Per esempio criminalizzando l’uso della lingua sarda e imponendo per sostituzione l’uso dell’italiano, ovvero allorché l’introduzione della Legge delle chiudende pur volendo creare i presupposti per la responsabilizzazione degli attori economici di fatto diede avvio a un iniquo assalto ai terreni di ogni tipo da parte dei soggetti più forti e aumentando in questo modo le diseguaglianze tra feudatari e piccoli agricoltori e allevatori.

Questa evoluzione storica è alla base non solo delle difficoltà di sviluppo sociale ed economico ma più in generale di un diffuso malcontento che si sostanzia nella legittima contestazione delle attuali istituzioni che sono all’origine della rivendicazione di una capacità di autogoverno secondo quanto previsto dal principio di autodeterminazione dei popoli affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55), nonché ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale dell’ONU sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960), nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966), nonché nella Carta di Algeri del 4 luglio 1976.

A partire da questo principio, nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, si raccomanda agli Stati membri dell’ONU di “astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione”.

Orbene, queste istanze non vanno demonizzate, come è stato fatto finora ignorando quanto indicato fin qui; una demonizzazione che discende dalla attribuzione di “sacralità” al principio di unitarietà e indivisibilità dello Stato che, si è visto, è il fondamento giuridico con il quale le diversità positive sono state finora annichilite. Una demonizzazione che non riguarda solo il popolo sardo ma che coinvolge altre Nazioni senza stato come la Catalogna, la Scozia, i Paesi Baschi, ecc.

Al contrario, occorre aprire un dibattito che, serenamente e sulla base di un metodo scientifico, possa svilupparsi rigettando i dogmatismi ideologici di posizioni che ne limitano la comprensione da un lato e la possibilità di spiegazione dall’altro.

Nelle scienze sociali, infatti, non esiste irreversibilità o un destino che si muove lungo un piano inclinato. Al contrario, molto dipende da ciò che si decide di fare, sia da parte di chi ha subito una forma di nazionalismo accentratore, sia da parte di chi l’ha posto in essere, se ci si tiene a costruire relazioni più eque e più solidali.

L’uso del termine “colonizzazione”, almeno nel caso della Sardegna, non deve scandalizzare se si analizza la storia di questa terra con un minimo di obiettività. In tal senso, pensando alla Sardegna, si rifletta su quanto Antoni Simon Mossa diceva nell’affermare che «L’oppressione coloniale si è intensificata con lo Stato italiano. L’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo».66

Rifiutare di partire dalla logica e dai fatti storici non aiuta a rimuovere quella percezione di fastidio che tanti Sardi oggi hanno nei confronti dello Stato italiano. Di converso, in questo ragionamento c’è solo la volontà di essere protagonisti del proprio destino, assumendosi la responsabilità delle decisioni e delle azioni, in un contesto solidale con gli altri popoli che abitano l’Italia, l’Unione Europea e gli altri popoli dell’area euro-mediterranea.

Nell’ambito della teoria del federalismo, questo percorso verso il basso viene definito federalismo “dissociativo”. Ciò da molti è vissuto in modo traumatico, come se si perdesse chissà cosa, mentre il tema è quello di re-distribuire il potere in senso verticale in modo coerente col principio di sussidiarietà, così come indicato anche in precedenza.

Parimenti, questo progetto non intende essere ostile all’Italia ed ai suoi cittadini, ma ritiene doveroso contribuire all’evoluzione delle sue e delle nostre istituzioni, mediante riforme democratiche. Riforme che assecondino il bisogno di sviluppo economico, sociale e culturale degli abitanti della Repubblica Italiana, entro il quadro del più ampio sogno europeo e nel rispetto del Diritto Internazionale.

1 https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/mercati-internazionali/accordi-bretton-woods-e-la-sua-fine.htm

2 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=legissum%3Axy0022

3 https://www.eda.admin.ch/europa/it/home/europaeische-union/erweiterungsprozess.html

4 https://www.ilsole24ore.com/art/brexit-ora-maggioranza-cittadini-non-vuole-piu-ADZt1Da

5 Bomboi A. (2019), Problemi economico-finanziari della Sardegna, Condaghes.

6 Il Sole 24 Ore, Conti pubblici, 15-04-2024.

7 Si veda della Banca d’Italia (2023), Rapporto Economie Regionali Sardegna, pag. 22.

8 Barone N., Confronto salariale in Italia, Il Sole 24 Ore, 14-12-2023.

9 inps.it/docallegatiNP/Mig/InpsComunica/WorkInps_Papers/10_WorkINPS_Papers_19febbraio_2018.pdf

10 Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, pag. 62, Tabella 2.2.

11 Più lavoro per i laureati STEM, di E. Bruno, Il Sole 24 Ore, 25-01-2023.

12 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, 2024, pag. 144.

13 Codogno, L., Galli, G. (2022). Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce, Il Mulino, Bologna.

14 Dati Eurostat 2020, in Quotidiano Sanità, 11-09-2023.

15 Indicatori Istituto Superiore della Sanità, PASSI 2021-2022, Roma, in epicentro.iss.it/passi/dati/alcol

16 R. M. Solow – Learning from ‘Learning by Doing’, Stanford, 1997.

17 Manfredi T., “La contrattazione decentrata: più lavoro e più efficienza”, Strade Online, 30-11-2015; Lagrosa I., “Salari differenziati, se copiassimo la Germania vantaggi per tutti”, Mondoeconomico, 20-02-2023.

18 Si vedano i Grafici 1 e 2, Taxing Wages 2024. Tax and Gender through the Lens of the Second Earner, OECD, Parigi, 2024

19 Pp. 1-4, P.A: Pagamenti lumaca – Nota Ufficio Studi CGIA di Mestre, 22-06-2024

20 Cfr. Tabella B, bilancio dello Stato, in La spesa statale regionalizzata. Stima 2022, RGS-MEF, pag. 14, Roma, 01-2024.

21 Si veda la Fig. 2, Entrate e spesa della PA, pag. 7, in La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni, di G. Galli e G. Gottardo, OCPI-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 26-09-2020

22 Con riferimento agli studi di Aresu, Marrocu e Paci (2022), su disaggregazione dati CPT per il periodo 2000-2019, si veda Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, Crenos/Unica, Cagliari, pagg. 53-54.

23 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, pag. 161.

24 Dati elaborati da Ufficio Studi CGIA di Mestre su statistiche INPS e ISTAT, pag. 5, Nota CGIA, 18-11-2023

25 Tavola 7, pag. 6, Statistiche in breve su Gestione Dipendenti Pubblici, INPS, Roma, 05-2024

26 Report indicatori demografici anno 2023, ISTAT, Roma, 29-03-2024

27 Population in brief 2023, Singapore Department of Statistics, 09-2023

28 Sul tema, si consiglia il testo di T. A. Teo, Civic multiculturalism in Singapore. Revisiting Citizenship, Rights and Recognition, Palgrave Macmillan, Cham, 2019.

29 Pag. 29, rapporto Economie Regionali della Banca d’Italia, Sardegna 2023

30 A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020, pag. 27.

31 Sul tema, tra i vari, si segnalano: Entrepreneurship in Small Island States and Territories, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2015; The Success of Small States in International Relations, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2023; The Size of Nations, di A. Alesina, E. Spolaore, The MIT Press, Cambridge, 2003; Integration and International Dispute Resolution in Small States, di P. Butler, E. Lein, R. Salim, Springer, Cham, 2018; When Small States Make Big Leaps, di D. Ornston, Cornell University Press, Ithaca, 2012; Offshore Finance and Small States, di W. Vlcek, Palgrave Macmillan, New York, 2008; The Small States Club, di A. Sarkissian, C. Hurst & Co. Publishers, London, 2023.

32 pag. 123, A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020; Pp. 583 ss., J. M. Buchanan, Federalism and fiscal equity, in The American Economic Review, 1950.

33 Residui fiscali al netto della spesa per interessi, anno 2019. Totale calcolato sulla popolazione sarda censita al 31-01-2024. Nota CGIA di Mestre su dati Banca d’Italia e Conti Pubblici Territoriali, Tab. 1, pag. 5, del 04-02-2023.

34 Legge costituzionale n. 2, 07 novembre 2022/GU Serie Generale n.267 del 15-11-2022.

35 Jugl, M. (2019). Finding the golden mean: Country size and the performance of national bureaucracies. Journal of Public Administration Research and Theory, 29(1), 118-132.

36 Vedere pp. 117-118, de “La riemersione dell’insularità in Costituzione”, di L. M. Tonelli, in Osservatorio Costituzionale, AIC, Roma, Fasc. 06/2022.

37 Nel merito, si consiglia E. Longo, Regioni e diritti. La tutela dei diritti nelle leggi e negli statuti regionali, EUM, Macerata, 2007.

38 Revisione intervento di A. Bomboi, “Insularità in Costituzione? Già esistita sino alla riforma del Titolo V°”, in Istituto Bruno Leoni, blog 23-10-2020.

39 Bottazzi, G. (2014). Sociologia dello sviluppo. Gius. Laterza & Figli Spa, pag. 71.

40 J. M. Buchanan, G. Tullock, Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1998.

41 Vedere anche capitolo X° in A. Bomboi, L’indipendentismo sardo. Le ragioni, la storia, i protagonisti, Condaghes, Cagliari, 2014, e cap. XII°, in A. Bomboi, Problemi economico-finanziari della Sardegna. L’isola può farcela da sola?, Condaghes, Cagliari, 2019.

42 Sul tema si veda Codonesu F., Servitù militari modello di sviluppo e sovranità in Sardegna, CUEC, Cagliari, 2013.

43http://www.richschwinn.com/richschwinn/index/teaching/past%20courses/Econ%20340%20-%20Managerial%20Economics/2013%20Fall%20340%20-%20The%20Nature%20of%20the%20Firm.pdf?fbclid=IwAR1OKjQVzOa_RPtJ1vHh-XML9avY_mZV536sJ6w6we53kRdnFW6sBBSX7xU

44 Popper K.R. (1990). La scienza e la storia sul filo dei ricordi. Intervista di Guido Ferrari, Jaca Book-Edizioni Casagrande, Bellizona, pp.24-25.

45 Esattamente quello che è accaduto nella penisola italica a partire dal 1720 quando il Regno di Sardegna passò ai Savoia che poi, dopo l’occupazione degli altri regni e territori della penisola, diedero luogo al Regno d’Italia diventata Repubblica dopo il referendum post-bellico del 1946.

46 Ci si vuole in sostanza riferire al fatto che l’unificazione dell’Italia è stata imposta dall’alto, senza il consenso delle popolazioni, e che presupporre che esista un popolo italiano è una forzatura in termini storici. È vero invece che più popoli, insistenti su territori differenti, con proprie specificità sono stati messi insieme per volontà del governo sabaudo e per interesse delle classi industriali del nord della penisola italica. Quando Massimo D’Azeglio affermò che “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani” non faceva altro che evidenziare queste diversità, allora considerate negative e, per questa ragione, oggetto di progressiva eliminazione, ancorché, a tutt’oggi, non ci sia riusciti, per fortuna.

47 Un articolo interessante per capire come sia nata la Confederazione elvetica si trova qui https://www.swissinfo.ch/ita/come-la-svizzera-diventò-la-svizzera–le-tappe-fondamentali-prima-del-1848/45810668. Di rilievo appare anche questo articolo in cui si spiegano le ragioni che supportano, ancora oggi, la presenza dei Cantoni, da taluni ritenuti troppo piccoli e che altri, invece, considerano fondamentali per la conservazione degli equilibri fin qui raggiunti. https://www.swissinfo.ch/ita/federalismo-cantoni-svizzera-quanti-ce-ne-vogliono/41171660

48 Si pensi, riferendoci alla Sardegna, al processo di industrializzazione realizzato col Piano di rinascita basato su alcuni errori di fondo, tra cui da un lato quello di pensare che la trasformazione dei lavoratori da agricoltori e allevatori in operai potesse eradicare definitivamente il banditismo. Peraltro creato proprio dalle politiche sabaude sia con la legge delle chiudende che con altri interventi che hanno accresciuto le disparità socio economiche, e dall’altro, dal ritenere che lo sviluppo industriale basato sulla grande industria motrice potesse far nascere un indotto di imprese ad esse collegate.

49 Contu G. (2002). Il federalismo nella storia della Sardegna contemporanea. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 16.

50 Nell’ordinamento italiano, si distingue una sussidiarietà verticale, che è il criterio di allocazione delle competenze fra livelli di governo differenti e mira ad attribuire la generalità delle competenze e delle funzioni alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini; e una sussidiarietà orizzontale, che contempla la suddivisione dei compiti fra le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati. Tuttavia, è utile considerare che il principio di sussidiarietà verticale è stabilito anche dall’art. 5 del Trattato della Comunità europea: “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene […], soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.

51 Cfr. Lobrano G. (2002). Fderalismo e De-centramento. I caratteri e le distinzioni. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 111.

52 A questo proposito è utile richiamare quando recitava l’articolo 2 della legge 142 del 1990 che disciplinava l’Autonomia dei comuni e delle province. In particolare, esso stabiliva testualmente:

“1. Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome.

2. Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.

3. La provincia, ente locale intermedio fra comune e regione, cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale.

4. I comuni e le province hanno autonomia statutaria ed autonomia finanziaria nell’ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica.

5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie.”

53 Questo paragrafo riprende, leggermente adattato da Francesco Casula, un articolo pubblicato il 3 marzo 2015 dallo stesso nella rivista online Truncare sas cadenas. https://truncare.myblog.it/2015/03/03/federalismo-pacifismo-il-messaggio-lussu-40-anni-dalla-morte-francesco-casula/

54 L’intera frase virgolettata è tratta da Norberto Bobbio, “Federalismo”. “Introduzione a Silvio Trentin”.

55 Vargiu A. (2006). I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del ’44. Edizioni ISKRA, Ghilarza.

56 Illuminanti, in proposito, sono le tesi dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, il quale rifiuta la presenza di un’autorità governativa che pone alla schiavitù gli individui, non condividendo quindi gli ideali tipici collettivistici in cui era necessaria la stessa. Per questo studioso, lo Stato si deve limitare a porre in essere e in modo semplice le regole basilari per favorire lo scambio tra individui. Cfr. Hayek (von) Friedrich A., Individualismo: quello vero e quello falso, Rubettino, 1990.

57 L’articolo 2 recita testualmente: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

58 https://www.unesco.beniculturali.it/wp-content/uploads/2017/11/convenzione2005.pdf

59 A tale proposito sarebbe utile prendere esempio dalla vicina Confederazione elvetica dove grazie a questo istituto il popolo ha davvero possibilità di incidere positivamente sul processo legislativo. Si veda per esempio https://www.swissinfo.ch/ita/strumentario-della-democrazia-svizzera_il-referendum–ovvero-la-politica-sotto-una-spada-di-damocle/44101794

60 Il contenuto di questo paragrafo deriva in gran parte da questo documento https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/12/diritto-alla-felicita-cosa-ne-pensa-popolazione-mondiale

61 Risoluzione A/RES/66/281 del 12 luglio 2012 dichiara che “L’Assemblea generale […] consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, […] riconoscendo inoltre di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata internazionale della felicità (International Day of Happiness)”.

62 Ogni anno, in occasione della celebrazione della giornata internazionale della felicità, l’ONU pubblica il World Happiness Report, un rapporto nel quale è riportata la lista dei Paesi più felici del mondo sulla base di criteri quali il Pil pro capite, il welfare, le aspettative di vita, la libertà, l’assenza di corruzione e la cooperazione sociale.

63 Cfr. https://unric.org/it/agenda-2030/

64 AA.VV. (1988). Giovanni Battista Tuveri. I tempi, le idee, le opere, i testi significativi di un pensatore nella Sardegna dell’Ottocento, Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari, p. 154.

65 Non è casuale l’uso della parola insieme e non sistema.

66 In https://www.algheroturismo.eu/event/5-frasi-per-conoscere-antoni-simon-mossa-il-politico/Associazione Sardegna Federale

Manifesto politico-culturale

Presentazione

Questo documento rappresenta la visione dell’Associazione rispetto a ciò che la Sardegna vorrebbe e dovrebbe diventare all’interno di una cornice giuridica e istituzionale di tipo federale.

La responsabilità di ciò che è scritto lo si deve ai fondatori dell’Associazione e, segnatamente, in ordine sparso, alle seguenti persone: Gavino Guiso, Adriano Bomboi, Donatella Gallistru, Camillo Gosamo, Gavino Guiso, Giuseppe Melis, Renato Orrù, Piergiorgio Pira, Giovanni Scanu e Massimo Bacciu, Corrado Putzu e Andrea Riccio, con il contributo esterno di Francesco Casula del quale abbiamo fatto nostre alcune considerazioni riguardanti il federalismo di Emilio Lussu. Egli, pertanto, non ha alcuna responsabilità sul testo considerato nel suo complesso.

Estensori del Manifesto:

– Giuseppe Melis (docente di economia e gestione delle imprese all’università di Cagliari; capitoli deputati ad illustrare il contesto storico-istituzionale);

– Adriano Bomboi (saggista, capitoli deputati ad illustrare i principi dell’associazione ed il contesto socio-economico);

– Piergiorgio Pira (dott. commercialista, capitoli deputati ad illustrare la normativa fiscale e la sua possibile evoluzione).

Indice

  1. Lo scopo principale di Sardegna Federale
  1. La ricerca del benessere
  2. Le nostre ambizioni
  1. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.
  1. Il contesto di riferimento
  2. La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione
  1. L’Italia: una repubblica con tanti limiti e fondata sul debito pubblico

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

3.2 La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

3.3 Una economia poco produttiva.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

3.5. Quale contesto economico-culturale?

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

3.9. Un popolo in pensione.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

3.11. Una fotografia del presente.

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

  1. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

4.2 Il contributo della scienza economica

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

  1. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

  1. Per una ridefinizione democratica e pacifica delle relazioni tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

6.1.1 Il diritto alla felicità

6.1.2 Il diritto alla pace

6.1.3 Il diritto al lavoro

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

Alcune conclusioni

1. Qual è lo scopo principale di Sardegna Federale?

1.1. La ricerca del benessere

Sardegna Federale esercita ed interpreta ogni proposta di cambiamento, ogni posizione ed ogni impegno civico nel solco del raggiungimento del benessere della popolazione. Benessere che può essere raggiunto solamente attraverso un processo di studio e analisi delle risposte da offrire alle maggiori problematiche della Sardegna contemporanea, e che passano inevitabilmente per un necessario percorso di riforme utili ad uscire dalle sabbie dell’immobilismo.

Tale processo, che ha nella riforma dello Statuto di Autonomia il suo baricentro, non ignora i rilevanti ostacoli al cambiamento che oggi impediscono all’isola di costruire un domani migliore, sia esso di ordine politico, istituzionale, economico e culturale. E ciò nondimeno, con umiltà, espone il bisogno di immaginare una Sardegna diversa, proponendola a chi vorrà o saprà ascoltare. Esprimendo, soprattutto, l’esigenza di contribuire all’evoluzione del dibattito politico, affinché si pianti il seme per la diffusione di nuove riflessioni destinate ad arginare il trend di declino in cui la comunità sarda, come mostrano diversi dati, si è drammaticamente adagiata.

Sardegna Federale si propone altresì di contribuire al dibattito per un miglioramento dell’organizzazione e delle istituzioni europee in termini di maggiore rappresentatività delle autonomie locali, per lo snellimento delle burocrazie centrali ed una maggiore competitività, in chiave elvetica, con particolare riferimento ai settori del fisco, del lavoro, del commercio e dell’innovazione scientifica.

1.2. I nostri intenti?

La base di partenza del ragionamento risiede nella constatazione di dover immaginare un contesto sociale ed economico in cui gli individui siano tutelati e valorizzati in quanto tali e, nel contempo, possano sviluppare relazioni di varia natura, sulla base del principio che ci sono argomenti, materie e temi che possono trovare soluzione solo in una prospettiva di tipo collaborativo e che per questo occorre avere possibilità di decisione a un livello che non può essere solo quello individuale. Ciò che, sulla base delle conoscenze attuali conduce a un sistema di tipo federale.

Ecco, quindi, che il primo intento dell’Associazione è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il federalismo, interno ed esterno all’isola, garantisca lo sviluppo socio-economico, nonché un radicamento del potere a livello più vicino a quello dell’individuo per poi attribuirlo a livelli di decisione superiori per tematiche di interesse comune, fino ad arrivare al livello mondiale. Si tratta di una prospettiva che, tra le altre, vuole essere uno strumento di responsabilizzazione e trasparenza nell’amministrazione della spesa pubblica, senza pretendere né sostenere rapide o scontate capacità di successo.

Un altro intento è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la democrazia sarda, nella strada verso la dignità, amministri il proprio settore pubblico grazie alla ricchezza locale, limitando il ricorso a trasferimenti economici e la delega di funzioni di governo del territorio da/a terze istituzioni.

Analogamente ci si propone di costruire le condizioni per arrivare ad un contesto istituzionale in cui la democrazia sarda acquisisca e amministri gradualmente, in modo autonomo, con proprie risorse, sempre più funzioni e servizi destinati alla cittadinanza ed oggi gestiti dallo Stato, sino ad un’eventuale concordata e piena sovranità, tramite referendum, nel quadro del Diritto Internazionale e sulla base del principio di sussidiarietà.

Occorre altresì costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la politica miri a ridurre il proprio protagonismo nella tendenza a presidiare ogni ente, fondazione o pubblico servizio, fenomeno che oggi causa alti costi e detrimento dell’efficienza a danno dei contribuenti, senza peraltro garantire la finalità pubblica cui dovrebbe ispirarsi. La politica, in altre parole, deve stabilire valori e principi e verificarne il raggiungimento da parte degli attori chiamati a proporre, secondo criteri di efficienza ed efficacia, il loro perseguimento.

Riteniamo altresì necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il merito individuale non venga oscurato dall’eventuale mediocrità al potere né annichilito dalla sua incompetenza. In tale ambito, il successo personale deve trovare affermazione senza subire il peso dell’invidia sociale, del nepotismo e del clientelismo.

Nel contempo è indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società più equa, con maggiore mobilità sociale, in cui anche i meno abbienti possano ambire alla crescita della propria ricchezza culturale e materiale. Perché questo possa avvenire è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui lo studio, nelle sue molteplici modalità, non venga ritenuto superfluo, ma strumento di crescita personale, di crescita sociale e di affermazione professionale.

Coerentemente con tale prospettiva è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’impegno, la determinazione e lo spirito imprenditoriale vengano promossi rispetto alla tutela assistenziale.

L’obiettivo deve essere quello di costruire le condizioni per arrivare ad un habitat culturale, politico, fiscale e burocratico capace di stimolare e attrarre ricerca, innovazione e investimenti, interni ed esterni all’isola. Analogamente, ciò deve accompagnarsi con interventi volti a costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’innovazione tecnologica, comprese quelle legate all’intelligenza artificiale, venga interpretata come un’opportunità di sviluppo e non alla stregua di un insidioso mutamento in negativo.

Vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la produttività totale dei fattori premi adeguatamente il reddito dei lavoratori. Così come vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il libero scambio della cultura e del commercio, seppur unite alla preservazione e valorizzazione delle tradizioni locali, oscurino volontà protezionistiche e lesive tendenze nazionalistiche. Una formula orientata al civic nationalism come strumento di garanzia della nostra società.

In quest’ambito ci proponiamo di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la storia, l’archeologia e i beni culturali sardi rappresentino un patrimonio collettivo degno di adeguati studi e di efficace promozione, a partire dal loro insegnamento durante la scuola dell’obbligo.

Ciò è premessa imprescindibile per costruire le condizioni per arrivare ad una società il cui tessuto produttivo trovi una via autonoma alla crescita e alla diversificazione dell’economia locale.

Quanto indicato in precedenza è presupposto indispensabile per costruire le condizioni per arrivare ad una società che sappia attrarre i giovani, frenando l’emorragia dell’emigrazione, consentendo di investire in loco il talento individuale.

Coerentemente con quanto fin qui indicato vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la tutela dell’ambiente rappresenti uno strumento di decoro civico ed una risorsa destinata a garantire il reciproco benessere dell’individuo, dell’economia e del suo habitat.

Vogliamo quindi costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui si guardi alla comunità internazionale, tra cui l’Unione Europea, non come vincolo allo sviluppo, ma come strumento di opportunità collettive di crescita da interscambi culturali e commerciali.

Coerentemente con questa visione liberale della società vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui siano rispettati sia i diritti civili individuali che quelli di ogni minoranza.

In tale prospettiva di valorizzazione delle diversità riteniamo indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il plurilinguismo, tra cui il sardo, l’italiano e l’inglese, sia considerato non un limite ma un valore aggiunto nella formazione e nella comunicazione tra individui.

Infine, sulla scorta di pensatori e uomini illustri quali Giovanni Battista Tuveri, Giuseppe Todde, Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Gianfranco Pintore, Luigi Einaudi, Ludwig Von Mises, Konrad Adenauer, Karl Popper, Albert Dicey e Thomas Jefferson; ed in linea con mirabili esperienze intellettuali, istituzionali e costituzionali, come quella dei Federalist Papers, del Commonwealth britannico, del Liechtenstein e della Confederazione Elvetica, guardiamo ad una nuova stagione di riforme.

Nelle pagine successive cerchiamo di dare risposte alla domanda di sostegno dei cambiamenti auspicati in questo punto.

2. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.

2.1 Il contesto di riferimento

A distanza di oltre 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana e dello Statuto speciale della Sardegna, quest’ultimo approvato con legge costituzionale il 26 febbraio 1948, si rende necessaria una riflessione sulla capacità di entrambe queste carte di rispondere in modo efficace ed efficiente alla nuova situazione venutasi a creare per effetto dei cambiamenti ambientali di tipo politico, sociale, culturale, scientifico e tecnologico, intervenuti sia a livello mondiale che euro-mediterraneo.

Rispetto ad allora, infatti, i confini hanno mutato natura sia di diritto che di fatto, sia sul piano mondiale che su quello più vicino rappresentato dai contesti europeo e italiano. In particolare, tale mutamento, si manifesta nella molteplicità di tali confini e nel fatto che ciascuno di essi assolve a molteplici funzioni: da un lato demarcano e segnano differenze, da un altro mettono in relazione diversità legittime e meritevoli di tutela e, da un altro ancora, svolgono una funzione di selezione e filtro rispetto ad altre relazioni tra popoli e loro aggregati politico-istituzionali.

Nello specifico, sul piano mondiale non si può non tenere conto del fatto che, da quando sono nate la Costituzione italiana e lo Statuto della Sardegna, le cose siano cambiate in modo talmente significativo che oggi quella situazione non esiste più: innanzitutto sono venuti meno gli accordi di Yalta che avevano sancito la divisione del mondo in due sfere di influenza, una sotto il dominio USA e l’altro sotto quello dell’URSS. Da allora, sul piano politico l’URSS non esiste più, la Cina è diventata un soggetto tanto potente da entrare nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e nel contempo, altri Stati in Asia, come nell’America Latina, hanno cambiato il proprio ruolo, accrescendolo in termini di capacità di influire sulle vicende mondiali. Ciononostante, le istituzioni mondiali create dopo la Seconda guerra mondiale sono rimaste pressoché immutate e l’ONU, in particolare, è sostanzialmente bloccata dal perdurare del diritto di veto esercitabile da uno qualsiasi dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e, di conseguenza, incapace di agire efficacemente e con puntualità, soprattutto di fronte a problemi come i conflitti tra stati e, segnatamente, tra quelli in cui è coinvolto uno qualunque degli Stati del Consiglio di Sicurezza. Rendendo peraltro flebile l’uso del diritto come strumento di composizione delle controversie.

Dal punto di vista commerciale la nascita degli accordi GATT che hanno originato l’attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) hanno creato i presupposti per la progressiva abolizione e riduzione delle barriere doganali favorendo il libero commercio di beni e servizi e l’affermarsi del fenomeno della globalizzazione che porta con sé una serie di implicazioni, sia positive che negative.

Sul piano economico e monetario, dopo il venir meno degli accordi di Bretton Woods1, allorché il Presidente USA Richard Nixon dichiarò unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro in oro il 15 agosto 1971, gli europei, dopo alterne vicende riuscirono, grazie agli accordi di Maastricht del 1992 a mettere a disposizione degli scambi commerciali mondiali l’euro, utilizzabile anche come moneta di riserva da affiancare al dollaro. Questa scelta che è servita a restituire stabilità al commercio mondiale da un lato e, agli Stati europei aderenti all’accordo dall’altro, la possibilità di contenere l’inflazione e di non subire più la volatilità derivante da operazioni speculative, non è riuscita ad esprimere tutte le potenzialità, dal momento che si è dato seguito soltanto all’unione monetaria ma non anche a quella economica che avrebbe richiesto, invece, una armonizzazione, che non c’è stata, sul piano della fiscalità e dei sistemi di welfare e tutela del lavoro.

Sempre sul piano europeo, la nascita del processo di integrazione, in parte frutto della capacità visionaria del federalista Altiero Spinelli, ma soprattutto di statisti come De Gasperi, Schumann, Monnet e Adenauer ha creato i presupposti di tipo economico, commerciale ed energetico perché da un lato si impedisse un nuovo conflitto tra popoli storicamente nemici e, dall’altro, ha creato i presupposti per far diventare il contesto dei paesi aderenti all’Unione, oggi arrivata a 27 Stati, la prima potenza commerciale al mondo. Senza scordare il fondamentale apporto degli Stati Uniti d’America.

Se l’approccio funzionalista ha permesso la nascita e ha favorito i primi allargamenti della Comunità inizialmente a 6, poi a 9 nel 1973, a 10 nel 1981 e a 12 nel 1986, di seguito ha perso di efficacia con i successivi allargamenti a nord e a est, incancrenendo i processi decisionali a questioni spesso marginali rispetto alle generali finalità definite dai padri fondatori. Infatti, la liberalizzazione dell’economia ha catturato completamente l’attenzione dei paesi aderenti e non è stata accompagnata da una altrettanto auspicabile liberalizzazione della democrazia che, nel rispetto del diritto di autodeterminazione dei popoli, dovrebbe ancora oggi porsi come vero e proprio laboratorio sperimentale di esperienze partecipative. L’UE, di converso, dovrebbe affondare le proprie radici nella condivisione di politiche inerenti principalmente alla difesa, i rapporti con l’estero e il bilancio, mentre, a tutt’oggi tale procedimento risulta del tutto disatteso o è molto debole, anche se il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato all’attenzione l’importanza di dotarsi di una politica europea di difesa, così come di una strategia comune in campo energetico, ambientale e di produzione di materie prime agricole.

In sostanza, a distanza di settant’anni esatti dall’entrata in vigore del primo accordo riguardante la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)2, si può affermare che se da un lato il processo di allargamento a nuovi Stati3 è stato ampiamente positivo per creare un contesto di cittadinanza europea, fondato sull’idea di una cultura inclusiva, aperta e collaborativa, dall’altro lato, la crescita di complessità non è stata accompagnata da provvedimenti che impedissero sia il progressivo incancrenirsi dei processi decisionali sia l’emergere di posizioni opportunistiche assai distanti dalle intenzioni dei padri fondatori. Il risultato della mancata gestione del processo di approfondimento e consolidamento in senso politico ha fatto sì che uno dei Paesi entrati col primo allargamento (il Regno Unito di Gran Bretagna) abbia deciso di uscire dall’Unione ponendo il problema di prevedere nei Trattati anche l’eventuale uscita dall’Unione, nel rispetto del fatto che gli interessi a partecipare e la delega sulle materie attribuite possono mutare nel corso del tempo4.

Certo è che il processo di integrazione europea ha modificato il concetto di “confine” degli stati nazionali rendendoli sempre più permeabili per rispondere alla necessità di favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, così come, di fatto, è nella consapevolezza di tutti che la crescita dei fenomeni migratori impone a tutta l’area dell’Unione europea nuove sfide in termini di creazione di condizioni inclusive delle molteplici diversità in essa presenti.

Questo significa che occorre una seria riflessione e revisione di tutto l’impianto istituzionale che va dall’Unione Europea agli Stati nazionali e da questi alle unità sub-statali, considerando con la dovuta attenzione la questione delle Nazioni senza Stato che coinvolge diversi territori ad ovest come a est, a sud come a nord del Continente europeo.

Di certo il processo di integrazione europea ha prodotto tali e tanti cambiamenti che sarebbe estremamente sbagliato non considerare nella loro globalità e complessità, sia positivi che negativi, circostanza questa che non deve permettere giudizi sommari volti a enfatizzare o demonizzare il percorso fatto fino ad oggi.

Nondimeno, sul piano scientifico/tecnologico l’evoluzione digitale ha favorito e favorisce la costruzione di reti e di relazioni che attraversano i confini degli Stati, abbattono le barriere linguistiche e culturali, permettono a ogni individuo di essere nel contempo parte della propria realtà locale e di quella europea e, più in generale, mondiale.

2.2 La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione

La premessa di cui al punto precedente è parte integrante del ragionamento che sta alla base della proposta di un nuovo Statuto di autonomia della Sardegna, poiché sarebbe metodologicamente errato ignorare che anche per questa terra e il popolo che la abita, il problema è quello di trovare, responsabilmente e da protagonisti, una adeguata e dignitosa collocazione del nostro stare nel mondo. Uno stare nel mondo che è, di fatto e di diritto, condizionato prima di tutto, volenti o nolenti, dall’appartenere sia alla Repubblica italiana che all’Unione europea. Tale appartenenza, infatti, è di certo all’origine di numerosi vincoli e condizionamenti negativi ma non si può sottacere che, dalla stessa scaturiscono importanti opportunità che occorre individuare e saper cogliere.

Sono queste ragioni che suggeriscono, responsabilmente, di rivedere lo Statuto della Sardegna all’interno dell’organizzazione complessiva della Repubblica italiana e, in prospettiva, dell’Unione europea; questo è propedeutico per comprendere in che modo la struttura dello Stato, nelle sue istituzioni centrali, possa essere più adatta e capace di agire per dare soddisfazione alle legittime, molteplici e diverse istanze provenienti dalle popolazioni presenti nei diversi territori dello Stato. A supportare questa esigenza c’è l’amara constatazione del fatto che l’attuale architettura istituzionale non è stata finora in grado di supportare efficaci azioni volte a impedire l’aumento delle differenze socioeconomiche tra le diverse aree mentre, di converso, l’attuale ordinamento non permette di attribuire valore alle differenze positive di tipo storico, culturale e linguistico che, anzi, nel tempo, sono state represse e perfino annullate se non anche criminalizzate.

Ciò implica una revisione della Carta costituzionale in modo da renderla strutturalmente adatta per far fronte alla nuova società in corso di formazione. Una revisione che mantenga saldi alcuni valori e principi che non tramontano e non devono tramontare ma che sia allo stesso tempo capace di accogliere istanze finora ignorate se non anche calpestate. Ecco perché serve una ridefinizione dei poteri metodologicamente coerente con il rispetto di valori e principi universali riconosciuti istituzionalmente ma negati sostanzialmente per effetto della prevaricazione di chi, avendo dei vantaggi dalla situazione esistente, voglia in modo miope ed egoistico continuare a impedire quanto già oggi la stessa Costituzione pone a base della formazione dello Stato italiano e i Trattati europei pongono a base della cittadinanza europea. In tal senso, infatti, i poteri attribuiti alle Regioni dalla Costituzione, anche dopo la riforma del Titolo V, appaiono inadeguati rispetto alla necessità di favorire quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 3 che recita:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

L’inadeguatezza dell’architettura politico-istituzionale è connessa con la necessità di riconoscere all’origine il principio in base al quale si è in grado di esercitare il potere e cioè che questo libero esercizio è possibile solo se si dispone degli strumenti e delle risorse necessari, ovviamente nel rispetto della responsabilità, cioè del fatto che chi decide risponde personalmente del proprio operato, nel bene e nel male.

Questo significa che non è solo una questione di materie sulle quali esercitare il potere, alcune in modo esclusivo e altre in modo concorrente con lo Stato, quanto di riconoscere per ciascuno dei livelli di potere decisionali la responsabilità e la capacità di stabilire le risorse utilizzabili allo scopo, a partire da quelle finanziarie ottenibili attraverso la fiscalità.

Se quindi lo Statuto originario ha attribuito alla Sardegna il potere di legiferare in maniera esclusiva su alcune materie (ad esempio: ordinamento degli enti locali, edilizia, urbanistica, agricoltura e foreste), mentre in altre (come sanità, assistenza pubblica) può legiferare nell’ambito dei principi stabiliti con legge dello Stato, con la riforma del Titolo V tali competenze sono state ampliate (ad esempio, ricerca e formazione professionale). Ciò che manca, tuttavia, è la possibilità di prevedere all’origine risorse proprie per ciascun livello decisionale, visto che tutte le entrate fiscali sono dello Stato e poi da questo trasferite alle Regioni. Questo è uno dei vulnus più evidenti che spingono a considerare non più rinviabile la revisione della Costituzione italiana e la costruzione di un nuovo Statuto che assicuri un livello reale e sostanziale di esercizio del diritto di autodeterminazione.

Nondimeno occorre evidenziare che l’attuale Carta costituzionale, nell’attribuire allo Stato centrale tutto il potere prevedendo che sia quest’ultimo a delegarlo a livelli istituzionali inferiori, legittima l’idea di una gerarchia che non si discosta da quello monarchico dal quale il popolo decise di volersi staccare col referendum del 1946. Sarebbe invece opportuno che, coerentemente con una idea reticolare e sistemica della società, la Carta costituzionale riconoscesse pari dignità a ogni livello politico-istituzionale, dal momento che la suddivisione del potere andrebbe realizzata nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di efficienza ed efficacia dell’azione politica.

Analogamente, ancorché il tema verrà sviluppato in un punto successivo, va chiarito fin d’ora che una democrazia compiuta si fonda sul coinvolgimento diretto e totale dei cittadini cui si rivolge un determinato ordinamento, sia esso lo statuto, la costituzione o un trattato internazionale. Questo, per noi Sardi, dal 1720 a oggi non è mai avvenuto. Anzi, i sardi hanno subito tutte queste decisioni senza mai esprimersi. La democrazia diretta è indice di maturità. Rifiutarla, significa che ci sono delle élite che si arrogano un diritto che non gli appartiene, quello di pensare di essere migliori di altri.

3. L’Italia? Una repubblica fondata sul debito pubblico.

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

Le ragioni fondamentali che inducono ad agire per modificare il contesto politico-istituzionale italiano, a dispetto della convinzione di possedere la “costituzione più bella del mondo”, sono due.

La prima è che la cultura politica largamente consolidatasi nell’isola, e in generale in tutto il territorio italiano, ha visto i partiti trasformarsi in meri comitati elettorali dediti a raggiungere il potere per incrementare la spartizione della spesa pubblica. Sia a vantaggio della propria replicazione al potere, sia a diretto vantaggio di ampie fette del proprio elettorato, in termini di sussidi di varia natura, tanto al reddito individuale quanto alle imprese.

Terminata infatti la stagione dei grandi idealismi politici, si è alimentata una prassi di governo che reclama diritti ma in assenza di doveri. E nonostante la presenza di alcune figure politiche preparate all’interno dei vari schieramenti, l’assenza di responsabilità nella gestione dei conti pubblici rappresenta il tratto unificante della linea assunta dalla quasi totalità di tali organizzazioni politiche. Un fenomeno di degenerazione del neokeynesismo amministrativo che ha avuto come principale conseguenza quello di alimentare la seconda ragione che motiva il nostro impegno.

Ci si vuole riferire, nello specifico, all’immobilismo politico, che a sua volta genera quello economico e sociale.

L’elargizione di sussidi e in linea generale di spesa corrente improduttiva, destinata non agli investimenti in crescita, ma ai consumi, rappresenta l’unico concreto collante nazionale italiano. Una tradizione che ha creato un ceto politico incapace di portare avanti riforme strutturali, il quale potrebbe altrimenti limitare la sua capacità acquisita di sviluppare nuovo consenso elettorale. Ragion per cui, nel momento in cui tale classe dirigente raggiunge i gangli del governo, locali o statali, si limita ad occuparsi di ordinaria amministrazione, senza aggredire le basi della nostra bassa competitività economica, e coinvolgendo media e intellettuali in un conformismo al ribasso. Un contesto in cui si moltiplicano progressivamente le varie crisi di settore, a cui si risponde con provvedimenti spot, dal tenore populistico, o tampone, rimandando nel tempo ogni soluzione, o accrescendo la dimensione dei problemi5.

Pertanto, l’uso sconsiderato della spesa pubblica accresce il debito pubblico, che a sua volta diventerà sempre meno sostenibile, in quanto l’incapacità di generare nuova ricchezza, dovuta a storici e consolidati gap economici e al crescente declino demografico, ne comprometteranno la solvibilità.

Per comprendere meglio quanto affermato è opportuno riferirsi ad alcuni dati come quelli pubblicati nei periodici bollettini statistici, tra cui quelli di Bankitalia, Istat, Eurostat, Ocse e, in ambito locale, Crenos, inerenti alla struttura della società sarda, che, purtroppo, dipingono una realtà drammaticamente in declino destinata a peggiorare ulteriormente la sua performance. A sua volta inserita nel più drammatico calderone del debito pubblico italiano, che nel 2024, secondo la Banca d’Italia, ha raggiunto la cifra record di 2.872,4 miliardi di euro.6

Cosa sta accadendo nell’economia sarda del primo ventennio del XXI° secolo?

3.2. La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

Le imprese reggono l’urto della fase pandemica, con una lieve tendenza alla crescita, ma stentano a tornare ai livelli pre-crisi. Preoccupa maggiormente il mercato del lavoro, spia della struttura reale della nostra economia e dunque della natura delle nostre imprese. Ciò poiché i lavoratori sardi si differenziano principalmente da quelli della penisola e ancor di più dal resto dei paesi dell’UE, per due elementi negativi: il primo riguarda il minor numero pro capite di ore lavorate, che non riguarda tuttavia professioni ad alto valore aggiunto che giustifichino il trend; mentre il secondo riguarda i più bassi salari dei sardi rispetto ai concittadini della penisola. Anche pari al 10,6% in meno7, aspetto tanto più grave se consideriamo che i salari medi italiani risultano già essere tra i più bassi di tutta l’area Ocse. Sono cresciuti infatti appena dell’1%, tra il 1991 e il 2022, rispetto al 32,5% degli altri Paesi8.

Figura _ – Mettere titolo

Fonte:

A cosa si devono queste differenze? Secondo Bankitalia «L’economia sarda si caratterizza infatti per una maggiore specializzazione nei settori e nelle classi dimensionali di impresa con salari orari più bassi, quali i servizi ricettivi e ricreativi e le aziende di piccola dimensione. Nel confronto con l’Italia, è inoltre proporzionalmente più elevata la quota di occupati che ricoprono mansioni meno qualificate. Anche la maggiore prevalenza rispetto al resto del Paese di rapporti a tempo determinato e stagionali influenza il divario salariale a sfavore della Sardegna.»

La bassa produttività della nostra forza lavoro è dunque uno dei principali motivi dell’esiguità dei nostri salari, su cui pesano (micro)imprese, per la maggiore, tecnologicamente arretrate e scarsamente diversificate verso altri settori. Imprese che, oltre ad un generale carico fiscale elevato, scontano pure un nuovo problema dovuto al fenomeno del labour shortage. Ossia la difficoltà di trovare personale in quantità e qualità adeguato e formato per le esigenze dell’impresa. Un problema oggi relativamente comune anche al resto d’Italia, e non solo.

Siamo inoltre al paradosso per cui, da un lato le imprese cercano figure professionali adeguate alle mansioni richieste, ma per contro, dall’altro, a causa del peso di fisco e burocrazia, propongono sottobanco contratti che, seppur in linea con la contrattazione collettiva nazionale del lavoro italiano, dequalificano le mansioni del singolo lavoratore. Per cui, anche laddove si trovasse un candidato valido per una determinata azienda, e nonostante gli indubbi miglioramenti apportati dal jobs act, esiste la sommersa tendenza ad assumerlo come “principiante”, o di una categoria più bassa di quella posseduta, pur di risparmiare qualcosa in busta paga, orientando poi tale lavoratore sia all’esercizio delle sue effettive competenze, che di altre mansioni che esulano da tali competenze. Anche questo fenomeno contribuisce a generare un mercato del lavoro low cost, in cui il lavoratore appare sempre e comunque la figura più debole nel rapporto con i propri principali. A sua volta, inoltre, esposto alle periodiche ondate inflattive che erodono ulteriormente il suo potere d’acquisto9.

3.3 Una economia poco produttiva.

L’Istat pone la Sardegna al penultimo posto d’Italia tra le Regioni per tasso di produttività. I Comuni sardi ospitano un tessuto del lavoro mediamente più produttivo della sola Calabria, vedere tabella al seguito:

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(Pag. 3, dati rispetto alla media nazionale italiana, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, a. 2018, Roma, Istat, 30-12-2020).

La Sardegna risulta inoltre essere agli ultimi posti tra le Regioni nella capacità di attirare investimenti da multinazionali estere, a conferma dell’inefficienza generale del sistema Sardegna in ambito economico. Risultati confermati dall’Istat anche nel successivo rapporto del periodo 2020/21.

Figura _ – Investimenti esteri nelle diverse regioni italiane

Fonte: Il grafico mostra la quota di valore aggiunto sul totale per tipologia di unità locale e Regione nel 2018, a valori percentuali, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, Roma, Istat, 30-12-2020, p. 6).

Per comprendere da cosa derivi la bassa produttività del sistema economico sardo occorre soffermare l’attenzione sul capitale umano, come si evidenzia nel punto successivo.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

La scarsa formazione del nostro capitale umano rappresenta la base di tutti i principali problemi attorno a cui si è avvitata la società sarda. E non riguarda solamente cittadini, lavoratori e imprese, ma anche la classe dirigente, e precisamente il ceto politico chiamato a risolvere quegli stessi problemi di cui, tuttavia, è espressione. Basti un dato su tutti, in Italia, limitandoci ad un range di età di persone tra i 25 e i 34 anni, le persone dotate di una laurea sono appena il 29.2%, contro il 40.5% della Polonia, per intenderci, e il 50.4% della Francia.

La situazione peggiora ulteriormente se osserviamo la fascia di età adulta dai 55 ai 54 anni, in cui i laureati italiani scendono al 12,4% (Dati OCSE 2022).

Il problema genera a sua volta un limite di mismatch tra domanda e offerta di lavoro, con la conseguenza che, in un territorio in cui per la maggiore si sono sviluppate imprese a basso valore aggiunto, come la Sardegna, persino i laureati si trovano nella condizione per cui dovranno accettare in loco un lavoro inferiore alla propria formazione (nell’isola si tratta del 25,9% di occupati). O in ogni caso un lavoro per cui non sono sufficientemente formati. In entrambi i casi raccogliendo un salario medio-basso. (Pag. 112, Istat-BES 2022, Roma, 2023)

Per essere più precisi ed avere un’idea dell’entità della situazione, è necessario osservare i dati della Sardegna, che la collocano agli ultimi posti d’Italia (e d’Europa) per formazione dei propri giovani, unitariamente alla bassa performance della nostra istruzione, che non in rari casi tende ad attestare falsamente titoli su competenze che i maturandi in realtà non posseggono. L’indice Istat-BES indica che nel 2022 appena il 54,6% dei sardi di età compresa tra i 25 e i 64 anni possiede una qualifica o un diploma secondario superiore. Per intenderci, contro il 72% della Provincia Autonoma di Trento.

Figura _- Popolazione con educazione superiore

Fonte: Dati OCSE 2022 Occorre mettere il documento e il link

La Sardegna si trova al terzo posto, dietro Sicilia e Campania, per abbandono scolastico precoce, ed al primo posto d’Italia per l’abbandono scolastico maschile (pari al 20,7% di defezioni). I nostri giovani si trovano anche al 5° posto d’Italia tra le Regioni con maggiore incompetenza alfabetica, e al 4° posto d’Italia nella maggiore incompetenza numerica. E ciò ci porta ad una domanda conseguente, ossia, quanti sono i laureati in discipline tecnico-scientifiche (STEM) oggi indispensabili per tenere il passo con la crescita? Appena il 13,5% del totale. Un numero pericolosamente inidoneo a mandare avanti una società. (Pp. 77-86-95, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Eppure, i dati continuano a confermare che lo studio premia la capacità occupazionale. I sardi dotati di titolo di studio hanno un tasso di occupazione maggiore rispetto a chi si trova privo di formazione, con sfumature crescenti dal più basso al più alto gradino tra i due poli. Al 2022, nella fascia tra i 15 e i 64 anni, gli occupati tra chi ha titoli di studio medio-bassi si collocano al 54,6% degli uomini, e al 30,4% delle donne, mentre i diplomati uomini raggiungono il 69,6% e le donne diplomate raggiungono il 51,0%. Infine, i laureati, con gli uomini che raggiungono un tasso di occupazione pari al 79,8%, e le donne del 72,6%. Livelli in ogni caso inferiori alla media italiana, ma ampiamente indicativi del valore intrinseco della formazione.10

Ciò nonostante, in tutta Italia e nell’ultimo decennio, gli iscritti in discipline STEM sono cresciuti appena dell’1%, mentre rimane preoccupante il tasso di gender gap del sesso femminile. Ossia la minor propensione delle donne a scegliere tali branche del sapere, ed in seguito la modesta possibilità di trovare posizioni soddisfacenti nei rami ad hoc del mondo del lavoro.

(Nota Deloitte Italy S.p.a. su competenze STEM, Milano, 2024).

3.5. Quale contesto economico-culturale?

Di fronte ad uno scenario formativo a tinte fosche, come quello illustrato, Sardegna Federale pone al centro della sua azione la priorità dell’istruzione come pilastro essenziale della crescita. E purtuttavia, il contesto merita un ulteriore commento per capire l’eziologia della crisi in atto.

L’idea che studiare, letteralmente, “non serva” a nulla nell’isola rappresenta una vera e propria emergenza nazionale, sedimentata e ripetuta nel tempo per effetto combinato di vari fattori. Oggi sappiamo che un laureato STEM ha ben cinque punti percentuali di successo in più sul mercato del lavoro, con possibilità occupazionali che per l’intera media italiana raggiungono l’85,7%11. Eppure, l’isola sembra non tenere conto dei dati.

Storicamente, la Sardegna non ha mai conosciuto sensibili investimenti statali in istruzione, al punto che persino negli anni del boom economico italiano, il territorio è rimasto luogo di emigrazione verso terzi centri produttivi, come il Nord Italia, la Germania ed altri Paesi sviluppati. Infatti, in tempi in cui non esisteva l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i paesi ricchi erano meno numerosi e l’Italia era la “Cina dell’Occidente”, con forza lavoro low cost, larga parte della ricchezza prodotta nell’isola è derivata dal settore pubblico e dalle rimesse degli emigrati concentrati in tali poli industriali. Denaro confluito spesso irresponsabilmente non verso nuove iniziative imprenditoriali, per cui non vi era formazione né infrastrutturazione adeguata, ma verso un miglioramento del tenore di vita, grazie a maggiori consumi, e verso investimenti nel mattone, con conseguente deprezzamento del valore degli immobili in tempi in cui il territorio si è avviato ad una progressiva fase di spopolamento.

Pertanto, un’economia tecnologicamente arretrata come quella sarda, salvo note eccezioni, non richiedeva personale particolarmente qualificato, né si comprendeva che proprio una qualificazione di maggior livello avrebbe consentito di far sviluppare in loco nuovi investimenti che si portassero al di fuori del classico settore primario (agro-allevamento, peraltro assistito), e dai servizi (oggi prevalentemente rivolti alla stagionalità turistica), con esigue note di merito nell’industria, nelle manifatture e nel terziario avanzato. Studiare veniva e viene dunque erroneamente percepito come “un esercizio superfluo, che non muta sensibilmente le condizioni reddituali” del singolo individuo, e che, in modo abbastanza proverbiale, tale impegno “sottragga braccia all’agricoltura”.

Le nuove generazioni sarde hanno parzialmente ereditato la ricchezza citata, per un verso derivante da rendite di posizione ottenute da trasferimenti pubblici, e per altro verso dal duro lavoro delle generazioni precedenti, che ha migliorato i consumi a vantaggio delle famiglie, le quali si sono adagiate nella stagnazione e nell’immobilismo, con giovani che possono permettersi di stare nella casa dell’infanzia molto più a lungo dei propri genitori, che invece avevano necessità di entrare presto nel mercato del lavoro (non a caso la Sardegna si posiziona nel cluster delle Regioni più problematiche con alta presenza di NEET, cioè individui che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego, pari al 21,4% dei giovani).

In Sardegna sono appena il 4% gli scienziati e ingegneri presenti in rapporto alla popolazione attiva, mentre il settore privato investe per appena il 14% in ricerca e sviluppo, la più bassa quota d’Italia, pari ad appena 289 milioni di euro.12

La politica assistenziale ha ulteriormente aggravato il fenomeno, sacrificando la meritocrazia a vantaggio del clientelismo, contribuendo così a generare un contesto culturale in cui la competenza diventa un mero orpello simbolico di una società in realtà basata sulla cooptazione. E danneggiando infine, per diretta conseguenza, l’efficienza generale dei servizi offerti a cittadini e imprese.13

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Da ciò ne deriva un contesto culturale ed economico cronicamente in ritardo con lo sviluppo, e perennemente esposto al rischio di povertà, con redditi medi inferiori a quelli della maggior parte delle Regioni italiane. La Sardegna ha un reddito lordo pro capite di 16.859 euro annui, contro, per capirci, i 23.862 della Lombardia e i 26.296 della Provincia di Bolzano. (https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-bes-2022-il-benessere-equo-e-sostenibile-in-italia/ Pp. 87-126, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Da considerare poi che ad aggravare ulteriormente il nostro quadro si uniscono terzi fattori capaci di incidere sensibilmente sulla qualità della vita dei sardi, i quali detengono primati poco invidiabili. Tra questi, uno dei maggiori tassi di suicidi di tutta la Repubblica, pari all’8,25%, dietro solamente alla Provincia di Trento (9,75%)14. Ed uno dei maggiori tassi di alcolismo nella popolazione di età compresa tra i 18 ed i 69 anni, pari al 66,2% del biennio 2021-2215.

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

In un territorio in cui la popolazione inattiva cresce rispetto a quella attiva, investire in produttività (per compensare il calo della forza lavoro), ed accrescere l’immigrazione, possibilmente qualificata, con un’oculata politica di controllo dei flussi, sono certamente strumenti utili ad arrestare il declino.

E perché puntare su questi argomenti? Perché grazie agli studi del Nobel per l’economia Robert Solow (1924-2023) e dei suoi successori, tra cui N. Gregory Mankiw, sappiamo che l’innovazione tecnologica è uno dei fattori principali che determinano la crescita di ricchezza di una nazione. L’innovazione porta ad un aumento della produttività, produttività che a sua volta genera un incremento dei salari.16

Al problema salariale e in generale alla rigidità del nostro mercato del lavoro occorrerebbe inoltre rispondere con una decentralizzazione della contrattazione collettiva, rimuovendo così l’aberrazione per cui in Italia, da nord a sud, territori con diverso livello di produttività e diverso costo della vita, debbano tenere un identico livello di remunerazione per i lavoratori. Una differenziazione contrattuale, inoltre, con la crescita della produttività, agevolerebbe anche la crescita dei salari.17

Si tratta di processi che oggi larga parte dei sardi, a partire da politici e “intellettuali”, sfortunatamente ignorano, puntando blandamente su settori che non garantiscono affatto una riscossa dell’isola.

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

Tra i vari fattori che penalizzano il mercato del lavoro locale, ma anche i bassi investimenti delle nostre imprese e soprattutto gli investimenti stranieri nel territorio, pesa indubbiamente il cuneo fiscale. Una responsabilità primaria dello Stato su cui purtroppo ad oggi la Regione non ha un’autentica voce in capitolo. Un peso, peraltro, non giustificato dall’esistenza di efficienti servizi pubblici statali, come invece accade in altri Paesi dell’area OCSE.

A tal proposito, il rapporto OECD Taxing Wages 2024 evidenzia che il cuneo fiscale italiano, per un lavoratore single, senza figli e percettore di retribuzione media, è salito nel 2023 al 45,1%. Al quinto posto tra i paesi dell’area; di 10,3 punti percentuali sopra alla media OCSE, calcolata nel 34,8% del costo del lavoro.

Osservando i singoli elementi che compongono il cuneo, si registra che l’Italia si colloca al 4° posto tra i paesi OCSE per i contributi sociali a carico del datore di lavoro; al 12° per le imposte sui redditi del lavoratore ed al 31°, in via temporanea, per i contributi sociali a carico del lavoratore.18

La situazione non migliora neppure quando spetta a Stato ed enti locali pagare i fornitori privati di beni e servizi, mettendo in difficoltà soprattutto le PMI, che non vedono ripagato in tempi brevi il frutto del proprio lavoro. La burocrazia del mezzogiorno appare più lenta nel soddisfare tali pagamenti, con l’intera Pubblica Amministrazione che al 2023 ha cumulato un debito commerciale di circa 50 miliardi di euro. Tra i ritardatari, ben 9 ministeri su 15. Sul podio, la maglia nera spetta a quello del Turismo, con un ritardo di 39,72 giorni, seguito dall’Interno, con 33,52 giorni di ritardo, e Università, con 32,89 giorni di ritardo.19

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

Due domande fondamentali a cui è necessario trovare risposta sono le seguenti:

  1. Quanto spendono le istituzioni nell’isola?
  2. Qual è il volume di spesa pubblica?

La Ragioneria Generale dello Stato, dipartimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si occupa di elaborare periodicamente una stima regionalizzata di tale impegno finanziario.20

Per la Sardegna, lo Stato ha impiegato nel 2022, al netto degli interessi sul debito pubblico, 11 miliardi e 360 milioni di euro. Pari a 7.177 euro per abitante, con un rapporto del 32,88% sul PIL. Quest’ultimo, il valore più alto d’Italia, smentisce anche la tesi di quanti giudicano insufficienti i trasferimenti economici per l’isola. Senza neppure considerare che, in termini di consumi, gli stipendi erogati dalla pubblica amministrazione in loco hanno un peso maggiore rispetto alle Regioni del centro-nord, gravate da un costo della vita più alto. Bisogna infatti considerare anche la spesa, capitolo a parte, destinata ad Enti e Fondi pubblici, ed una quota di spesa non regionalizzabile (che al dato lordo per le Regioni si attesta ad un totale di oltre 488 miliardi di euro, pari ad un ulteriore 15,93% sul PIL), più la spesa delle autonomie locali.

Ad offrirci un quadro complessivo della drammatica situazione dell’isola c’è lo studio dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani, per cui, nella media degli anni 2014-2016, ed includendo la spesa pensionistica, il peso della spesa complessiva sul PIL regionale raggiunge il 68%, a fronte del 45% di entrate. Al secondo posto in Italia dopo la Calabria per negatività della performance.21 Il che conferma un’isola in cui la maggior parte dell’economia reale dei cittadini viene intermediata a vario titolo dal settore pubblico e che brucia più risorse della capacità di creare e riprodurre ricchezza da parte dei sardi.

Oltre a ciò, bisogna aggiungere che parte della spesa pubblica destinata all’isola, derivante da trasferimenti esterni, non viene neppure programmata e spesa integralmente. Osserva in proposito il Crenos: «I risultati mostrano come la buona riuscita degli investimenti pubblici dipenda dalla qualità istituzionale degli enti locali, confermando le recenti denunce di sindaci e amministratori locali del Mezzogiorno. In diversi sostengono, infatti, che il loro personale sia numericamente insufficiente e non abbastanza specializzato per poter gestire adeguatamente le risorse pubbliche in arrivo. Lo studio ha confermato la scarsa efficienza delle istituzioni locali del Mezzogiorno: la loro bassa qualità rischia dunque di mettere a repentaglio la realizzazione di numerose politiche di sviluppo fondamentali per la crescita e la resilienza delle regioni economicamente più fragili.

L’analisi dei dati sugli investimenti pubblici ha mostrato una forte dipendenza delle regioni del Mezzogiorno, e in particolar modo della Sardegna, dalle amministrazioni pubbliche per la realizzazione di investimenti. I soggetti centrali assumono un ruolo fondamentale nella realizzazione degli investimenti nel Mezzogiorno suggerendo una scarsa capacità di investimento degli enti locali. La scarsa qualità istituzionale delle regioni del Mezzogiorno rischia di compromettere la realizzazione di importanti politiche pubbliche future22

Ancora in itinere, inoltre, lo sviluppo della connessione internet nelle varie aree dell’isola, nell’era della rivoluzione IA, con le conseguenti ricadute economiche di mancata convergenza economica verso le Regioni più sviluppate. Osserva il Crenos: «Analizzando i dati forniti dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, emerge non solo un’Italia a due velocità, ma anche una Sardegna che fatica a non lasciare indietro le aree interne e meno popolate, già economicamente svantaggiate e da tempo in forte declino demografico. L’ultimo dato rilasciato dall’AGCOM (2023) indica che la percentuale di famiglie sarde raggiunte dalla connessione FTTH (fibra) è del 39,2%. La copertura è distribuita in modo molto disomogeneo, concentrandosi principalmente, se non esclusivamente, nell’area del Cagliaritano, dove raggiunge il 77%. In netto contrasto, nelle province del Sud Sardegna, Nuoro e Oristano, la percentuale di copertura scende drasticamente, variando tra il 17% e il 19%. Per quanto riguarda la provincia di Sassari, il tasso di copertura è leggermente migliore e pari al 37%. Ad ulteriore conferma della disparità territoriale, Sud Sardegna, Oristano e Nuoro sono le ultime tre province italiane per copertura di FTTH, mentre Cagliari si trova nella top 10. La Sardegna risulta quindi la penultima regione italiana per tasso di copertura FTTH, seconda solamente alla Calabria (36%), con una copertura nettamente inferiore sia alla media nazionale (59,1%) che a quella del Mezzogiorno (58%)».23

3.9. Un popolo in pensione.

Sul versante della spesa pubblica, le pensioni rappresentano indubbiamente uno dei nostri maggiori talloni di Achille, non solo perché la loro totalità non riguarda residenti che percepiscono pensioni maturate da regolari versamenti contributivi, ma anche da pensioni retributive, sociali e assistenziali a vario titolo.

Al 2022 la Sardegna registra ben 649.000 pensioni, rispetto a 566.000 occupati (ossia persone che versano dei contributi al sistema previdenziale). Un saldo negativo di 83mila soggetti, che giustifica anche in parte il nostro residuo fiscale negativo in termini di trasferimenti pubblici a favore del territorio.24

Secondo i dati offerti dall’INPS, nel totale delle nostre pensioni, ben 112.853 riguardano pensioni di dipendenti pubblici25. E si tratta di uno dei fattori che evidenzia le maggiori capacità di consumo dei cittadini sardi rispetto a Regioni maggiormente produttive della nostra, benché il processo di invecchiamento demografico rappresenti un trend comune all’intera Italia e a tutto l’Occidente.

Il dato strutturale, al di là di ogni contingenza e congiuntura economica periodica, evidenzia l’insostenibilità corrente del nostro welfare.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

All’insostenibilità del nostro welfare concorre peraltro il drammatico fenomeno dello spopolamento e della denatalità, problemi comuni ai paesi più sviluppati, ma particolarmente incisivi nelle aree che presentano problemi economici strutturali come la nostra.

La Sardegna è la regione con la fecondità più bassa. Stabilmente collocata sotto il livello di un figlio per donna, nel 2023 si posiziona a 0,91 figli (in calo rispetto allo 0,95 del 2022). In parallelo, la performance della popolazione residente registra ancora dati negativi, perché le regioni in cui se ne è persa di più sono la Basilicata (-7,4 per mille) e la Sardegna (-5,3 per mille). Al 2023 inoltre la nostra isola si colloca sempre sotto la media della speranza di vita tra le regioni: -7° posto per i maschi, e -2° posto per le femmine.26

Ciò nonostante, malgrado il destino incerto e di declino a cui la realtà sarda pare proiettata, esistono al mondo contesti in cui il tasso di popolazione residente non desta particolari preoccupazioni per la tenuta della stabilità economica. Si pensi al caso di Singapore, Stato insulare divenuto indipendente e completamente privo di risorse, ed oggi balzato in testa a tutti i maggiori indici di sviluppo internazionali.

Tra i maggiori centri finanziari del globo, la fortissima economia della città Stato ha conquistato una popolazione composta per il 43% da persone di origine straniera, capace di attirare un’alta densità di investitori e milionari, ma anche una variegata composizione etnica di lavoratori e basso valore aggiunto, per lo più impiegati nel settore dei servizi.27 Quest’ultima fascia sociale costituisce attualmente il maggior tallone d’Achille del contesto singaporiano, e attualmente oggetto di dibattiti da parte delle forze politiche locali.28

In questa sede l’esempio serve a evidenziare quanto una maggiore sovranità ed una maggiore libertà economica, abbinata ad una sapiente politica immigratoria (civic liberal nationalism), consentano di rendere appetibile un territorio ben oltre le singole capacità della popolazione originaria. In altri termini, qualora la Sardegna lavorasse per accrescere la propria formazione, le proprie competenze, e conquistasse maggiori poteri nell’ambito delle leve fiscali e burocratiche, potrebbe limitare i danni oggi derivanti da un tessuto sociale locale alle corde e scarsamente orientato ad immaginare un futuro di benessere in Sardegna.

3.11. Una fotografia del presente.

Nell’isola esiste ancora uno spettro ben tangibile, la povertà. In base ai dati dell’Indagine sulle spese delle famiglie dell’Istat, nel 2021 – ultimo dato disponibile – la quota di famiglie sarde in povertà assoluta è stata stimata nel 7,8%, poco superiore alla media nazionale (7,5 per cento). A dicembre 2022 gli individui appartenenti ai nuclei beneficiari di Reddito di Cittadinanza in Sardegna erano circa 75.000, in parte successivamente convertiti in assegni di inclusione.29 Mentre la ricchezza pro capite dei sardi si è attestata a circa 143.000 euro, inferiore ai 176.000 euro della media italiana. (pag. 32)

A mandare avanti un siffatto contesto tra luci ed ombre ci pensa oggi anche la spesa degli enti territoriali, che vale la pena osservare.

Sul piano istituzionale, nel 2022 la spesa primaria totale degli enti territoriali (al netto delle partite finanziarie) è stata pari a 7,7 miliardi di euro. In termini pro capite è ammontata a 4.930 euro, inferiore alla media delle RSS ma superiore alla media nazionale; poco meno del 90% delle erogazioni è rappresentato dalla spesa corrente al netto degli interessi (spesa corrente primaria). (Pag. 47).

Per capire come sono state utilizzate queste risorse è utile fare riferimento alla Tabella che segue

Tabella _ – Spesa degli enti territoriali nel 2022 per natura

Nel 2022 i costi della sanità hanno continuato ad aumentare, seppur in misura più contenuta rispetto all’anno precedente (tav. a6.15). L’incremento è dipeso soprattutto dalla spesa in convenzione (2,6 per cento rispetto al 2021), mentre si sono ridotte le spese relative al personale (dell’1,2 per cento), per effetto del calo di organico nel comparto medico e infermieristico. Parallelamente, la spesa per l’acquisto di collaborazioni e consulenze sanitarie esterne, rafforzatesi significativamente nel 2020 in risposta all’emergenza sanitaria, ha continuato a mantenersi elevata: nel biennio 2021-22 la sua incidenza, rapportata al totale del costo del personale, ha raggiunto il 6,5 per cento, crescendo di 2,6 punti percentuali rispetto agli anni 2012-13.

A fine 2021 la dotazione di infermieri e di personale medico risultava in regione inferiore non solo ai valori antecedenti la pandemia, ma anche a quelli del 2011, nonostante l’ampio ricorso alle forme contrattuali diverse da quella a tempo indeterminato. Nello stesso periodo sono cresciute invece le consistenze dell’altro personale sanitario e del ruolo professionale, anche qui per la crescita delle forme contrattuali a termine. (Pag. 56).

Tabella _ – Costi del servizio sanitario

Gli incassi correnti della Regione sono stati pari a 5.064 euro pro capite, nella media del triennio 2019-21 le entrate correnti erano riconducibili per il 6,0% all’addizionale all’Irpef, per il 2,3 all’IRAP e per l’1,0 alla tassa automobilistica. (Pag. 57). In Sardegna nel 2021, ultimo anno di disponibilità dei dati, le entrate pro capite accertate, ossia quelle che gli enti si aspettano di incassare nell’anno, sono state inferiori alla media nazionale per tutti i tributi considerati. La differenza tra il gettito pro capite regionale e quello italiano ha risentito sia delle più contenute basi imponibili, in ragione delle peggiori condizioni socio-economiche del territorio, sia della minore aliquota effettiva applicata ai diversi tributi. (Pag. 59).

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

Una delle conseguenze principali dei ritardi della Sardegna è che la politica cerca di affrontarli secondo l’armamentario classico del populismo. Ossia attraverso la tendenza a scaricare ogni responsabilità su cause esterne (che in parte ci sono), evitando di confrontarsi con le proprie, pur di preservare il potere ed i privilegi da esso derivanti, ed alimentando tattiche dilatorie per rimandare a data da destinarsi ogni necessaria riforma. Per cui, l’abuso verbale e mai sostanziale del principio di sussidiarietà, di perequazione e di solidarietà tra Regioni, sancito dalla Costituzione, diventa la foglia di fico con cui giustificare l’immobilismo nel dibattito sulle aberrazioni della nostra finanza pubblica, anestetizzando nel contempo i pochi passi riformistici concessi dalla stessa Costituzione: si pensi, per esempio, ai frequenti tentativi, anche da parte di intellettuali e accademici organici al potere politico, di attribuire colpe alle Regioni settentrionali, accusandole di “avidità”, ignorando i deficit del nostro capitale umano, solleticandone i bassi istinti e facendo ricorso ad una retorica che tende a promuovere solo diritti in luogo dei doveri.

E così, ignorando i generosi trasferimenti delle Regioni settentrionali, tanti sardi finiscono spesso per accusarle di “scarsa solidarietà”, o di subdoli tentativi di minare le radici dell’impianto costituzionale a nostro sfavore. Né si tiene conto del fatto che tali Regioni oggi pagano un progressivo deficit di competitività sui mercati internazionali, zavorrate da un pesante obbligo di solidarietà verso territori della Repubblica che poco o nulla fanno per migliorare l’efficienza delle proprie istituzioni e della propria economia. Il nord frena verso il basso, con un tasso di crescita reale del PIL italiano passato dal 6,7% della seconda metà degli anni ’90, all’1,4% nel primo decennio del nuovo secolo, allo 0,6% degli ultimi 10 anni.30

Politiche nettamente diverse vengono invece attuate in Stati e isole, anche e soprattutto minori, muniti/e di sovranità. E non solo perché tra le prime dieci economie del mondo vi sono anche paesi piccoli, come ci hanno insegnato studiosi del calibro di Leopold Kohr e Alberto Alesina, ma anche perché diversi recenti studi e ampie evidenze empiriche suggeriscono che territori minori amministrati da istituzioni dimensionalmente contenute presentano una serie di vantaggi. Il sociologo maltese Godfrey Baldacchino ha riassunto il contesto mediante un’efficace sintesi della loro natura: benché contrassegnati da rilevanti elementi di criticità e vulnerabilità, si mostrano ampiamente resilienti, perseveranti, abilmente opportunisti e dinamici, in grado di offrire ottime possibilità di investimento finanziarie, in ordine sia alla capacità di attirare capitali, che di sfoltire la burocrazia ai fini del radicamento e dello sviluppo delle imprese.31

Oltre a ciò, la politica e, in generale, lo Stato, non si pongono il problema dei “residui fiscali”, negativi per il centro-sud, tra cui la Sardegna, che per tenersi in piedi, infatti, spende più ricchezza di quella prodotta. E dunque i vertici amministrativi non si occupano di analizzare le causali del fallimento delle politiche redistributive a vantaggio di una parte del Paese, derubricando il problema del cronico assistenzialismo come un mero problema di deficit di capacità fiscale dei singoli contribuenti, a prescindere dalla diversa capacità fiscale del territorio in cui sono ubicati.32

Bisogna inoltre considerare, che a fronte di un residuo fiscale negativo, pari a 3.681 euro pro capite dei sardi, pari a 5.773.004.325 miliardi di euro, occorre valutare il dato sulla base di una potenziale e differente ripartizione delle entrate, ed una potenziale differente ripartizione delle spese.

Questo significa che una diversa strutturazione del fisco sardo ed una diversa composizione della spesa pubblica, potrebbero determinare un residuo fiscale pro capite nettamente inferiore al presente. Un esempio? Si potrebbe lavorare alla rimozione delle spese per corpi, enti e agenzie istituzionali le cui funzioni rappresentano autentici doppioni, razionalizzandone la spesa in un’unica struttura.33

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

Anche la retorica dell’insularità, che in realtà cela la solita povertà culturale dell’assistenzialismo, rientra nella dinamica vittimistica poc’anzi illustrata. L’idea che basti avere nella Costituzione la parola “insularità”, oltre alla manifesta ingenuità, nasconde la volontà di reclamare più trasferimenti pubblici dallo Stato centrale, ignorando uno storico precedente giuridico.

Un aspetto singolare, infatti, del cosiddetto “comitato scientifico” sardo che ha promosso il progetto di insularità in Costituzione non ha tenuto conto del fatto che tale strumento è già esistito. La Costituzione italiana infatti ha riconosciuto il principio di insularità sino alla riforma del Titolo V° avvenuta nel triennio 1999-2001. Così recitava il terzo comma dell’articolo 119:

«Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il mezzogiorno e le isole, lo Stato assegna per legge a singole regioni contributi speciali».

Il testo è stato riformato nei seguenti termini:

«La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insu-larità».34

Nonostante la mole di contenziosi Stato-Regioni affrontato negli anni dalla Corte Costituzionale a causa della complessiva riforma del Titolo V°, il novellato art. 119 non rappresenta un evidente miglioramento rispetto alla vecchia versione, per due ragioni principali:

  • la prima è che, pur non risolvendo il problema dei divari economici del Paese, permane il principio secondo cui esisterebbero precise aree atavicamente considerabili come arretrate in luogo di altre, al punto da meritare una costante elargizione di sussidi;
  • la seconda è che, quantomeno, in ragione del primo motivo, si è scelto di istruire il principio di coesione sociale e territoriale estendendolo indistintamente a tutte le Regioni (e non solo) suscettibili di manifestare periodi di difficoltà. Questo concetto ammorbidisce, ma non rimuove, l’ottica assistenziale presente nel vecchio articolo, introducendo un approccio più attuale al lavoro di perequazione svolto dallo Stato centrale.

La Costituzione italiana emersa nel 1948 non chiariva tali aspetti, pur garantendo analoga tutela giuridica dei territori insulari, e pur essendo meno chiara della Costituzione spagnola, che include il concetto di insularità nella carta.

Pertanto, alla luce di tali argomenti, è lecito domandarsi: c’è stata una tutela maggiore dell’isola da parte dello Stato sino al 2001?

La complessa e articolata vicenda relativa, ad esempio alla vertenza entrate, financo ai programmi di continuità territoriale, dimostrano che prima del 2001 non vi è stata alcuna differenza di trattamento rispetto al presente. E d’altra parte, solo una certa dose di demagogia e superficialità politica potrebbe pensare che inserire una semplice parola – “isola” – in una carta costituzionale, possa automaticamente cambiare le sorti di quest’ultima. Le cui condizioni di sviluppo dipendono da una vasta serie di variabili, non tutte imputabili al dettato costituzionale, che sono di natura storica, geografica, culturale ed economica. Se così non fosse, tutte le aree insulari del globo si troverebbero, ipso facto, in condizioni economiche disagiate e assistite da terzi centri amministrativi maggiori. Si pensi a Taiwan, o in particolare al Regno Unito, dalle cui isole scaturì un impero di dimensioni globali, senza il minimo supporto degli Stati continentali.

Sul piano scientifico, inoltre, il paper di Marlene Jugl, Finding the golden mean. Country size and the performance of national bureaucracies35, ci suggerisce che la quantità dell’intervento pubblico non è necessariamente connessa alla qualità dei servizi erogati ad una data popolazione. Ma nonostante tali evidenze scientifiche, esistono persino giuristi e costituzionalisti italiani che si affannano a sostenere il contrario, ideologicamente allineati al mito dell’unità istituzionale, senza una ponderata valutazione della sua bassa efficienza.36

Pertanto, quantificare i deficit economici dell’insularità, come paravento per ignorare diritti vigenti e articolati processi riformistici, diventa un mero esercizio statistico che porta automaticamente alla fallace idea – peraltro diffusa nella politica italiana – secondo cui un territorio disagiato avrebbe solamente bisogno di più attenzioni e di più spesa pubblica da parte dello Stato centrale. In quest’ottica, come noto, non solo la Sardegna ma l’intero mezzogiorno italiano avrebbe già sperimentato da anni degli interessanti tassi di crescita, che invece non si sono verificati.37

Alla Sardegna non servono più sussidi ma più responsabilità. Ossia maggiore autogoverno, da cui derivano sia diritti che doveri. Ad esempio, il diritto ad un fisco a misura di imprese, e il dovere di non reclamare soldi allo Stato o ad altre Regioni se si sperperano i propri. Che ciò avvenga tramite una difficile riforma federale dello Stato, o tramite una difficile indipendenza della Sardegna, non cambia la sostanza dei problemi, ma sicuramente incide nella retorica nazionalista di chi vuole conservare istituzioni obsolete e inefficienti.38

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

Sardegna Federale immagina un graduale impegno riformistico, che, legislatura dopo legislatura, porti la politica a revisionare tanto la cultura, quanto le istituzioni espresse dalla nostra società.

Il modello di riferimento, sulla scorta delle storiche intuizioni di filosofi come Giovanni Battista Tuveri, od economisti come Giuseppe Todde, è quello rappresentato dalla Confederazione Elvetica. Ma ben sappiamo tuttavia quanto la Svizzera sia lontana, culturalmente parlando, dalla tradizione politica italiana, basata quest’ultima su un centralismo amministrativo di derivazione franco-sabauda. A sua volta basato sul culto di un nazionalismo ottocentesco, tipico degli Stati-nazione sorti all’epoca. E bisogna pertanto distinguere, nel nostro contesto, l’ideale dal concreto, e il concreto dal possibile.

L’ideale guarda ad un’Europa, un’Italia ed una Sardegna che si avvicinino quanto più, a seconda delle rispettive differenze, ad istituzioni federali, in cui il potere sia attribuito al livello più vicino alla popolazione. Va da sé che, per materie di interesse generale e ampio (come per esempio moneta, difesa, trattati internazionali), è più efficiente ed efficace, hic et nunc, che le competenze siano attribuite al livello europeo, sottraendolo ai singoli stati nazionali come oggi li conosciamo. Questa dinamica innescherebbe comportamenti virtuosi sia nell’amministrazione della spesa pubblica che degli investimenti in ricerca. L’uso del condizionale è d’obbligo perché non esistono ricette magiche in grado di portare automatici sviluppi socio-economici per tutti. Esiste però sicuramente lo strumento, il federalismo appunto, che può consentire la capacità di rimuovere centri di governo e di potere lontani dai cittadini e dalle loro esigenze, affrontando un’ampia gamma di criticità in vari ambiti. Come suggerisce il sociologo Gianfranco Bottazzi, il mutamento non è altro che un processo sistemico, in cui pertanto la modernizzazione comporta cambiamenti in tutte le dimensioni del sistema sociale.39

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

Un’Italia formata da Regioni con poteri simili ai Cantoni elvetici sarebbe auspicabile, in cui lo Stato limita la propria presenza nella sfera pubblica a poche materie, in concerto con i partner internazionali, tra cui, per esempio, la Difesa. A sua volta, la Sardegna potrebbe sviluppare una struttura confederale, in cui ogni subregione storica, dalla Barbagia alla Gallura, possa sviluppare un proprio fisco, competitivo con le proprie vicine, e in grado di attrarre investimenti a seconda delle esigenze del proprio contesto. Per esempio, più basso nelle regioni interne, più equilibrato nelle regioni costiere.

E sarà solo in un simile quadro normativo che i sardi potrebbero sviluppare maggiore capacità deliberativa, decidendo direttamente su materie di pubblica utilità, in modo tale che non danneggino il proprio futuro allargando le maglie del debito pubblico. Un problema invece ben diffuso nel presente, in cui la spesa pubblica, come sosteneva il Nobel per l’economia James M. Buchanan, pare essere di tutti e di nessuno, avvantaggiando unicamente i professionisti della politica che la gestiscono irresponsabilmente. Un po’ per perpetuare il proprio potere, un po’ per assecondare l’irresponsabilità e l’analfabetismo economico-finanziario del proprio elettorato.40

In un mondo sempre più interconnesso, e nel quadro delle istituzioni UE, il potere è e sarà sempre più ripartito in termini verticale in luogo di un esercizio esclusivamente o prevalentemente orizzontale. La sovranità diventerà dunque uno strumento dei popoli sempre più diffuso e diluito nei territori, ma che oggi, ben lungi dall’essere configurata in tali termini, deve essere riformata, seppur per passi graduali. Un processo che potrebbe richiedere anni.

Laddove poi l’Italia non riuscisse a liberarsi dei costumi più desueti, sarebbe diritto dei cittadini sardi battersi per una riforma delle istituzioni italiane in tal senso: o percorrendo un vero e proprio percorso che porti, dapprima ad una maggiore autonomia; e successivamente, tramite un referendum e degli irrinunciabili strumenti democratici, all’indipendenza della Sardegna nel quadro dell’Unione Europea, in accordo coi partner internazionali.41

Oltretutto, non manca un terreno di dibattito attorno ad una ulteriore varietà di questioni irrisolte.

Nondimeno occorre sottolineare che è proprio il principio di sussidiarietà che implica una frantumazione del potere in senso verticale non già sulla base di deleghe provenienti dal potere centrale ma considerando ogni livello di decisione autonomo e indipendente, per quanto coordinato con gli altri.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

Il nodo delle servitù militari, i cui soli poligoni interessano una superficie di oltre 22.000 ettari, la più alta d’Italia tra le Regioni, a fronte di basse ricadute economiche per il territorio in rapporto ai fenomeni dell’inquinamento ad esse riconducibili rappresenta, a tutt’oggi, un vulnus non sopito, nonostante alcuni cambiamenti derivanti dopo il 2008 in termini di salvaguardia ambientale e ripristino dei siti oggetto di esercitazioni.42

Il problema fondamentale riguarda l’estensione di tali servitù, da ridiscutere con lo Stato e con i partner internazionali, riqualificando le infrastrutture che devono comunque garantire l’addestramento del nostro personale preposto alla sicurezza collettiva, secondo i migliori standard NATO, e i test di efficienza dei nostri strumenti/mezzi tecnologici preposti allo scopo. Nondimeno, occorre far sì che tali cambiamenti debbano avere anche delle ricadute di carattere civile e sociale sia in termini tecnologici che di qualificazione e riqualificazione del personale coinvolto

Reputiamo, peraltro, che la Sardegna, non possa in ogni caso rinunciare al suo posizionamento nell’ambito di un’architettura di sicurezza che vede nei valori della libertà e della salvaguardia dei territori, così come sanciti nel Diritto internazionale, i canoni della propria stabilità, anche al fine di prevenire ogni potenziale minaccia proveniente da regimi ostili e/o instabili in materia di politica estera e interscambi commerciali.

4. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

Il malcontento crescente verso le Istituzioni politiche, acclarato da una crescente disaffezione all’esercizio del principale diritto esistente nelle mani dei cittadini (il voto) porta alcune correnti di pensiero a teorizzare l’inutilità delle Istituzioni. Questo pensiero è poi alla radice di pubblicazioni che, nel mostrare tutte le contraddizioni e le debolezze degli ordinamenti che danno origine a queste Istituzioni, non si limitano a far prendere consapevolezza su tutto ciò (cosa buona e giusta) ma alimentano, più o meno volontariamente, fastidio, contestazione e, non raramente, odio, il quale ultimo non aiuta a prendere decisioni razionali.

Orbene, nel tentativo di fornire un contributo al dibattito, si è ritenuto utile dedicare uno spazio per rispondere alla domanda: servono le istituzioni?

Espressa con altre parole, questa domanda cerca di chiarire semplicemente se gli individui per soddisfare le proprie necessità umane possono fare a meno delle Istituzioni oppure se, invece, esse sono indispensabili e allora è un problema di come sono progettate, organizzate e attuate.

4.2 Il contributo della scienza economica

Era il 1937 quando Ronald Coase pubblicò nella rivista Economica un articolo intitolato “The nature of the firm”43. In questo suo lavoro di ricerca nell’interrogarsi sulla natura dell’impresa si domandava in sostanza che cosa ne giustificasse l’esistenza.

La sua conclusione è stata che le imprese esistono perchè svolgono una funzione che altrimenti i singoli individui (tutti noi che siamo il mercato) non potrebbero svolgere da soli. Ronald Coase introdusse questo tema contrapponendo i concetti di gerarchia (oggi possiamo chiamare questo concetto istituzione o organizzazione) e mercato. In sostanza, tutte le volte che qualcuno di noi ha bisogno di qualche cosa (che normalmente costa poco ed è prodotta in grande quantità) si rivolge al mercato. Se invece si tratta di beni e servizi specializzati, che richiedono competenze, ecc. allora preferisce internalizzare queste all’interno di un contesto organizzativo coordinato, quindi di un contesto istituzionale, chiamata impresa.

Estremizzando il discorso, se ciascuno di noi fosse in grado di produrre da sé tutto ciò di cui ha bisogno nella vita, non avrebbe bisogno di altri dai quali recarsi, chiedere, comprare, ecc. Analogamente, ci sono servizi che nessuno comprerebbe o che, per questioni di diversa disponibilità di risorse e opportunità qualcuno non si potrebbe permettere ma che sono indispensabili per avere determinati standard di civiltà (servizi sanitari, di smaltimento dei rifiuti, ecc.)

Orbene, a questo punto chiediamoci:

– siete in grado voi, da soli, di procurarvi l’acqua di cui avete bisogno?

– siete in grado voi di procurarvi, da soli, di ciò che ritenete utile per vestirvi, per viaggiare, per studiare, ecc.?

– siete in grado voi di allestire un sistema di smaltimento dei vostri rifiuti?

– come pensereste di viaggiare senza auto, moto, navi, aerei, ecc.?

– e se viaggiaste dove andreste a dormire, mangiare, ecc. se non ci fossero imprese che offrono questi beni e servizi?

– e chi vi dovrebbe curare se state male?

– in che modo compensereste chi vi cura se non avete beni e servizi da scambiare?

– e se siete malati e poveri e incapaci di lavorare come potreste sopravvivere se non c’è qualcuno che istituzionalmente si prende cura di voi?

Potremmo continuare all’infinito e se voi foste in grado di rispondere sì a queste domande, allora non ci sarebbe alcun motivo per creare istituzioni che costano. In questo senso, per esempio, non avremmo bisogno di istituzioni comunali, regionali, statali, internazionali. Ovviamente, vale il principio di efficienza in base al quale tutto ciò che posso fare da solo devo farlo da solo e ricercare forme di cooperazione, collaborazione e coordinamento con altre entità nel momento in cui riconosco che io da solo non posso fare una serie di cose o, in altre parole, servono risorse, capacità e competenze che io da solo non possiedo.

Si potrebbe pensare che tutto ciò serva a livello di piccole comunità mentre non ci sarebbe necessità di disporre di istituzioni internazionali come l’ONU o l’Unione europea, ma pure il World Trade Organization o il Fondo Monetario Internazionale o l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’idea di un mondo che torna alle sue origini, fatto solo di boschi, praterie, animali, ecc., dove ognuno vive nel suo piccolo spazio e si alimenta di cibo locale e degli animali del luogo è alquanto affascinante e bucolica ma, forse, non troverebbe i consensi necessari nel mondo. Né si può pensare che tutto ciò possa funzionare senza aver condiviso alcune regole base comuni. Ecco, quindi che gli uomini, nel corso della storia, hanno concepito istituzioni nel tentativo di creare condizioni per lo sviluppo di relazioni stabili, eque e positive per la vita di ciascuno. Mi si dirà che non hanno funzionato bene, che non funzionano bene, che sono state utilizzate da alcuni per finalità diverse da quelle per cui sono nate. Benissimo, si intervenga su questi aspetti ma non si proponga la distruzione delle stesse ritenendole aprioristicamente inutili o dannose.

Quindi, se le Istituzioni hanno una loro ragione di esistere, il problema non è distruggerle perché funzionano male, ma cambiarle e renderle efficienti. In altre parole, guardiamo con favore ad una “distruzione creativa”, pur opponendoci ad una distruzione tout court, che col federalismo non ha nulla a che fare.

In altre parole, se la distruzione di ciò che c’è, seppure con la giusta e corretta osservazione che quello che c’è, è limitante di molte libertà, non funziona bene, è soggetto a corruttela di varia natura in cui l’interesse particolare prevale su quello generale, ecc., si impone la necessità di un cambiamento.

Questo è un punto dirimente per chiunque voglia costruire una proposta politica alternativa all’esistente. Vogliamo cambiare la Costituzione italiana, vogliamo cambiare i Trattati dell’Unione europea, vogliamo cambiare lo Statuto di autonomia della Regione Sardegna, vogliamo contribuire a creare una società più giusta, equa, responsabile, dove ciascun individuo abbia la possibilità di affermarsi come tale e di collaborare con altri per comuni obiettivi e interessi.

Viceversa, Sardegna Federale ritiene che gli intenti di chi vorrebbe distruggere l’Unione europea, lo Stato italiano, e qualsiasi istituzione non corrispondono a un approccio razionale, soprattutto se, come è facile osservare, mancano di proposte alternative credibili e attuabili. Le istituzioni si mettono in discussione e si cambiano per migliorarle, non già per distruggerle tanto per distruggerle. Si tratta di idee (neppure di progetti) che non danno prospettive, che non hanno nulla che possa migliorare le condizioni di vita dei cittadini di questo mondo.

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

Quanto indicato nei punti precedenti è il risultato dell’adozione di un metodo di analisi prima e di proposta poi, quello sistemico. Quest’ultimo, infatti, trae origine dallo studio della realtà fatta di parti in relazione tra loro. Non è un caso che alla base di tale metodo ci sia il concetto di “sistema”, cioè un insieme di parti interagenti tra loro, tale che ogni parte condiziona l’altra ed è da essa a sua volta condizionata. Un sistema, pertanto, è un fenomeno emergente dall’interazione tra le parti. Dal che si evince che, non tutti gli insiemi di parti sono sistemi.

Se queste parti di un insieme godono di un certo grado di libertà, come nel caso dei sistemi organizzativi e sociali (sistemi aperti) ciascuno dei quali ha una propria specifica identità, non è scontato che ci sia interazione e, se esiste, potrebbe anche assumere connotazioni negative, al punto che invece di generare valore, lo distruggono. Per questi motivi, in ambito organizzativo, sono i valori e gli obiettivi che favoriscono e guidano la costruzione dell’interazione tra le diverse identità interessate e, in base a questi, il sistema delle relazioni formali e informali che si genera per effetto dell’adozione di una appropriata struttura organizzativa che definisca funzioni, compiti e responsabilità.

Partire da questa premessa metodologica implica che alla base di ogni costruzione organizzativa di tipo sistemico ci sia l’individuo, la sua libertà e i suoi diritti inalienabili, il cui unico limite è rappresentato dall’impatto che il suo comportamento può originare in termini di pregiudizio alla libertà di altri individui come lui. A tale proposito, Karl Popper (1902-1994) abbracciava la tesi secondo cui: “ciò che esiste veramente sono gli uomini [..], in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. [..] Ciò che non esiste è la società [..]. Uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggior ideologia44.

Tutte le organizzazioni, comprese quelle politico-istituzionali nascono (o dovrebbero nascere) da una volontà di donne e uomini liberi che decidono di aggregarsi, si organizzano e si danno delle regole per interagire positivamente perseguendo comuni finalità, sapendo che queste relazioni sono dinamiche e, quindi, possono evolvere nel corso del tempo, rinforzarsi o indebolirsi se non adeguatamente gestite.

A questo punto sorge la domanda: cosa succede alle parti (sia individui che aggregati degli stessi) che intraprendono questo percorso di aggregazione? Si annullano e perdono di identità? Si annacquano nel sistema? Oppure continuano a esistere conservando ciascuna una propria identità, un proprio grado di libertà e un proprio ambito di competenza decisionale esclusiva?

La risposta, in questo caso è: dipende. Infatti, se avvenisse la scomparsa di una o più parti o il loro depotenziamento fino all’emarginazione significherebbe che una parte ha prevalso sull’altra e questa prevaricazione potrebbe avere diverse cause. Altrimenti, proprio perché le parti hanno concordato obiettivi comuni, ognuna di esse ha titolo e diritto per essere parte attiva del processo interattivo e, di conseguenza, ha titolo per conservare la propria identità e un proprio grado di libertà, pur all’interno di un processo di progressiva aggregazione.

In altre parole, quanto testé evidenziato mostra come l’emergere del sistema possa derivare, alternativamente, da processi di integrazione per colonizzazione oppure per inclusione: nel primo caso, se l’integrazione deriva dal prevalere di una parte, si va incontro a processi di annullamento o prevaricazione di una identità sull’altra45, mentre nel secondo caso si ha un processo evolutivo basato sul riconoscimento e sul rispetto reciproco delle diversità, considerata ciascuna come una ricchezza. In questo secondo caso è lecito affermare che ogni parte conserva un grado di libertà/indipendenza rispetto alle altre parti e rispetto al sistema, per tutto ciò che rimane nelle prerogative esclusive della parte considerata, a partire dall’individuo.

L’implicazione concettuale è che una parte può essere un sottosistema di un sistema più ampio e, nel contempo, rimanere indipendente nelle decisioni per tutto ciò che è efficiente ed efficace gestire in modo diretto, a patto che le stesse non contravvengano a principi e interessi più generali coinvolgenti anche altre parti. Nell’applicazione di questo principio si configura la pari dignità di ogni livello decisionale, senza una gerarchia precostituita.

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

Per entrare nel concreto, se prendiamo le Regioni italiane attuali come parti costitutive della Repubblica, in quanto espressive di popoli e territori – cosa che dovrebbe essere naturale e scontata se si conoscesse la storia iniziata con il passaggio del Regno di Sardegna ai principi del Piemonte46 – occorre capire quali sono i valori e i princìpi che si pongono alla base dello stare insieme di queste parti e, nel contempo, capire quali sono invece le specificità positive che differenziano tali parti e che vanno tutelate con il riconoscimento di adeguati poteri e risorse, e quelle negative da rimuovere, che negano alla base i valori e i princìpi che questi popoli vogliono darsi per stare insieme in modo civile e conveniente per tutti.

Applicando questo metodo si arriva facilmente a individuare alcune aree di modifica della Carta costituzionale in modo che, per esempio, si valorizzino le differenze positive:

  • Riconoscendo che i popoli che abitano i territori dello Stato hanno storie, culture e lingue meritevoli di tutela e che, per queste aree e per questi popoli, occorrerebbe inserire adeguati poteri per la tutela e la valorizzazione di tali differenze, la cui esistenza e perpetuazione non solo non contrastano con lo status di cittadino italiano ed europeo ma, addirittura, rafforzerebbero il senso di appartenenza allo Stato, proprio perché rispetto al passato, ne sentirebbero una maggiore appartenenza divenendone i primi difensori, come del resto è avvenuto nel caso della costruzione della Confederazione elvetica47;
  • Riconoscendo che le differenze di sviluppo sociale ed economico affondano le radici nel fallimento delle politiche di sviluppo attuate fin dall’inizio della Repubblica, il cui principale limite è stato rappresentato dall’essere calate dall’alto, senza alcun legame con le realtà dei luoghi48. Eppure, oggi si sa bene, come previsto dai regolamenti europei che disciplinano l’uso delle risorse dei fondi strutturali e delle altre politiche comunitarie, che alla base di qualsiasi progetto di programmazione occorre una stretta interazione e collaborazione tra Territori, Stato e Commissione europea sulla base del principio di responsabilità diffusa, in grado di prevedere non solo poteri ma anche risorse proprie così che la fiscalità posta in essere in questi territori possa essere controllata dagli stessi cittadini, sapendo bene che non ci sarà lo Stato a intervenire qualora tali risorse non vengano utilizzate in modo efficace ed efficiente.

È a partire da queste considerazioni che abbiamo maturato le seguenti proposizioni:

  1. non si può revisionare efficacemente lo Statuto sardo se non si interviene sulla Costituzione italiana;
  2. modificare la Costituzione italiana è interesse di tutti i popoli che abitano questo Stato e che sono insoddisfatti del suo funzionamento;
  3. i Sardi hanno interesse a dialogare con gli altri popoli che abitano l’Italia per fare massa critica rispetto alla necessità di modificare la Costituzione;
  4. qualsiasi progetto di revisione statutaria o costituzionale si fa per “costruire qualcosa” e non “contro qualcuno”;
  5. le uniche proposte di revisione dello Statuto e della Costituzione devono fondarsi sulla scienza sistemica e non sulle ideologie, una proposta che sia in grado di conciliare l’indipendenza delle parti con il coordinamento delle stesse per il raggiungimento di comuni obiettivi.

5. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

La teoria del federalismo si fonda sulla volontà di due o più entità (di norma nazionali) di sottoscrivere un patto (foedus) volto ad affrontare e risolvere insieme problematiche di comune interesse. In questo senso, “federalismo significa potere che si esprime dal basso, potere che ha origine primariamente nell’Ente che si federa, e che trova un proprio equilibrio con il potere del governo centrale, attraverso nuovi organi costituzionali e leggi correttive, proprie di tutti i veri Stati federali49.

È facile rilevare in questo concetto una sostanziale analogia con il linguaggio proprio della teoria dei sistemi: due o più unità parziali sottoscrivono un accordo per raggiungere comuni finalità. In sostanza, una federazione è un sistema, qualcosa che non esiste di per sé ma un fenomeno che emerge dalla volontà delle parti, una volontà che va esercitata e praticata con sistematicità e continuità.

Alla base di tale accordo o processo di aggregazione c’è il principio di sussidiarietà50 che stabilisce una cosa elementare: le decisioni vanno prese al livello politico-istituzionale più vicino al cittadino e devono essere delegate a un livello superiore solo per ragioni di efficienza ed efficacia della decisione, oppure quando la tematica su cui si discute coinvolge comunità più ampie. Se si parte dal presupposto che ogni aggregazione parte dall’individuo è evidente che è questo il primo titolare del potere che lo delega a livelli organizzativi e politico-istituzionali superiori proprio in virtù di quanto indicato in precedenza. Federalismo significa “potere decisionale ai cittadini” circostanza che nulla ha a che vedere con il decentramento amministrativo o con la “devolution”51. Di converso, occorre anche precisare che la delega di potere a un livello superiore non significa che viene meno il diritto-dovere di monitorare l’esercizio di quel potere, così come non significa che il delegato si ritenga titolare originario dello stesso.

A livello organizzativo istituzionale, pertanto, il potere originario risiede nelle comunità sulla base dell’idea che finché è utile, conveniente e non impatta su altri interessi esterni alla comunità, ognuna deve essere in grado di provvedere a sé stessa fintanto che è possibile, mentre partecipa solidaristicamente con altre comunità per questioni comuni e di interesse più ampio.52

Orbene, la piena e consapevole adozione del principio di sussidiarietà, permette di individuare tanti livelli di decisione politico-istituzionali quanti sono gli ambiti di condivisione dei problemi: estremizzando, dal condominio al quartiere (o villaggio), dalla città alla provincia, dalla regione alla nazione, dallo stato all’insieme di stati (o di nazioni se c’è coincidenza tra gli stessi), fino ai continenti e al mondo.

Ciò non dovrebbe sorprendere: come si può pensare che a decidere sul cambiamento del sistema di climatizzazione di un condominio possa essere il Comune?

Analogamente, come si può pensare di affrontare il tema dei cambiamenti climatici senza un coinvolgimento di tutti gli stati del mondo?

In sostanza, ogni livello istituzionale ha legittima sovranità nel proprio campo di competenza, che rappresenta esattamente un ambito di indipendenza. Va da sé che il dialogo e la negoziazione sono gli strumenti per addivenire a forme di coordinamento tra “sovranità” distinte, coordinamento che deve prevedere, necessariamente, forme di condivisione di risorse, a partire dalle conoscenze, in funzione di comuni finalità, a iniziare dalla pace e dallo sviluppo socio-economico armonico ed ecosostenibile di tutti gli individui e i loro aggregati.

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu53

Al fine di evitare fraintendimenti è utile precisare che la prospettiva federalista si distingue assai nettamente da quella autonomista. Giova in tal senso ricorrere al contributo di Emilio Lussu che in un saggio del 1933 pubblicato nel n. 6 di Giustizia e Libertà, scrive:

Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento. L’autonomia concepita come decentra-mento non è più autonomia.

Gli autonomisti della Sardegna si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federalismo, non già decentramento… D’ora innanzi adoperando la terminologia “Federalismo’ non ci saranno più equivoci.

Poi precisa:

Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto.

Lussu esprime in questo passo, modernamente, con precisione e lucidità – e ancora oggi di grande attualità – la discriminante vera fra autonomia/decentramento e federalismo. E quando afferma che per fare chiarezza politica non basta più dire «autonomia», bisogna dire «federazione» non lo sostiene per una questione lessicale e terminologica, ma di sostanza.

La visione autonomistica, anche rivista e irrobustita, dello Stato è ancora tutta dentro l’ottica dello stato ottocentesco, unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente, può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitate e parziali alla Regione che, comunque, in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri54.

In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale.

Lussu non si limita a disegnare in astratto il futuro stato federale, gli stati membri e le rispettive competenze, ma individua con precisione e nettezza anche l’ente, il soggetto che dovrà costituire lo stato membro o federato: la regione. E lo argomenta così:

La regione in Italia è una unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica… La provincia al contrario non è che una superficiale e forzata costruzione burocratica. La provincia può sparire come è venuta, in un sol giorno, la regione rimane. La terra, il clima, le acque, la posizione geografica, antiche influenze commerciali, rapporti e attitudini particolarmente sviluppati da tempo, contribuiscono a dare a ogni regione una sua economia caratteristica e quindi una vita sociale chiaramente distinta.

Da questo passo emerge non solo che per Lussu il futuro stato federato dovrà identificarsi con la regione ma che egli fonda il suo federalismo sulla identità etno-linguistica. Vi è di più: descrivendo la regione Lussu ci dà – al di là delle sue intenzioni – un ritratto compiuto della “nazione”, modernamente intesa e da non identificare con lo stato; identificazione operata invece dalla cultura ottocentesca, che purtroppo permane ancora e che permeava profondamente la visione di Lussu tanto da indurlo a parlare di “nazione mancata”, intendendo, forse, “stato mancato”.

Il ritratto che Lussu delinea della regione si attaglia in modo particolare alla Sardegna che “deve essere nello stato italiano all’incirca quello che è il cantone nella confederazione svizzera e il lander nella repubblica federale tedesca”. Ma anche alla Sicilia perché “godevano di una situazione di privilegio in quanto il mare era sufficiente a risolvere ogni contestazione territoriale”. Ma in genere per tutte le regioni prevede un’organizzazione federale “a un dipresso come i «paesi» in Germania, le «province» in Austria e i «cantoni» in Svizzera”. Scrive a proposito della Svizzera55

Io ho conosciuto molto da vicino la Svizzera, la piccola grande democrazia organizzata in Stato federalistico, la più antica che l’Europa conosca. Ebbene, è a quel tipo d’organizzazione federalistica dello Stato democratico che la Sardegna aspira.

Quanto alla questione del nome delle entità che dovrebbero costituire lo stato federale: regioni, repubbliche, stati federati, territori autonomi, Lussu non ha dubbi: avrebbero dovuto chiamarsi “repubbliche federate”. E così argomenta:

Io propendo per la denominazione di ‘repubblica’ perché questa è la più rispondente a mettere in evidenza la parte di sovranità conquistata e a dare più popolarmente coscienza dell’attività autonoma e distinta nel seno della intera comunità italiana.

A chi obiettava che per diventare «stato» le nostre regioni sarebbero troppo piccole rispondeva: “Lo sarebbero come stati indipendenti, – io preciserei ‘separati’-, non lo sono come stati federati.” E aggiunge: “Nella Confederazione svizzera non vi è un solo cantone più grande delle più piccole delle regioni italiane”. Non era quindi il criterio del territorio – secondo Lussu – ad impedire a una regione di essere l’unità di base di uno stato federale. Inoltre, l’autore di Un anno sull’altipiano ricordava a questo proposito che nulla vietava a due o più regioni che avessero interessi comuni o unità di vita economica di unirsi in un solo stato federale.

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

Uno dei temi di più difficile soluzione riguarda il rapporto tra gli individui (sistemi reali) e le istituzioni (sistemi concettuali): i primi cioè esistono in modo oggettivo, le seconde sono il frutto della volontà dei primi.

Questa constatazione non è banale poiché pone una serie di questioni finora risolte in un modo che se poteva andare bene nel passato, oggi costringono a una più attenta riflessione. La ragione fondamentale della necessità di “aprire” un dibattito sul tema è connessa con le trasformazioni sociali intervenute nel mondo nel corso degli ultimi decenni e che hanno visto una porzione crescente di popolazione accedere ai più alti livelli della conoscenza e del sapere umano. Ciò significa che se prima il coordinamento sociale poteva utilmente avvalersi di strumenti “coercitivi” perché il contesto non poteva capire la necessità di comportamenti finalizzati al perseguimento di comuni obiettivi, ora questo è più difficile da accettare e, soprattutto, è da rifiutare a priori sulla base di una visione filosofica dell’uomo come soggetto capace di intendere e di volere, quindi di decidere sempre più responsabilmente per sé e per i propri simili.

Ergo, ci si deve chiedere: possono essere costrette le persone a sottostare a vincoli ritenuti obsoleti, inadeguati o inefficienti in relazione alle legittime ambizioni di ciascuno di potersi realizzare nella vita scegliendo il meglio per sé?

Nel contempo, se fino a ora anche nei paesi che fondano il loro ordinamento giuridico sulla partecipazione della popolazione senza distinzione di censo, reddito, genere, credo religioso o altro (concetto di democrazia), è accettabile che il meccanismo della rappresentanza (così come lo abbiamo conosciuto) debba operare sempre e comunque quando, anche grazie alle tecnologie digitali, oggi si possono realizzare forme diffuse e frequenti di partecipazione diretta ai processi decisionali riguardanti, sempre più, questioni diverse e mutevoli nel tempo?

Si tratta di domande legittime che riportano al rapporto tra individui e istituzioni: sono i primi che costituiscono le seconde o, invece, queste ultime hanno assunto talmente vita propria da essere dominanti sui primi al punto che il ruolo degli individui tende a essere non quello formalmente dichiarato di cittadini ma di sudditi?

La complessità degli argomenti posti non può liquidarsi con posizioni “dogmatiche”, spesso contrapposte ed estremiste, volte a evitare la discussione e imporre l’accettazione acritica di quel che è stato finora ereditato dal passato. Come si possono spiegare altrimenti le azioni di varia natura esercitate dagli Stati per reprimere i tentativi di “recupero” di una soggettività degli individui che si identificano come popoli che con quello Stato invece non vogliono accettare un rapporto di sottomissione con lo Stato di cui fanno parte?

Non si tratta, in altre parole, di liquidare come “anacronistici processi di secessione” le istanze di popoli, come i Catalani, i Corsi, gli Scozzesi, ecc. che, per il tramite di azioni come i referendum, rivendicano una soggettività che considerano annullata se non criminalizzata e, comunque, non valorizzata, anche in termini di sfruttamento a fini di sviluppo socio-economico. Come evidenziato all’inizio di questo documento, il problema legato alla revisione del rapporto tra individui e istituzioni, se fosse affrontato in modo dialogico e finalizzato a creare effettive ed eque condizioni di sviluppo per tutti, non darebbe luogo a contrapposizioni che esacerbano gli animi e che accentuano la percezione di un profondo squilibrio tra istituzioni detentori del potere, che pure gli deriva dal popolo, e gli individui che in questo modo perdono la loro sovranità trasformandosi da cittadini in “sudditi obbedienti”.

Si tratta di temi che riportano al grande tema proprio delle scienze sociali della contrapposizione tra individualismo e collettivismo, incapaci, ciascuno, di addivenire a una soluzione56.

Per superare questa dicotomia occorre una terza via, costituita, come è stato indicato in precedenza, dall’approccio sistemico, l’unico metodo in grado di tenere insieme le prospettive di tutela dell’individuo (le parti) con quelle dell’insieme (il tutto, il collettivo). Ciò che rende possibile l’interazione tra le parti e il tutto sono le relazioni e ciò che le rende possibili: il dialogo reciproco che si fonda sull’ascolto dei punti di vista dell’altro, la condivisione delle risorse, l’assunzione diffusa delle responsabilità e, infine, la trasparenza dei comportamenti che ha come base il riconoscimento reciproco degli interessi legittimi.

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

A supportare la necessità di revisione della Costituzione italiana, oltre che un approccio metodologico rispettoso delle parti e il tutto, vi sono gli stessi Trattati europei che nel definire i valori fondamentali all’articolo 257, stabilisce all’articolo 7 che il Consiglio europeo, “deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo”, possa “constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”.

Nello stesso articolo 7, al comma 3, invece, si stabilisce che “Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche”.

Peraltro, anche con riferimento ai criteri che disciplinano l’ingresso di nuovi Stati dentro l’UE, i Trattati stabiliscono che siano rispettati i seguenti:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;
  • un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, tra cui la capacità di attuare efficacemente le regole, le norme e le politiche che costituiscono il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Di rilievo è l’ultimo capoverso del comma 3 dell’articolo 3 che recita testualmente: “Essa – l’Unione europea (ndr) – rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.”

Analogamente occorre considerare quanto previsto dalla Convenzione UNESCO per la Protezione e Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali58 nell’ambito della quale, all’articolo 1, si esplicitano chiaramente le finalità riguardanti tra gli altri:

  • la protezione e la promozione delle diversità e delle espressioni culturali;
  • la creazione delle condizioni che permettano alle culture di prosperare e interagire liberamente, in modo da arricchirsi reciprocamente;
  • la promozione e il rispetto per la diversità delle espressioni culturali nonché la presa di coscienza del loro valore a livello locale, nazionale e internazionale;
  • la riaffermazione dell’importanza della connessione tra cultura e sviluppo per tutti i Paesi, soprattutto per quelli in via di sviluppo, e sostenere le misure nazionali e internazionali volte a evidenziare il valore capitale di questo nesso;
  • il riconoscimento della natura specifica delle attività, dei beni e dei servizi culturali quali portatori d’identità, di valori e di significato;
  • la riaffermazione del diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e applicare politiche e misure che ritengono adeguate in materia di protezione e di promozione della diversità delle espressioni culturali sul proprio territorio.

Anche in considerazione di quest’ultimo riferimento alla Convenzione UNESCO emerge in modo abbastanza chiaro che lo Stato italiano, almeno con riferimento al tema del rispetto e della tutela delle minoranze, in questo caso etniche e linguistiche, abbia articoli della Costituzione quanto meno ambigui e suscettibili di una attenta rivalutazione.

Ecco perché, qui di seguito, si propongono alcune possibili modifiche volte a rendere più coerente la Carta costituzionale italiana con i Trattati dell’Unione.

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

Quanto ora indicato, se ritenuto ragionevole e perseguibile, rappresenterebbe una prospettiva rispetto alla quale non conta quanto oggi siamo distanti dal renderla operativa, quanto il fatto di agire subito per avvicinarsi ad essa. In tal senso non c’è un prima e un dopo, si agisce laddove oggi è possibile farlo alle condizioni ora esistenti.

Va da sé che questo progetto richiede una revisione della Costituzione italiana per renderla capace di accogliere al suo interno questi principi organizzativi che non ledono affatto le fondamenta della Carta ma anzi, le danno maggior vigore, proprio perché più rispondente alla complessità della situazione attuale che, come è noto, non va ridotta ma compresa e gestita.

In particolare, i primi articoli che richiedono un sostanziale adeguamento sono l’1, il 5 e il 6 in modo da renderli coerenti col principio che coniuga unità e diversità, quest’ultima da considerare come parte costitutiva della Repubblica e non come soggetto di delega come, purtroppo, accade ora.

Nello specifico, l’articolo 1, proprio per far emergere la natura sistemica ed emergente dello Stato dovrebbe indicare, ponendo rimedio agli errori del passato, che la sovranità appartiene congiuntamente ai popoli che abitano il territorio dello Stato e ai rispettivi territori. In questo senso, per esempio, la nuova formulazione potrebbe essere la seguente:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla libertà.

La sovranità appartiene congiuntamente al popolo e alle Comunità territoriali, organizzate in Comuni, Province e Regioni, il cui esercizio si esprime sulla base della pari dignità con gli organi centrali dello Stato e del principio di sussidiarietà per quanto riguarda la ripartizione delle competenze e delle risorse.

L’articolo 5 dovrebbe essere modificato proprio nella stessa direzione: attualmente il potere è in capo allo Stato mentre in una prospettiva sistemica, sulla base del principio di sussidiarietà, dovrebbe essere in capo ai popoli e ai territori che si organizzano attribuendo a livelli superiori quelle parti di potere che secondo criteri di efficienza ed efficacia coinvolgono tutti i popoli o è utile e conveniente che siano gestiti a tale livello superiore. Allo stesso tempo, occorre codificare il principio secondo il quale l’unità nasce dal riconoscimento delle diversità e non invece ribadire il principio contrario dell’unitarietà e della indivisibilità che non intacca le differenze negative da rimuovere e impedisce invece la valorizzazione di quelle positive. Una nuova possibile configurazione dell’articolo 5 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica si fonda sulla comune volontà delle Comunità locali organizzate in Comuni, Province e Regioni di operare, secondo criteri di efficienza ed efficacia, per il benessere, la felicità e l’equità di trattamento dei popoli che la abitano, adottando come criterio di ripartizione delle competenze e delle risorse, il principio di sussidiarietà.

La Repubblica si impegna a garantire la pari dignità dei diversi organi rappresentativi dei popoli e dei territori, attraverso misure di perequazione sociale e territoriale, combinando criteri demografici con altri territoriali e socio-economici.

Infine, nell’articolo 6 occorre stabilire che le minoranze linguistiche hanno pari dignità con l’italiano nei territori in cui esse vengono parlate, favorendo altresì lo studio di tali lingue proprio per conservare e valorizzare nel tempo queste specificità. Si tratta in altre parole di riconoscere in Costituzione la possibilità del bilinguismo perfetto. A tale proposito, per esempio, una nuova configurazione dell’articolo 6 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica riconosce la pari dignità con l’italiano alle diverse lingue parlate nei diversi territori. In particolare, la pari dignità è riconosciuta al francese, al tedesco, al ladino, al sardo, [e terze]nei territori in cui queste lingue sono parlate.

La Repubblica, al fine di garantire la tutela e la valorizzazione di queste lingue ne garantisce e ne promuove l’insegnamento e lo studio nelle scuole di ogni ordine e grado, così da incentivare il plurilinguismo come competenza di maggiore competitività delle popolazioni.

Un’architettura come quella così ipotizzata crea le basi per la trasformazione dello Stato da centralista e unitario in sistemico-federale, così che l’autonomia di ogni livello di potere politico-istituzionale diventi sostanziale, perché garantita da responsabilità di ciò che si fa e da risorse direttamente gestite, pur conservando a livello federale un sistema di perequazione volto a ridurre e rimuovere le differenze negative di tipo socio-economico, ciò che in gergo si chiama federalismo fiscale e che non avrebbe bisogno di specificazione, visto che il federalismo non sarebbe tale senza responsabilità delle parti e senza risorse proprie.

Non è da trascurare il fatto che questa trasformazione crea le basi per un recupero di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni repubblicane, oggi fortemente compromessa e testimoniata dalla progressiva scarsa partecipazione dei cittadini alle consultazioni elettorali. Sarebbe invece utile restituire agli stessi maggiori opportunità di partecipazione alla vita democratica, cosa che, nella prospettiva indicata, suggerisce una integrazione dell’attuale Carta con l’ampliamento dell’utilizzazione dell’istituto referendario non solo in termini abrogativi ma anche propositivi e confermativi, circostanza che oggi sarebbe possibile grazie all’uso delle moderne tecnologie che possono permettere l’esercizio del voto senza il dispendio di risorse umane, materiali e finanziarie che di fatto scoraggiano l’esercizio di questo diritto59.

6. Per una ridefinizione democratica e pacifica del rapporto tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

Alla base di questa proposta di ridefinizione della Carta fondamentale del popolo sardo e della sua convivenza pacifica con gli altri popoli della Repubblica italiana e dell’Unione europea c’è solo l’idea di costruire un’organizzazione delle relazioni basata su valori universali e inalienabili quali, al di sopra di tutti, il benessere e la felicità di ogni individuo che si possono realizzare solo se si creano condizioni di esercizio della propria libertà individuale, nel limite già indicato rappresentato da quella di ciascun altro, la pace e la creazione di condizioni di diritto, interne e internazionali, per la soluzione delle controversie che dovessero sorgere, nonché l’equità e la creazione di pari opportunità perché ogni individuo possa trovare, secondo le sue propensioni, la possibilità di tutelare il diritto alla salute, al lavoro, ad una dimora stabile, a istituzioni educative e formative in grado di favorire il miglioramento delle condizioni di umana esistenza.

Questo significa altresì che una organizzazione di questo tipo si fonda sia su beni individuali che su beni comuni: questi ultimi sono quelli di cui tutti devono avere il diritto di poterne fruire alle medesime condizioni e che sono la base per la convivenza pacifica delle persone, a iniziare da quelli che permettono la vita e l’affermazione della dignità umana.

6.1.1 Il diritto al benessere e alla felicità60

Gli Stati Uniti hanno inserito il diritto alla felicità, già nel 1776, nella dichiarazione d’indipendenza. In particolare, questo testo, redatto da Thomas Jefferson (1743-1826) e approvato dal Congresso di Filadelfia il 4 luglio 1776, qualifica il perseguimento della felicità come diritto inalienabile. In virtù di ciò, il popolo avrebbe quindi il diritto di pretendere dal governo le misure in grado di assicurare a ogni cittadino la propria quota di benessere; in caso contrario i consociati avrebbero il diritto di sovvertire o modificare l’ordine precostituito. La Dichiarazione americana identifica quei valori politici, tra cui la felicità, che i nuovi governi da quel momento dovranno perseguire.

A livello mondiale, esiste persino una giornata dedicata alla felicità, che si celebra il 20 marzo di ogni anno, istituita dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, nella consapevolezza che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone61.

In Italia questo diritto non è affermato, almeno a livello formale, anche se spesso i giudici tendono a riconoscere, tra le righe delle pronunce, valori che almeno in parte postulano il fantomatico diritto alla felicità.

Il Global Happiness 2020 di Ipsos, riporta che sei adulti su dieci, in 27 paesi, sono felici62. Nonostante la pandemia, la prevalenza della felicità a livello aggregato è quasi immutata rispetto all’anno precedente. I paesi più appagati da questa emozione, cioè quelli in cui più di tre adulti su quattro riferiscono di essere molto felici, sono Cina, Paesi Bassi, Arabia Saudita, Canada, Francia, Australia, Gran Bretagna e Svezia.

Quanto ai driver della cultura della felicità, l’indagine mostra che le principali fonti di tale sentimento tendono ad essere universali. In 14 dei 27 paesi intervistati, ognuna delle prime cinque fonti di felicità, cioè quelle che le persone riferiscono più di frequente, è tra le prime 10 fonti a livello globale. Questa lista di paesi include anche l’Italia, oltre a Brasile, Canada, Cile, Cina, India, Messico, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Sudafrica, Spagna, Svezia e Stati Uniti.

Tra le 29 potenziali fonti di felicità, le persone in tutto il mondo, tendenzialmente, sostengono che “la più grande felicità” deriva da:

  • salute e benessere fisico (citato dal 55%)
  • rapporto col partner o coniuge (49%)
  • figli (49%)
  • sentire che la vita ha un significato (48%)
  • condizioni di vita (45%)
  • sicurezza personale (45%)
  • sentirsi il controllo della vita (43%)
  • avere un lavoro o occupazione significativo (43%)
  • soddisfazione per la direzione in cui sta andando la vita (40%)
  • avere più soldi (40%)

Rispetto alla precedente indagine, le fonti di felicità che hanno guadagnato terreno a livello globale riguardano le relazioni, la salute e la sicurezza.

Alcuni elementi mostrano un calo quale fonte di felicità, come la situazione finanziaria personale, la quantità di tempo libero, la nuova leadership politica del paese.

Codificare questo diritto significa porlo alla base delle scelte che un qualsiasi governo si propone di portare avanti, significa altresì utilizzare questo criterio e le sue determinanti quali criteri discriminanti per la valutazione delle decisioni pubbliche prese a qualsiasi livello, da quello più vicino al cittadino (il comune) a quelli superiori, fino ad arrivare, almeno alla dimensione europea, per ciò che concerne noi Sardi.

6.1.2 Il diritto alla pace

Coerentemente con queste finalità e seguendo quanto auspicato da Immanuel Kant ne La pace perpetua, la prospettiva di una convivenza pacifica nel mondo trova un fondamento essenziale nella creazione, a qualsiasi livello, di condizioni giuridiche che impediscano ogni forma di conflitto, di violenza, di prevaricazione e sopraffazione di qualsivoglia natura. Di conseguenza, è auspicabile che si adottino provvedimenti volti, da un lato, al coordinamento, alla riqualificazione e, persino, alla riduzione delle spese militari (almeno per mere questioni di economia di scala) e, dall’altro, per mettere al bando le armi di distruzione di massa e le imprese che le producono.

Nondimeno, la pace e lo sviluppo sociale ed economico trovano oggi possibilità di realizzazione anche nel rispetto dell’ambiente e di ogni forma di vita in esso contenuta. Il patrimonio naturale ereditato dal passato deve essere salvaguardato, protetto e se possibile migliorato a beneficio delle future generazioni, superando la visione antropocentrica per abbracciare invece quella ecosistemica, il che implica che ogni investimento deve essere valutato nel rispetto di questo vincolo. Questo è il concetto di sostenibilità definito dalla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite che questa proposta fa proprie compresi gli obiettivi dell’Agenda 203063.

In altre parole, si può affermare che le guerre nascono dalla volontà degli Stati di espandere il proprio dominio economico e/o di reprimere le libertà individuali. Lo Stato, in troppi casi, invece che strumento per garantire i valori di cui sopra, diventa esso stesso soggetto preponderante sulle persone tanto da tradursi, assai spesso, in forme di colonizzazione di varia natura.

Va da sé che ove c’è colonizzazione non c’è libertà o, comunque, questa è di molto limitata, così come dove non c’è libertà non c’è uguaglianza e non c’è giustizia sociale. Giovanni Battista Tuveri in proposito osservava che “l’uguaglianza … consiste nella libertà garantita indistintamente a tutti, di manifestare i loro valori sociali, e nell’equa e costante proporzione tra i valori che ciascuno manifesta, e l’estimazione che la legge è disposta a farne. È inutile il soggiungere, che una siffatta eguaglianza non può effettuarsi compiutamente sotto quei governi la cui essenza ripugna al pieno svolgimento delle libertà: dacché, ogni attentato inferito alla medesima è inseparabile dalla lesione di un qualche diritto ingenito o acquistato, e quindi di quella proporzione, senza la quale, non dessi vera uguaglianza64.

6.1.3 Il diritto al lavoro

Il diritto al lavoro è riconosciuto come un principio fondamentale nell’ambito delle legislazioni europea, italiana e della Regione Sardegna. Questo diritto non solo garantisce la possibilità di ottenere un impiego dignitoso e giustamente remunerato, ma impone anche agli enti governativi il dovere di promuovere condizioni che favoriscano lo sviluppo economico e l’occupazione. Sostenere il diritto al lavoro significa quindi implementare politiche attive che stimolino la creazione di nuove opportunità lavorative, formazione professionale adeguata e misure di supporto per l’inserimento nel mercato del lavoro.

In termini di azioni concrete, è essenziale che la Regione Sardegna operi in sinergia con le direttive europee e le normative statali per elaborare programmi specifici che mirino a ridurre la disoccupazione, in particolare nelle aree più svantaggiate e tra le fasce più vulnerabili della popolazione, come i giovani e i disoccupati di lungo termine. Questo può includere incentivi per le aziende che assumono disoccupati, sgravi fiscali per i nuovi investimenti produttivi e partenariati con istituzioni educative per l’aggiornamento delle competenze professionali in linea con le esigenze del mercato.

Un altro punto chiave è l’adattamento della forza lavoro alle trasformazioni digitali e ecologiche, che sono centrali nelle politiche dell’Unione Europea. La Sardegna dovrebbe pertanto promuovere la formazione e la riqualificazione nel settore delle tecnologie verdi e digitali, settori che presentano un elevato potenziale di crescita e di creazione di impiego. Parallelamente, è cruciale implementare misure di protezione sociale che garantiscano una rete di sicurezza per chi perde il lavoro a causa delle fluttuazioni economiche o della trasformazione industriale.

Per garantire l’efficacia di queste politiche, la Regione Sardegna può avvalersi di fondi europei, come quelli del Fondo Sociale Europeo e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che offrono risorse significative per l’impiego e lo sviluppo economico. Inoltre, è fondamentale che queste iniziative siano monitorate e valutate regolarmente per assicurare che rispondano in modo efficace alle dinamiche del mercato del lavoro locale.

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

Mai come in questo periodo storico l’ambiente è al centro delle attenzioni delle persone più responsabili che operano nel pianeta terra. Tuttavia, nonostante la crescita di consapevolezza, i dati sui cambiamenti climatici sono impietosi e le misure finora adottate non sono più sufficienti per evitare una catastrofe annunciata. I grafici seguenti ne sono una palese dimostrazione.

Figura 1 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: NOAA, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 2 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: OWID, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 3 – Quota emissioni globali di gas serra per ambito di attività economica.

Fonte: Climate Watch e WRI, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

A tutto questo occorre una azione forte che prima di tutto ponga al centro dello sviluppo socio-economico e di tutela dell’ambiente non più l’approccio antropocentrico ma quello ecocentrico. Il primo approccio (definibile come antropocentrismo-ecologico), si fonda su un ambientalismo che cerca di conciliare lo stile di vita consumistico dell’uomo con la conservazione dell’ambiente, con risultati finora del tutto deludenti, poiché l’esercizio del benessere per questa prospettiva è più importante della salvaguardia delle altre specie. Il secondo approccio, invece, individua la conservazione dell’ambiente nel suo complesso come bene indipendente dall’uomo; quest’ultimo, pertanto, è solo una delle tante specie esistenti sulla terra e qualsiasi gerarchizzazione è arbitraria e fondata sulla presunta separazione tra uomo e ambiente.

La conservazione e la rigenerazione dell’ecosistema dovrebbero essere alla base di qualsiasi visione di sviluppo sociale ed economico: questa scelta è alla base della vita, non solo di una vita decente. Ciò significa che occorre una azione ad ampio spettro che coinvolga indistintamente tutti, a livello individuale sino a quello planetario.

A partire da questa consapevolezza, l’azione a livello locale diventa fondamentale, sia per preservare il contesto in cui si vive, sia per contribuire al più generale miglioramento del sistema Terra.

Ambiente, agricoltura, salute, educazione alimentare, ecc. sono quindi le leve sulle quali agire e le attività da svolgere sono chiarissime:

  • riforestazione e rigenerazione urbana sono priorità assolute. Solo l’incremento della flora può aumentare la capacità di assorbire la quantità di emissioni di CO2 che vengono emesse in atmosfera, può contrastare efficacemente l’erosione dei suoli, le conseguenze devastanti delle alluvioni, l’aumento della temperatura al suolo, ecc.. Queste attività andrebbero fatte, da subito, in ogni centro abitato e nelle aree rurali e di montagna, sia pubbliche che private. Ogni cittadino dovrebbe sentirsi investito della necessità di mettere a dimora delle piante a partire dai propri possedimenti, se qualcuno ne possiede, e per questo dovrebbero esserci delle misure atte ad agevolare con azioni premianti i comportamenti virtuosi o penalizzanti per quelli non consoni a questa visione;
  • incremento delle produzioni agricole così da ottenere almeno due risultati: quello di non lasciare terreni incolti, come purtroppo si vede troppo spesso in Sardegna, e quello di ridurre la dipendenza dall’esterno della nostra bilancia commerciale. Sotto questo profilo serve una azione sinergica molto forte tra l’istituzione regionale (alla quale compete l’onere di definire una visione e gli obiettivi), agenzie regionali (come Laore e Agris) cui spetta il compito di dialogare con le istituzioni statali e comunitarie da un lato e di ritornare a fare divulgazione nei campi a beneficio di chi vuole fare impresa in agricoltura, sia per migliorare la qualità delle specie, in una prospettiva di tutela e valorizzazione delle varietà tipiche, sia per incrementare l’efficienza gestionale di questi imprenditori. Allo stesso tempo occorrono provvedimenti volti a scoraggiare la rendita da possesso che, in molti casi, coincide con l’attesa di cambi di destinazione d’uso da agricoli a industriali o altro per lucrare su affitti o vendite, senza concorrere alla produzione di beni primari.

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da rapidi cambiamenti e da un’economia basata sulla conoscenza, la formazione continua emerge non solo come un diritto, ma come una necessità impellente per ogni individuo. Il principio fondamentale di una “Scuola come spazio di formazione della persona umana” si articola nella visione di un’istruzione che non si limita a trasmettere conoscenze, ma che modella i cittadini, fornendo loro gli strumenti per navigare e prosperare in una società complessa. In questo quadro, proponiamo l’implementazione di programmi educativi che enfatizzano lo sviluppo delle competenze critiche, creative e relazionali, oltre alla pura acquisizione di saperi.

Parallelamente, la visione della “Scuola per la formazione di una identità contestuale, multidimensionale e dinamica che dia valore alle radici e alle ali” si concentra sulla costruzione di percorsi formativi che riconoscano e valorizzino le specificità culturali e storiche del contesto sardo, integrandole con una prospettiva globale. È essenziale che la formazione scolastica in Sardegna incoraggi la consapevolezza delle proprie radici culturali e al contempo prepari gli studenti a inserirsi in contesti internazionali. Per realizzare ciò, suggeriamo l’introduzione di moduli dedicati alla storia e alla cultura sarda in tutti i livelli di istruzione, affiancati da programmi di scambio internazionale che espongano gli studenti a diverse realtà globali.

Azioni concrete da intraprendere includono l’istituzione di laboratori di apprendimento permanente nelle scuole, aperti alla comunità, dove le lezioni di storia locale possano essere integrate con workshop su tecnologie emergenti e competenze digitali. Inoltre, si propone di collaborare con enti culturali e università per sviluppare corsi che esplorino l’intersezione tra identità sarda e fenomeni globali, equipaggiando così gli studenti con le competenze per operare efficacemente sia a livello locale che internazionale.

Queste iniziative, finanziate tramite partenariati pubblico-privati e con il supporto di fondi europei dedicati all’istruzione e alla cultura, mirano a creare un sistema educativo che non solo rispetti il diritto alla formazione continua, ma che trasformi la scuola in un luogo di crescita continua e di preparazione a una vita di attiva partecipazione alla società.

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

Nella visione di una società che valorizza ogni suo membro, il diritto al reinserimento sociale rappresenta un pilastro fondamentale per combattere la cultura dello scarto e promuovere l’inclusione di tutti i cittadini, specialmente quelli che si trovano in condizioni di vulnerabilità. Questo diritto si estende dalle politiche carcerarie che favoriscono il reinserimento degli ex detenuti, fino al sostegno per le fasce più deboli, come le persone senza fissa dimora, gli anziani soli e i minori in difficoltà.

Per quanto riguarda il sistema carcerario, proponiamo l’adozione di programmi di educazione e formazione professionale all’interno delle carceri, finalizzati a fornire agli detenuti le competenze necessarie per un efficace reinserimento nel tessuto lavorativo e sociale al termine della loro pena. Questi programmi dovrebbero essere integrati da partnership con imprese locali per facilitare stage e opportunità di lavoro a tempo determinato post-detenzione.

Inoltre, per contrastare la cultura dello scarto, è essenziale implementare politiche di sostegno che includano servizi di assistenza domiciliare per gli anziani, programmi di tutoraggio per i giovani a rischio di dispersione scolastica e iniziative di housing sociale per offrire soluzioni abitative stabili a chi si trova in condizioni di precarietà. Queste azioni possono essere potenziate attraverso l’utilizzo di fondi regionali, nazionali ed europei destinati all’inclusione sociale e al miglioramento delle condizioni di vita dei gruppi vulnerabili.

Per rafforzare ulteriormente queste politiche, suggeriamo la creazione di centri di ascolto e supporto in ogni comune, dove professionisti qualificati possano offrire consulenza legale, psicologica e lavorativa gratuita. Questi centri dovrebbero operare in rete con le strutture sanitarie locali, le organizzazioni non governative e le associazioni di volontariato, formando una rete di sostegno capillare che possa intervenire prontamente e efficacemente nelle situazioni di emergenza sociale.

Infine, per promuovere un cambiamento culturale duraturo, è fondamentale integrare nei programmi scolastici moduli specifici dedicati al valore della solidarietà e dell’inclusione sociale, educando le nuove generazioni al rispetto e al sostegno reciproco tra cittadini di ogni età e condizione sociale.

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

Nell’ambito di una visione rinnovata dell’impegno politico, il diritto ad una politica del servizio sottolinea l’importanza di considerare l’attività politica non come una carriera a lungo termine, ma come un servizio temporaneo reso alla comunità. Questo principio si concretizza nella proposta di limitare il numero di mandati elettivi a un massimo di due per ogni carica, promuovendo così un rinnovamento continuo all’interno delle istituzioni e prevenendo la stagnazione e l’accaparramento del potere.

Limitare i mandati a due termini aiuta a garantire che le cariche politiche siano occupate da individui motivati dal desiderio di servire il pubblico e non da interessi di lungo termine legati al mantenimento del potere. Tale misura incoraggia anche una maggiore partecipazione civica, aprendo regolarmente le porte a nuovi leader con fresche idee e prospettive, essenziali per affrontare le sfide in continua evoluzione della società moderna.

Inoltre, questa limitazione dovrebbe essere accompagnata da politiche che promuovano la trasparenza e la responsabilità, come la dichiarazione obbligatoria degli interessi e la valutazione periodica delle performance. Queste politiche assicurano che i politici rimangano veri servitori del pubblico, mantenendo sempre un alto livello di integrità e allineamento con gli interessi dei cittadini che rappresentano.

Per implementare efficacemente questa visione, si propone di introdurre modifiche legislative che formalizzino la limitazione dei mandati e che stabiliscano chiari criteri di accountability per i politici in carica. Si suggerisce anche di avviare campagne di sensibilizzazione per educare i cittadini sui vantaggi di una rotazione regolare dei rappresentanti politici, enfatizzando come questo approccio possa portare a una politica più dinamica e reattiva alle necessità della popolazione.

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

In Italia la pressione fiscale si situa intorno al 60%, ciò sta a significare che oltre la metà del frutto del nostro lavoro è appannaggio dello Stato, ossia, su 312 giornate lavorative siamo costretti a lavorare oltre 187 giorni per lo Stato e solamente 125 giorni per noi stessi. Con un prelievo di tale portata si può affermare che siamo di fronte al fenomeno che possiamo definire una schiavitù moderna.

Qualcuno può trovare consolazione nel fatto che siffatta moderna schiavitù è deliberata da un Parlamento democraticamente eletto?

Ricordiamoci che sulla base della legislazione italiana, a differenza del sistema istituzionale elvetico, in campo tributario non sono ammessi referendum. Pertanto, tra la fiscalità e la libertà personale esiste una relazione inversa, nel senso che, oltre un certo punto, la crescita della fiscalità ha luogo a spese della nostra libertà.

Coloro i quali hanno dubbi sulla validità di questa relazione dovrebbero spiegarci quale sarebbe il senso della libertà in un paese in cui lo Stato mi portasse via il 100% del mio reddito. A tal proposito vedasi la efficace descrizione del fenomeno che fa Herbert Spencer, nel libro L’individuo contro lo Stato (1884) Bariletti editori, 1989.

La leva fiscale che, da che mondo e mondo può essere utilizzata anche rispettando adeguatamente la libertà dei cittadino per favorire lo sviluppo economico e sociale di un territorio, può anche essere utilizzata per ostacolarlo, oppure, anche inintenzionalmente o indirettamente, per frenarne le potenzialità.

In Sardegna, è amaro constatare che, fin dal momento in cui il Regno di Sardegna passò sotto il dominio sabaudo prima e italiano poi, la fiscalità è stata usata con quest’ultima finalità. E a tal proposito G.B. Tuveri in un famoso articolo dal titolo “Chi oserà attaccare i campanelli al gatto?”, apparso sul giornale La Cronaca in data 27 gennaio 1867, in cui denunciava che il prelievo fiscale operato dallo Stato italiano in Sardegna era di gran lunga superiore ai benefici che il suo operato apportava alla nostra isola, sosteneva altresì che

“Un’isola qualunque non può prosperare, ove non si governi da sé, o non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi colle prerogative del potere centrale più limitato. E la Sardegna non raggiunse in alcun tempo la prosperità cui è chiamata dalla sua posizione, dai suoi porti, dalla varietà dei suoi prodotti, appunto perché non ebbe mai nel suo seno un governo unico e si organizzato, da poter essere emendato radicalmente e costituzionalmente.”

E sull’operato del Governo di allora sentenziava:

“Un governo che pone tanta diligenza nello spendere il meno che possa nell’isola, quanta ne pone nel ricavarne sempre di più; un governo che, per ciò, non ci lascia che un’ombra di forza pubblica; che macchina tutto dì soppressioni d’uffici e d’istituti pubblici, […] che nel mentre s’appropria la maggior parte delle rendite comunali, addossa ai Comuni ed alle Provincie quasi tutti i suoi carichi, e che inoltre li sottopone ad un’amministrazione dissennata e dispendiosissima, un governo insomma la cui grettezza non può essere pareggiata che dalla sua avidità: un governo siffatto basterebbe ad immiserire, non noi ma il popolo più industre e più dovizioso della terra”.

Tuveri fu il primo ad individuare quella che venne successivamente conosciuta come la “questione sarda”. Qualche anno più tardi anche Camillo Bellieni, in un articolo pubblicato sul “Solco” il 18 dicembre 1921, aveva individuato più o meno le stesse problematiche e così si esprimeva:

“Di fronte al problema sardo, quale noi lo prospettiamo nel nostro programma e nella nostra propaganda quotidiana, le riforme e le concezioni governative, sono nient’altro che pannicelli caldi sopra un membro in cancrena. […] Lasciata a se stessa la Sardegna sarà capace non solo di governarsi e di crearsi ordinamenti più consoni alle proprie condizioni e alle proprie necessità più che oggi non accada, ma anche di crearsi quella prosperità economica che ora le manca, ed è ostacolata in tutti i modi e alla quale le sue risorse naturali e l’energia dei suoi figli le danno diritto di aspirare.

Le esiguità dei tributi, la scarsità della produzione attuale non sono elementi tali che possano dare soverchie preoccupazioni per l’avvenire di una regione come la nostra, che non ha ancora avuto la possibilità di sviluppare tutto il suo rendimento economico.

La Sardegna vuole liberarsi dall’oppressione di tutela dello Stato italiano, per fare da sé, per curare le sue piaghe da sé.

Liberismo, autonomia, cooperazione.

Sono questi gli elementi entro cui è compreso il problema sardo, che è anche il problema dell’Italia.”

Applicato al tempo presente, il fare da sé che auspicava Bellieni equivale ad applicare nel campo tributario i concetti del federalismo.

In campo tributario, il Federalismo attiene essenzialmente alla configurazione e distribuzione delle competenze e delle funzioni tra Stato ed Enti territoriali in materia di entrate fiscali, secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà più volte richiamato.

In un assetto federale deve essere riconosciuto a ciascun ente territoriale il potere di governare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel medesimo ente ai cittadini.

Tenendo ben presente questa premessa vediamo di esaminare l’attuale sistema tributario vigente in Sardegna in quanto Regione appartenete al territorio doganale dello Stato italiano.

A seguito della riforma fiscale del 1972, in vigore in Italia dal 1973, le imposte dirette e indirette più rilevanti dal punto di vista sociale e finanziario, sono concepite e strutturate e sono funzionali ad un sistema sostanzialmente unitario, e mal funzionerebbero in un sistema di tipo federale senza una radicale revisione dei presupposti impositivi e delle procedure di riscossione.

Per quanto riguarda le imposte dirette, la capacità contributiva e la progressività sono i cardini su cui è costruito il sistema tributario italiano ai fini della tassazione dei redditi. Da questo ne discende che il sistema tributario italiano è informato a criteri di progressività e il prelievo fiscale può essere illimitato.

Per quanto attiene al prelievo delle imposte dirette vigenti nel territorio dello Stato italiano, occorre fare riferimento in primis all’articolo 53 della Costituzione che così stabilisce:

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Il primo principio cardine: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” come sopra richiamato, non prevede alcun limite a questo contributo. Sulla base di questo principio, assurdo se ci si pensa un attimo, può succedere e succede ad un qualsiasi contribuente che in base alle sue capacità imprenditoriali, bravura o altro, riesca a conseguire un reddito di 5, 10, 20, 50 o 100 milioni di euro, con il sistema tributario attualmente in vigore dovrebbe/deve concorrere con oltre la metà: 2, 5, 5, 10, 25, 50 e passa milioni di euro alle spese pubbliche. Con siffatta cifra, deriverebbe un concorso abnorme alle spese pubbliche da parte di un singolo contribuente che, con un reddito simile, molto probabilmente non farebbe ricorso, né lui né la sua famiglia, alla stragrande maggioranza dei servizi pubblici tipo (sanità, istruzione, trasporti, etc.) erogati dallo Stato.

In un sistema federale sardo si potrebbe proporre un limite quantitativo al prelievo fiscale. Per esempio, stabilendo un tetto che, oltre al criterio di progressività, tra contribuenti, .si introduca anche un importo informato a criteri di proporzionalità.

Poiché l’altro principio cardine della progressività, su cui si basa il prelievo tributario, appare innaturale.

Normalmente chi lavora di più si attende un maggior guadagno mentre, con il sistema delle aliquote progressive, chi lavora di più, per assurdo, guadagna di meno, e questo vale per qualsiasi contribuente, sia esso lavoratore dipendente o autonomo. Pertanto, in una ipotesi di federalismo fiscale, in un sistema federale sardo, si dovrebbe integrare il principio della progressività col criterio della proporzionalità, prevedendo, per esempio, una percentuale massima del prelievo fiscale sulla base di pochi scaglioni, oppure di una aliquota unica del 15%.

Nell’ottica della trasparenza e di un corretto rapporto fisco-contribuente, nel territorio della Sardegna, si dovrebbe abolire o limitare la figura del sostituto d’imposta prevista nel nostro ordinamento dagli artt. 23 e seguenti del D.P.R. 600/73.

Tra l’altro i sostituti d’imposta, dovrebbero garantire questo servizio di riscossione per conto dello Stato senza alcuna retribuzione, a fronte di notevoli e gravose responsabilità sanzionabili anche sotto il profilo penale come previsto dall’articolo 5 del D.Lgs. n. 74/2000.

Per quanto riguarda le imposte indirette, di cui la principale è l’imposta sul valore aggiunto istituita con il DPR 633 del 26 ottobre 1972, considerato che è un’imposta che grava essenzialmente sul consumatore finale, in linea di principio, ad un’ipotetica crescita della ricchezza prodotta nell’isola, dovrebbe corrispondere la previsione di una esenzione dal tributo per i beni di prima necessità quali, pane, acqua, latte e suoi derivati, pasta, prodotti per l’infanzia, etc.

La diminuzione del gettito che ne deriverebbe da tale esenzione potrebbe essere compensata con l’aumento e la diversificazione delle aliquote per taluni prodotti e servizi, prevedendo delle aliquote maggiori oltre un determinato prezzo di vendita.

Per quanto riguarda l’imposta di registro si potrebbe ipotizzare un’aliquota dell’1% su tutti gli atti soggetti a registrazione, mentre dovrebbero essere abolite l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale e tutti gli altri balzelli che costellano l’universo tributario italiano.

Inoltre, considerato che il patrimonio del de cuius in generale è il frutto degli investimenti realizzati con risorse finanziarie già sottoposte a tassazione, l’imposta di successione dovrebbe essere soppressa.

Tutte le norme fiscali da applicare nella nostra isola dovrebbero essere contenute in un Testo Unico scritte in modo chiaro e di facile interpretazione.

Dovremmo accuratamente evitare il delirio normativo generato dalle centinaia di norme, circolari e risoluzioni ministeriali che affollano la legislazione tributaria italiana e rendono oltremodo vessatorio l’adempimento fiscale.

Attualmente, i rapporti tra la Regione Sarda e lo Stato italiano sono regolati dagli articoli del vigente statuto speciale della Regione Sardegna sulla base di quanto previsto al Titolo III. Finanze – Demanio e Patrimonio, con gli articoli dal 7 al 12.In particolare,l’art. 8 è stato modificato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1 comma 834 e seguenti della Legge 27 dicembre 2006 n. 296 che recita:

Comma 834 

L’articolo 8 dello Statuto speciale per la Sardegna, di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “Art. 8. – Le entrate della regione sono costituite: a) dai sette decimi del gettito delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle persone giuridiche riscosse nel territorio della regione; b) dai nove decimi del gettito delle imposte sul bollo, di registro, ipotecarie, sul consumo dell’energia elettrica e delle tasse sulle concessioni governative percette nel territorio della regione; c) dai cinque decimi delle imposte sulle successioni e donazioni riscosse nel territorio della regione; d) dai nove decimi dell’imposta di fabbricazione su tutti i prodotti che ne siano gravati, percetta nel territorio della regione; e) dai nove decimi della quota fiscale dell’imposta erariale di consumo relativa ai prodotti dei monopoli dei tabacchi consumati nella regione; f) dai nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto generata sul territorio regionale da determinare sulla base dei consumi regionali delle famiglie rilevati annualmente dall’ISTAT; g) dai canoni per le concessioni idroelettriche; h) da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato; i) dai redditi derivanti dal proprio patrimonio e dal proprio demanio; l) da contributi straordinari dello Stato per particolari piani di opere pubbliche e di trasformazione fondiaria; m) dai sette decimi di tutte le entrate erariali, dirette o indirette, comunque denominate,. ad eccezione di quelle di spettanza di altri enti pubblici.

Nelle entrate spettanti alla regione sono comprese anche quelle che, sebbene relative a fattispecie tributarie maturate nell’ambito regionale, affluiscono, in attuazione di disposizioni legislative o per esigenze amministrative, ad uffici finanziari situati fuori del territorio della regione”.

Comma 835. 

Ad integrazione delle somme stanziate negli anni 2004, 2005 e 2006 è autorizzata la spesa di euro 25 milioni per ciascuno degli anni dal 2007 al 2026 per la devoluzione alla regione Sardegna delle quote di compartecipazione all’imposta sul valore aggiunto riscossa nel territorio regionale, concordate, ai sensi dell’articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, per gli anni 2004, 2005 e 2006.

Comma 836. 

Dall’anno 2007 la regione Sardegna provvede al finanziamento del fabbisogno complessivo del Servizio sanitario nazionale sul proprio territorio senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato.


Comma 837. 

Alla regione Sardegna sono trasferite le funzioni relative al trasporto pubblico locale (Ferrovie Sardegna e Ferrovie Meridionali Sarde) e le funzioni relative alla continuità territoriale. Al fine di disciplinare gli aspetti operativi del trasporto di persone relativi alle Ferrovie della Sardegna ed alle Ferrovie Meridionali Sarde, il Ministero dei trasporti e la Regione Autonoma della Sardegna, entro il 31 marzo 2007, sentito il Ministero dell’economia e delle finanze, sottoscrivono un accordo attuativo relativo agli aspetti finanziari, demaniali ed agli investimenti in corso.

Comma 838. 

L’attuazione delle previsioni relative alla compartecipazione al gettito delle imposte di cui alle lettere a) e m) del primo comma dell’articolo 8 dello Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, non può determinare oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato superiori rispettivamente a 344 milioni di euro per l’anno 2007, a 371 milioni di euro per l’anno 2008 e a 482 milioni di euro per l’anno 2009. La nuova compartecipazione della regione Sardegna al gettito erariale entra a regime dall’anno 2010.

Comma 839. 

Dall’attuazione del combinato disposto della lettera f), del primo comma, dell’articolo 8 del citato Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, e del comma 836 del presente articolo, per gli anni 2007, 2008 e 2009 non può derivare alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Per gli anni 2007-2009 la quota dei nove decimi dell’imposta sul valore aggiunto sui consumi è attribuita sino alla concorrenza dell’importo risultante a carico della regione per la spesa sanitaria dalle delibere del CIPE per gli stessi anni 2007-2009, aumentato dell’importo di 300 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009.

Comma 840. 

Per gli anni 2007, 2008 e 2009 gli oneri relativi alle funzioni trasferite di cui al comma 837 rimangono a carico dello Stato.

L’ultimo comma aggiunto all’articolo 8 che prevede la compartecipazione della Regione anche ai tributi diretti e indiretti maturati in ambito regionale ma riscossi fuori del nostro territorio è entrato in vigore nel 2010.

Sulla base delle nuove disposizioni le entrate fiscali (fonte CPT) riferibili alla Sardegna ammonterebbero per l’anno 2021 (in milioni di euro) a € 24.164,35, mentre i trasferimenti operati dallo Stato italiano sarebbero pari a € 30.812,65, per cui risulterebbe un residuo fiscale negativo pari a € 6.648,30. Ogni residente in Sardegna riceverebbe in più dallo Stato una cifra rispondente a circa 4.155,00 euro. A tale proposito, non avendo la possibilità di verificarne l’attendibilità, è lecito solo dubitare che i dati su riportati siano corretti e, anche se lo fossero per quanto verrà riportato in seguito, si ritiene che la Sardegna vanti ancora un credito consistente nei confronti dello Stato italiano. Il problema, di ordine politico e, si badi bene, solo conseguentemente contabile, è farselo riconoscere per poi pervenire alla riscossione.

Intanto, possiamo tranquillamente affermare che fino all’anno 2010, in base alle norme vigenti, in primis i D.P.R. 917/86 e D.P.R. 633/72, e le altre che regolano il prelievo fiscale, una cospicua parte delle imposte dirette e indirette versate dai contribuenti, non venivano riscosse nel nostro territorio dove si creava la base imponibile, ma dove il contribuente, individualmente o in forma societaria, aveva il domicilio fiscale.

La scelta legislativa, applicata fino al 2010, di individuare il luogo di riscossione o d’imputazione delle imposte nel luogo di domicilio fiscale del contribuente, anziché nel luogo di produzione della ricchezza o della materia imponibile, era solo una convenzione fondata sulla presunta esigenza di rendere agevole l’adempimento tributario del contribuente, e non di stabilire un legame diretto tra luogo di produzione del reddito e versamento delle imposte.

Tale scelta per oltre 60 anni, ha comportato che la totalità delle imposte e tasse dovute dalle ditte individuali e dalle società commerciali che operavano nel nostro territorio, e qui producevano base imponibile, non risultavano riscosse nella Regione Sardegna ma, in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e nel resto del territorio italiano dove le stesse avevano il domicilio fiscale o la residenza anagrafica. L’elenco sarebbe lunghissimo e qui ci si limita nel ricordare che la stragrande maggioranza delle banche, delle compagnie di assicurazione, aziende di trasporti aerei e marittimi, grande distribuzione commerciale, aziende che operano nel settore turistico, telecomunicazioni ed energia, non dispongono di sede in loco.

Lo stesso avveniva per tutti i contribuenti di derivazione peninsulare che avevano le seconde case in Sardegna e pagavano l’IRPEF maggiorata di un terzo nei loro Comuni di residenza e non nei Comuni della Sardegna, dove ricadevano le loro case.

Inoltre, non facevano capo alla Sardegna tutte le ritenute IRPEF che venivano operate sugli stipendi dei dipendenti pubblici (insegnanti, magistrati, etc.) per i quali le buste paga venivano elaborate nel Centro elaborazione dati dei vari Ministeri di riferimento, situato a Latina, mentre le ritenute risultavano versate nella Regione Lazio.

Le imposte riscosse in Sardegna sulla base di questa convenzione e in applicazione (da oltre 60 anni) dell’art. 8 dello Statuto Speciale, sono state di gran lunga inferiori a quelle che saranno quantificate e riscosse con l’applicazione del nuovo criterio previsto dal novellato art.8.

Sarebbe utile e vantaggioso per noi quantificare l’ammontare delle imposte che in 60 anni sono state incamerate dallo Stato e non restituite alla Sardegna. A questo ammontare dovremmo sommare anche gli interessi e tutti gli indennizzi che lo Stato italiano dovrebbe corrisponderci per l’uso del nostro territorio, per esempio quello gravato dalle servitù militari e nella dubbia ottemperanza delle normative ambientali.

Nell’ottica di un’ipotetica e graduale affermazione della sovranità della nostra autonomia, le risorse finanziarie suindicate, nel breve periodo potrebbero essere usate per sopperire all’eventuale contrazione delle entrate tributarie.

Appare del tutto verosimile, sulla scorta delle numerose esperienze internazionali, che con un sistema fiscale quale quello ivi abbozzato, che preveda oltre alla possibilità di riscuotere tutte le imposte e tasse, anche la necessaria autonomia impositiva (con la previsione di poter stabilire aliquote differenziate rispetto al resto del territorio italiano), nel giro di pochi anni la Sardegna potrebbe diventare attrattiva per numerose imprese e, persino, per molti contribuenti italiani ed europei che si trasferirebbero nella nostra isola apportando vitali risorse umane e finanziarie.

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

La costruzione di una architettura federale, realizzabile in Italia con una modifica di alcuni articoli della sua Carta costituzionale, sul piano formale richiede modifiche che impattino su due dimensioni in modo particolare: i poteri attributi a ciascun livello sulla base del principio di sussidiarietà e le risorse, finanziarie, umane e materiali, necessarie per l’esercizio di quei poteri.

Sotto questo profilo non si parte da zero. Si tratta di ragionare intorno ai poteri oggi delegati dallo Stato per verificarli e, se necessario, modificarli in funzione del principio secondo cui tutto ciò che si può fare a livello più vicino del cittadino deve rimanere a tale livello. Il Comune è, pertanto, titolare primo di tali poteri, ripartendo da quanto previsto nella Legge 8 giugno 1990, n. 142 in cui si definiva questo ente come quello che “rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Via via che si sale di livello si individuano poi gli altri Enti fino ad arrivare allo Stato e all’Unione europea. I diversi confini tra questi livelli, pertanto sono tutti importanti e nessuno è e deve diventare, come purtroppo è accaduto finora, un “dogma” in nome del quale fare guerre o impedire legittime aspirazioni di libertà dei popoli che vi abitano all’interno.

Per quanto riguarda le risorse vale lo stesso ragionamento. Ogni livello istituzionale deve essere dotato di risorse proprie in funzione degli obiettivi della propria azione di governo. In questo senso, il concetto di federalismo fiscale non è opzionale rispetto al federalismo ma ne è parte costitutiva senza il quale non si potrebbe neppure fare riferimento ad una architettura federale.

Alcune conclusioni

Calando il ragionamento di cui sopra alla Sardegna, si può affermare, senza tema di smentita, che questa terra e questo popolo sono oggi una parte dell’insieme Italia65, costruita fino a oggi sulla base di un processo di integrazione per colonizzazione, visto che una parte (la nazione italiana) ha prevalso sull’altra (la nazione sarda, anche se il tema coinvolge altre Nazioni senza stato presenti nel territorio della Repubblica), costringendola in molti casi a perdere alcuni tratti distintivi. Per esempio criminalizzando l’uso della lingua sarda e imponendo per sostituzione l’uso dell’italiano, ovvero allorché l’introduzione della Legge delle chiudende pur volendo creare i presupposti per la responsabilizzazione degli attori economici di fatto diede avvio a un iniquo assalto ai terreni di ogni tipo da parte dei soggetti più forti e aumentando in questo modo le diseguaglianze tra feudatari e piccoli agricoltori e allevatori.

Questa evoluzione storica è alla base non solo delle difficoltà di sviluppo sociale ed economico ma più in generale di un diffuso malcontento che si sostanzia nella legittima contestazione delle attuali istituzioni che sono all’origine della rivendicazione di una capacità di autogoverno secondo quanto previsto dal principio di autodeterminazione dei popoli affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55), nonché ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale dell’ONU sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960), nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966), nonché nella Carta di Algeri del 4 luglio 1976.

A partire da questo principio, nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, si raccomanda agli Stati membri dell’ONU di “astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione”.

Orbene, queste istanze non vanno demonizzate, come è stato fatto finora ignorando quanto indicato fin qui; una demonizzazione che discende dalla attribuzione di “sacralità” al principio di unitarietà e indivisibilità dello Stato che, si è visto, è il fondamento giuridico con il quale le diversità positive sono state finora annichilite. Una demonizzazione che non riguarda solo il popolo sardo ma che coinvolge altre Nazioni senza stato come la Catalogna, la Scozia, i Paesi Baschi, ecc.

Al contrario, occorre aprire un dibattito che, serenamente e sulla base di un metodo scientifico, possa svilupparsi rigettando i dogmatismi ideologici di posizioni che ne limitano la comprensione da un lato e la possibilità di spiegazione dall’altro.

Nelle scienze sociali, infatti, non esiste irreversibilità o un destino che si muove lungo un piano inclinato. Al contrario, molto dipende da ciò che si decide di fare, sia da parte di chi ha subito una forma di nazionalismo accentratore, sia da parte di chi l’ha posto in essere, se ci si tiene a costruire relazioni più eque e più solidali.

L’uso del termine “colonizzazione”, almeno nel caso della Sardegna, non deve scandalizzare se si analizza la storia di questa terra con un minimo di obiettività. In tal senso, pensando alla Sardegna, si rifletta su quanto Antoni Simon Mossa diceva nell’affermare che «L’oppressione coloniale si è intensificata con lo Stato italiano. L’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo».66

Rifiutare di partire dalla logica e dai fatti storici non aiuta a rimuovere quella percezione di fastidio che tanti Sardi oggi hanno nei confronti dello Stato italiano. Di converso, in questo ragionamento c’è solo la volontà di essere protagonisti del proprio destino, assumendosi la responsabilità delle decisioni e delle azioni, in un contesto solidale con gli altri popoli che abitano l’Italia, l’Unione Europea e gli altri popoli dell’area euro-mediterranea.

Nell’ambito della teoria del federalismo, questo percorso verso il basso viene definito federalismo “dissociativo”. Ciò da molti è vissuto in modo traumatico, come se si perdesse chissà cosa, mentre il tema è quello di re-distribuire il potere in senso verticale in modo coerente col principio di sussidiarietà, così come indicato anche in precedenza.

Parimenti, questo progetto non intende essere ostile all’Italia ed ai suoi cittadini, ma ritiene doveroso contribuire all’evoluzione delle sue e delle nostre istituzioni, mediante riforme democratiche. Riforme che assecondino il bisogno di sviluppo economico, sociale e culturale degli abitanti della Repubblica Italiana, entro il quadro del più ampio sogno europeo e nel rispetto del Diritto Internazionale.

1 https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/mercati-internazionali/accordi-bretton-woods-e-la-sua-fine.htm

2 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=legissum%3Axy0022

3 https://www.eda.admin.ch/europa/it/home/europaeische-union/erweiterungsprozess.html

4 https://www.ilsole24ore.com/art/brexit-ora-maggioranza-cittadini-non-vuole-piu-ADZt1Da

5 Bomboi A. (2019), Problemi economico-finanziari della Sardegna, Condaghes.

6 Il Sole 24 Ore, Conti pubblici, 15-04-2024.

7 Si veda della Banca d’Italia (2023), Rapporto Economie Regionali Sardegna, pag. 22.

8 Barone N., Confronto salariale in Italia, Il Sole 24 Ore, 14-12-2023.

9 inps.it/docallegatiNP/Mig/InpsComunica/WorkInps_Papers/10_WorkINPS_Papers_19febbraio_2018.pdf

10 Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, pag. 62, Tabella 2.2.

11 Più lavoro per i laureati STEM, di E. Bruno, Il Sole 24 Ore, 25-01-2023.

12 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, 2024, pag. 144.

13 Codogno, L., Galli, G. (2022). Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce, Il Mulino, Bologna.

14 Dati Eurostat 2020, in Quotidiano Sanità, 11-09-2023.

15 Indicatori Istituto Superiore della Sanità, PASSI 2021-2022, Roma, in epicentro.iss.it/passi/dati/alcol

16 R. M. Solow – Learning from ‘Learning by Doing’, Stanford, 1997.

17 Manfredi T., “La contrattazione decentrata: più lavoro e più efficienza”, Strade Online, 30-11-2015; Lagrosa I., “Salari differenziati, se copiassimo la Germania vantaggi per tutti”, Mondoeconomico, 20-02-2023.

18 Si vedano i Grafici 1 e 2, Taxing Wages 2024. Tax and Gender through the Lens of the Second Earner, OECD, Parigi, 2024

19 Pp. 1-4, P.A: Pagamenti lumaca – Nota Ufficio Studi CGIA di Mestre, 22-06-2024

20 Cfr. Tabella B, bilancio dello Stato, in La spesa statale regionalizzata. Stima 2022, RGS-MEF, pag. 14, Roma, 01-2024.

21 Si veda la Fig. 2, Entrate e spesa della PA, pag. 7, in La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni, di G. Galli e G. Gottardo, OCPI-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 26-09-2020

22 Con riferimento agli studi di Aresu, Marrocu e Paci (2022), su disaggregazione dati CPT per il periodo 2000-2019, si veda Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, Crenos/Unica, Cagliari, pagg. 53-54.

23 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, pag. 161.

24 Dati elaborati da Ufficio Studi CGIA di Mestre su statistiche INPS e ISTAT, pag. 5, Nota CGIA, 18-11-2023

25 Tavola 7, pag. 6, Statistiche in breve su Gestione Dipendenti Pubblici, INPS, Roma, 05-2024

26 Report indicatori demografici anno 2023, ISTAT, Roma, 29-03-2024

27 Population in brief 2023, Singapore Department of Statistics, 09-2023

28 Sul tema, si consiglia il testo di T. A. Teo, Civic multiculturalism in Singapore. Revisiting Citizenship, Rights and Recognition, Palgrave Macmillan, Cham, 2019.

29 Pag. 29, rapporto Economie Regionali della Banca d’Italia, Sardegna 2023

30 A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020, pag. 27.

31 Sul tema, tra i vari, si segnalano: Entrepreneurship in Small Island States and Territories, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2015; The Success of Small States in International Relations, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2023; The Size of Nations, di A. Alesina, E. Spolaore, The MIT Press, Cambridge, 2003; Integration and International Dispute Resolution in Small States, di P. Butler, E. Lein, R. Salim, Springer, Cham, 2018; When Small States Make Big Leaps, di D. Ornston, Cornell University Press, Ithaca, 2012; Offshore Finance and Small States, di W. Vlcek, Palgrave Macmillan, New York, 2008; The Small States Club, di A. Sarkissian, C. Hurst & Co. Publishers, London, 2023.

32 pag. 123, A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020; Pp. 583 ss., J. M. Buchanan, Federalism and fiscal equity, in The American Economic Review, 1950.

33 Residui fiscali al netto della spesa per interessi, anno 2019. Totale calcolato sulla popolazione sarda censita al 31-01-2024. Nota CGIA di Mestre su dati Banca d’Italia e Conti Pubblici Territoriali, Tab. 1, pag. 5, del 04-02-2023.

34 Legge costituzionale n. 2, 07 novembre 2022/GU Serie Generale n.267 del 15-11-2022.

35 Jugl, M. (2019). Finding the golden mean: Country size and the performance of national bureaucracies. Journal of Public Administration Research and Theory, 29(1), 118-132.

36 Vedere pp. 117-118, de “La riemersione dell’insularità in Costituzione”, di L. M. Tonelli, in Osservatorio Costituzionale, AIC, Roma, Fasc. 06/2022.

37 Nel merito, si consiglia E. Longo, Regioni e diritti. La tutela dei diritti nelle leggi e negli statuti regionali, EUM, Macerata, 2007.

38 Revisione intervento di A. Bomboi, “Insularità in Costituzione? Già esistita sino alla riforma del Titolo V°”, in Istituto Bruno Leoni, blog 23-10-2020.

39 Bottazzi, G. (2014). Sociologia dello sviluppo. Gius. Laterza & Figli Spa, pag. 71.

40 J. M. Buchanan, G. Tullock, Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1998.

41 Vedere anche capitolo X° in A. Bomboi, L’indipendentismo sardo. Le ragioni, la storia, i protagonisti, Condaghes, Cagliari, 2014, e cap. XII°, in A. Bomboi, Problemi economico-finanziari della Sardegna. L’isola può farcela da sola?, Condaghes, Cagliari, 2019.

42 Sul tema si veda Codonesu F., Servitù militari modello di sviluppo e sovranità in Sardegna, CUEC, Cagliari, 2013.

43http://www.richschwinn.com/richschwinn/index/teaching/past%20courses/Econ%20340%20-%20Managerial%20Economics/2013%20Fall%20340%20-%20The%20Nature%20of%20the%20Firm.pdf?fbclid=IwAR1OKjQVzOa_RPtJ1vHh-XML9avY_mZV536sJ6w6we53kRdnFW6sBBSX7xU

44 Popper K.R. (1990). La scienza e la storia sul filo dei ricordi. Intervista di Guido Ferrari, Jaca Book-Edizioni Casagrande, Bellizona, pp.24-25.

45 Esattamente quello che è accaduto nella penisola italica a partire dal 1720 quando il Regno di Sardegna passò ai Savoia che poi, dopo l’occupazione degli altri regni e territori della penisola, diedero luogo al Regno d’Italia diventata Repubblica dopo il referendum post-bellico del 1946.

46 Ci si vuole in sostanza riferire al fatto che l’unificazione dell’Italia è stata imposta dall’alto, senza il consenso delle popolazioni, e che presupporre che esista un popolo italiano è una forzatura in termini storici. È vero invece che più popoli, insistenti su territori differenti, con proprie specificità sono stati messi insieme per volontà del governo sabaudo e per interesse delle classi industriali del nord della penisola italica. Quando Massimo D’Azeglio affermò che “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani” non faceva altro che evidenziare queste diversità, allora considerate negative e, per questa ragione, oggetto di progressiva eliminazione, ancorché, a tutt’oggi, non ci sia riusciti, per fortuna.

47 Un articolo interessante per capire come sia nata la Confederazione elvetica si trova qui https://www.swissinfo.ch/ita/come-la-svizzera-diventò-la-svizzera–le-tappe-fondamentali-prima-del-1848/45810668. Di rilievo appare anche questo articolo in cui si spiegano le ragioni che supportano, ancora oggi, la presenza dei Cantoni, da taluni ritenuti troppo piccoli e che altri, invece, considerano fondamentali per la conservazione degli equilibri fin qui raggiunti. https://www.swissinfo.ch/ita/federalismo-cantoni-svizzera-quanti-ce-ne-vogliono/41171660

48 Si pensi, riferendoci alla Sardegna, al processo di industrializzazione realizzato col Piano di rinascita basato su alcuni errori di fondo, tra cui da un lato quello di pensare che la trasformazione dei lavoratori da agricoltori e allevatori in operai potesse eradicare definitivamente il banditismo. Peraltro creato proprio dalle politiche sabaude sia con la legge delle chiudende che con altri interventi che hanno accresciuto le disparità socio economiche, e dall’altro, dal ritenere che lo sviluppo industriale basato sulla grande industria motrice potesse far nascere un indotto di imprese ad esse collegate.

49 Contu G. (2002). Il federalismo nella storia della Sardegna contemporanea. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 16.

50 Nell’ordinamento italiano, si distingue una sussidiarietà verticale, che è il criterio di allocazione delle competenze fra livelli di governo differenti e mira ad attribuire la generalità delle competenze e delle funzioni alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini; e una sussidiarietà orizzontale, che contempla la suddivisione dei compiti fra le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati. Tuttavia, è utile considerare che il principio di sussidiarietà verticale è stabilito anche dall’art. 5 del Trattato della Comunità europea: “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene […], soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.

51 Cfr. Lobrano G. (2002). Fderalismo e De-centramento. I caratteri e le distinzioni. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 111.

52 A questo proposito è utile richiamare quando recitava l’articolo 2 della legge 142 del 1990 che disciplinava l’Autonomia dei comuni e delle province. In particolare, esso stabiliva testualmente:

“1. Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome.

2. Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.

3. La provincia, ente locale intermedio fra comune e regione, cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale.

4. I comuni e le province hanno autonomia statutaria ed autonomia finanziaria nell’ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica.

5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie.”

53 Questo paragrafo riprende, leggermente adattato da Francesco Casula, un articolo pubblicato il 3 marzo 2015 dallo stesso nella rivista online Truncare sas cadenas. https://truncare.myblog.it/2015/03/03/federalismo-pacifismo-il-messaggio-lussu-40-anni-dalla-morte-francesco-casula/

54 L’intera frase virgolettata è tratta da Norberto Bobbio, “Federalismo”. “Introduzione a Silvio Trentin”.

55 Vargiu A. (2006). I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del ’44. Edizioni ISKRA, Ghilarza.

56 Illuminanti, in proposito, sono le tesi dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, il quale rifiuta la presenza di un’autorità governativa che pone alla schiavitù gli individui, non condividendo quindi gli ideali tipici collettivistici in cui era necessaria la stessa. Per questo studioso, lo Stato si deve limitare a porre in essere e in modo semplice le regole basilari per favorire lo scambio tra individui. Cfr. Hayek (von) Friedrich A., Individualismo: quello vero e quello falso, Rubettino, 1990.

57 L’articolo 2 recita testualmente: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

58 https://www.unesco.beniculturali.it/wp-content/uploads/2017/11/convenzione2005.pdf

59 A tale proposito sarebbe utile prendere esempio dalla vicina Confederazione elvetica dove grazie a questo istituto il popolo ha davvero possibilità di incidere positivamente sul processo legislativo. Si veda per esempio https://www.swissinfo.ch/ita/strumentario-della-democrazia-svizzera_il-referendum–ovvero-la-politica-sotto-una-spada-di-damocle/44101794

60 Il contenuto di questo paragrafo deriva in gran parte da questo documento https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/12/diritto-alla-felicita-cosa-ne-pensa-popolazione-mondiale

61 Risoluzione A/RES/66/281 del 12 luglio 2012 dichiara che “L’Assemblea generale […] consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, […] riconoscendo inoltre di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata internazionale della felicità (International Day of Happiness)”.

62 Ogni anno, in occasione della celebrazione della giornata internazionale della felicità, l’ONU pubblica il World Happiness Report, un rapporto nel quale è riportata la lista dei Paesi più felici del mondo sulla base di criteri quali il Pil pro capite, il welfare, le aspettative di vita, la libertà, l’assenza di corruzione e la cooperazione sociale.

63 Cfr. https://unric.org/it/agenda-2030/

64 AA.VV. (1988). Giovanni Battista Tuveri. I tempi, le idee, le opere, i testi significativi di un pensatore nella Sardegna dell’Ottocento, Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari, p. 154.

65 Non è casuale l’uso della parola insieme e non sistema.

66 In https://www.algheroturismo.eu/event/5-frasi-per-conoscere-antoni-simon-mossa-il-politico/Associazione Sardegna Federale

Manifesto politico-culturale

Presentazione

Questo documento rappresenta la visione dell’Associazione rispetto a ciò che la Sardegna vorrebbe e dovrebbe diventare all’interno di una cornice giuridica e istituzionale di tipo federale.

La responsabilità di ciò che è scritto lo si deve ai fondatori dell’Associazione e, segnatamente, in ordine sparso, alle seguenti persone: Gavino Guiso, Adriano Bomboi, Donatella Gallistru, Camillo Gosamo, Gavino Guiso, Giuseppe Melis, Renato Orrù, Piergiorgio Pira, Giovanni Scanu e Massimo Bacciu, Corrado Putzu e Andrea Riccio, con il contributo esterno di Francesco Casula del quale abbiamo fatto nostre alcune considerazioni riguardanti il federalismo di Emilio Lussu. Egli, pertanto, non ha alcuna responsabilità sul testo considerato nel suo complesso.

Estensori del Manifesto:

– Giuseppe Melis (docente di economia e gestione delle imprese all’università di Cagliari; capitoli deputati ad illustrare il contesto storico-istituzionale);

– Adriano Bomboi (saggista, capitoli deputati ad illustrare i principi dell’associazione ed il contesto socio-economico);

– Piergiorgio Pira (dott. commercialista, capitoli deputati ad illustrare la normativa fiscale e la sua possibile evoluzione).

Indice

  1. Lo scopo principale di Sardegna Federale
  1. La ricerca del benessere
  2. Le nostre ambizioni
  1. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.
  1. Il contesto di riferimento
  2. La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione
  1. L’Italia: una repubblica con tanti limiti e fondata sul debito pubblico

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

3.2 La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

3.3 Una economia poco produttiva.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

3.5. Quale contesto economico-culturale?

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

3.9. Un popolo in pensione.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

3.11. Una fotografia del presente.

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

  1. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

4.2 Il contributo della scienza economica

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

  1. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

  1. Per una ridefinizione democratica e pacifica delle relazioni tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

6.1.1 Il diritto alla felicità

6.1.2 Il diritto alla pace

6.1.3 Il diritto al lavoro

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

Alcune conclusioni

1. Qual è lo scopo principale di Sardegna Federale?

1.1. La ricerca del benessere

Sardegna Federale esercita ed interpreta ogni proposta di cambiamento, ogni posizione ed ogni impegno civico nel solco del raggiungimento del benessere della popolazione. Benessere che può essere raggiunto solamente attraverso un processo di studio e analisi delle risposte da offrire alle maggiori problematiche della Sardegna contemporanea, e che passano inevitabilmente per un necessario percorso di riforme utili ad uscire dalle sabbie dell’immobilismo.

Tale processo, che ha nella riforma dello Statuto di Autonomia il suo baricentro, non ignora i rilevanti ostacoli al cambiamento che oggi impediscono all’isola di costruire un domani migliore, sia esso di ordine politico, istituzionale, economico e culturale. E ciò nondimeno, con umiltà, espone il bisogno di immaginare una Sardegna diversa, proponendola a chi vorrà o saprà ascoltare. Esprimendo, soprattutto, l’esigenza di contribuire all’evoluzione del dibattito politico, affinché si pianti il seme per la diffusione di nuove riflessioni destinate ad arginare il trend di declino in cui la comunità sarda, come mostrano diversi dati, si è drammaticamente adagiata.

Sardegna Federale si propone altresì di contribuire al dibattito per un miglioramento dell’organizzazione e delle istituzioni europee in termini di maggiore rappresentatività delle autonomie locali, per lo snellimento delle burocrazie centrali ed una maggiore competitività, in chiave elvetica, con particolare riferimento ai settori del fisco, del lavoro, del commercio e dell’innovazione scientifica.

1.2. I nostri intenti?

La base di partenza del ragionamento risiede nella constatazione di dover immaginare un contesto sociale ed economico in cui gli individui siano tutelati e valorizzati in quanto tali e, nel contempo, possano sviluppare relazioni di varia natura, sulla base del principio che ci sono argomenti, materie e temi che possono trovare soluzione solo in una prospettiva di tipo collaborativo e che per questo occorre avere possibilità di decisione a un livello che non può essere solo quello individuale. Ciò che, sulla base delle conoscenze attuali conduce a un sistema di tipo federale.

Ecco, quindi, che il primo intento dell’Associazione è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il federalismo, interno ed esterno all’isola, garantisca lo sviluppo socio-economico, nonché un radicamento del potere a livello più vicino a quello dell’individuo per poi attribuirlo a livelli di decisione superiori per tematiche di interesse comune, fino ad arrivare al livello mondiale. Si tratta di una prospettiva che, tra le altre, vuole essere uno strumento di responsabilizzazione e trasparenza nell’amministrazione della spesa pubblica, senza pretendere né sostenere rapide o scontate capacità di successo.

Un altro intento è quello di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la democrazia sarda, nella strada verso la dignità, amministri il proprio settore pubblico grazie alla ricchezza locale, limitando il ricorso a trasferimenti economici e la delega di funzioni di governo del territorio da/a terze istituzioni.

Analogamente ci si propone di costruire le condizioni per arrivare ad un contesto istituzionale in cui la democrazia sarda acquisisca e amministri gradualmente, in modo autonomo, con proprie risorse, sempre più funzioni e servizi destinati alla cittadinanza ed oggi gestiti dallo Stato, sino ad un’eventuale concordata e piena sovranità, tramite referendum, nel quadro del Diritto Internazionale e sulla base del principio di sussidiarietà.

Occorre altresì costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la politica miri a ridurre il proprio protagonismo nella tendenza a presidiare ogni ente, fondazione o pubblico servizio, fenomeno che oggi causa alti costi e detrimento dell’efficienza a danno dei contribuenti, senza peraltro garantire la finalità pubblica cui dovrebbe ispirarsi. La politica, in altre parole, deve stabilire valori e principi e verificarne il raggiungimento da parte degli attori chiamati a proporre, secondo criteri di efficienza ed efficacia, il loro perseguimento.

Riteniamo altresì necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il merito individuale non venga oscurato dall’eventuale mediocrità al potere né annichilito dalla sua incompetenza. In tale ambito, il successo personale deve trovare affermazione senza subire il peso dell’invidia sociale, del nepotismo e del clientelismo.

Nel contempo è indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società più equa, con maggiore mobilità sociale, in cui anche i meno abbienti possano ambire alla crescita della propria ricchezza culturale e materiale. Perché questo possa avvenire è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui lo studio, nelle sue molteplici modalità, non venga ritenuto superfluo, ma strumento di crescita personale, di crescita sociale e di affermazione professionale.

Coerentemente con tale prospettiva è necessario costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’impegno, la determinazione e lo spirito imprenditoriale vengano promossi rispetto alla tutela assistenziale.

L’obiettivo deve essere quello di costruire le condizioni per arrivare ad un habitat culturale, politico, fiscale e burocratico capace di stimolare e attrarre ricerca, innovazione e investimenti, interni ed esterni all’isola. Analogamente, ciò deve accompagnarsi con interventi volti a costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui l’innovazione tecnologica, comprese quelle legate all’intelligenza artificiale, venga interpretata come un’opportunità di sviluppo e non alla stregua di un insidioso mutamento in negativo.

Vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la produttività totale dei fattori premi adeguatamente il reddito dei lavoratori. Così come vogliamo operare per costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il libero scambio della cultura e del commercio, seppur unite alla preservazione e valorizzazione delle tradizioni locali, oscurino volontà protezionistiche e lesive tendenze nazionalistiche. Una formula orientata al civic nationalism come strumento di garanzia della nostra società.

In quest’ambito ci proponiamo di costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la storia, l’archeologia e i beni culturali sardi rappresentino un patrimonio collettivo degno di adeguati studi e di efficace promozione, a partire dal loro insegnamento durante la scuola dell’obbligo.

Ciò è premessa imprescindibile per costruire le condizioni per arrivare ad una società il cui tessuto produttivo trovi una via autonoma alla crescita e alla diversificazione dell’economia locale.

Quanto indicato in precedenza è presupposto indispensabile per costruire le condizioni per arrivare ad una società che sappia attrarre i giovani, frenando l’emorragia dell’emigrazione, consentendo di investire in loco il talento individuale.

Coerentemente con quanto fin qui indicato vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui la tutela dell’ambiente rappresenti uno strumento di decoro civico ed una risorsa destinata a garantire il reciproco benessere dell’individuo, dell’economia e del suo habitat.

Vogliamo quindi costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui si guardi alla comunità internazionale, tra cui l’Unione Europea, non come vincolo allo sviluppo, ma come strumento di opportunità collettive di crescita da interscambi culturali e commerciali.

Coerentemente con questa visione liberale della società vogliamo costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui siano rispettati sia i diritti civili individuali che quelli di ogni minoranza.

In tale prospettiva di valorizzazione delle diversità riteniamo indispensabile costruire le condizioni per arrivare ad una società in cui il plurilinguismo, tra cui il sardo, l’italiano e l’inglese, sia considerato non un limite ma un valore aggiunto nella formazione e nella comunicazione tra individui.

Infine, sulla scorta di pensatori e uomini illustri quali Giovanni Battista Tuveri, Giuseppe Todde, Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Gianfranco Pintore, Luigi Einaudi, Ludwig Von Mises, Konrad Adenauer, Karl Popper, Albert Dicey e Thomas Jefferson; ed in linea con mirabili esperienze intellettuali, istituzionali e costituzionali, come quella dei Federalist Papers, del Commonwealth britannico, del Liechtenstein e della Confederazione Elvetica, guardiamo ad una nuova stagione di riforme.

Nelle pagine successive cerchiamo di dare risposte alla domanda di sostegno dei cambiamenti auspicati in questo punto.

2. Le ragioni di un nuovo Statuto e di un nuovo quadro istituzionale in Italia e in Europa.

2.1 Il contesto di riferimento

A distanza di oltre 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana e dello Statuto speciale della Sardegna, quest’ultimo approvato con legge costituzionale il 26 febbraio 1948, si rende necessaria una riflessione sulla capacità di entrambe queste carte di rispondere in modo efficace ed efficiente alla nuova situazione venutasi a creare per effetto dei cambiamenti ambientali di tipo politico, sociale, culturale, scientifico e tecnologico, intervenuti sia a livello mondiale che euro-mediterraneo.

Rispetto ad allora, infatti, i confini hanno mutato natura sia di diritto che di fatto, sia sul piano mondiale che su quello più vicino rappresentato dai contesti europeo e italiano. In particolare, tale mutamento, si manifesta nella molteplicità di tali confini e nel fatto che ciascuno di essi assolve a molteplici funzioni: da un lato demarcano e segnano differenze, da un altro mettono in relazione diversità legittime e meritevoli di tutela e, da un altro ancora, svolgono una funzione di selezione e filtro rispetto ad altre relazioni tra popoli e loro aggregati politico-istituzionali.

Nello specifico, sul piano mondiale non si può non tenere conto del fatto che, da quando sono nate la Costituzione italiana e lo Statuto della Sardegna, le cose siano cambiate in modo talmente significativo che oggi quella situazione non esiste più: innanzitutto sono venuti meno gli accordi di Yalta che avevano sancito la divisione del mondo in due sfere di influenza, una sotto il dominio USA e l’altro sotto quello dell’URSS. Da allora, sul piano politico l’URSS non esiste più, la Cina è diventata un soggetto tanto potente da entrare nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e nel contempo, altri Stati in Asia, come nell’America Latina, hanno cambiato il proprio ruolo, accrescendolo in termini di capacità di influire sulle vicende mondiali. Ciononostante, le istituzioni mondiali create dopo la Seconda guerra mondiale sono rimaste pressoché immutate e l’ONU, in particolare, è sostanzialmente bloccata dal perdurare del diritto di veto esercitabile da uno qualsiasi dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e, di conseguenza, incapace di agire efficacemente e con puntualità, soprattutto di fronte a problemi come i conflitti tra stati e, segnatamente, tra quelli in cui è coinvolto uno qualunque degli Stati del Consiglio di Sicurezza. Rendendo peraltro flebile l’uso del diritto come strumento di composizione delle controversie.

Dal punto di vista commerciale la nascita degli accordi GATT che hanno originato l’attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) hanno creato i presupposti per la progressiva abolizione e riduzione delle barriere doganali favorendo il libero commercio di beni e servizi e l’affermarsi del fenomeno della globalizzazione che porta con sé una serie di implicazioni, sia positive che negative.

Sul piano economico e monetario, dopo il venir meno degli accordi di Bretton Woods1, allorché il Presidente USA Richard Nixon dichiarò unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro in oro il 15 agosto 1971, gli europei, dopo alterne vicende riuscirono, grazie agli accordi di Maastricht del 1992 a mettere a disposizione degli scambi commerciali mondiali l’euro, utilizzabile anche come moneta di riserva da affiancare al dollaro. Questa scelta che è servita a restituire stabilità al commercio mondiale da un lato e, agli Stati europei aderenti all’accordo dall’altro, la possibilità di contenere l’inflazione e di non subire più la volatilità derivante da operazioni speculative, non è riuscita ad esprimere tutte le potenzialità, dal momento che si è dato seguito soltanto all’unione monetaria ma non anche a quella economica che avrebbe richiesto, invece, una armonizzazione, che non c’è stata, sul piano della fiscalità e dei sistemi di welfare e tutela del lavoro.

Sempre sul piano europeo, la nascita del processo di integrazione, in parte frutto della capacità visionaria del federalista Altiero Spinelli, ma soprattutto di statisti come De Gasperi, Schumann, Monnet e Adenauer ha creato i presupposti di tipo economico, commerciale ed energetico perché da un lato si impedisse un nuovo conflitto tra popoli storicamente nemici e, dall’altro, ha creato i presupposti per far diventare il contesto dei paesi aderenti all’Unione, oggi arrivata a 27 Stati, la prima potenza commerciale al mondo. Senza scordare il fondamentale apporto degli Stati Uniti d’America.

Se l’approccio funzionalista ha permesso la nascita e ha favorito i primi allargamenti della Comunità inizialmente a 6, poi a 9 nel 1973, a 10 nel 1981 e a 12 nel 1986, di seguito ha perso di efficacia con i successivi allargamenti a nord e a est, incancrenendo i processi decisionali a questioni spesso marginali rispetto alle generali finalità definite dai padri fondatori. Infatti, la liberalizzazione dell’economia ha catturato completamente l’attenzione dei paesi aderenti e non è stata accompagnata da una altrettanto auspicabile liberalizzazione della democrazia che, nel rispetto del diritto di autodeterminazione dei popoli, dovrebbe ancora oggi porsi come vero e proprio laboratorio sperimentale di esperienze partecipative. L’UE, di converso, dovrebbe affondare le proprie radici nella condivisione di politiche inerenti principalmente alla difesa, i rapporti con l’estero e il bilancio, mentre, a tutt’oggi tale procedimento risulta del tutto disatteso o è molto debole, anche se il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato all’attenzione l’importanza di dotarsi di una politica europea di difesa, così come di una strategia comune in campo energetico, ambientale e di produzione di materie prime agricole.

In sostanza, a distanza di settant’anni esatti dall’entrata in vigore del primo accordo riguardante la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)2, si può affermare che se da un lato il processo di allargamento a nuovi Stati3 è stato ampiamente positivo per creare un contesto di cittadinanza europea, fondato sull’idea di una cultura inclusiva, aperta e collaborativa, dall’altro lato, la crescita di complessità non è stata accompagnata da provvedimenti che impedissero sia il progressivo incancrenirsi dei processi decisionali sia l’emergere di posizioni opportunistiche assai distanti dalle intenzioni dei padri fondatori. Il risultato della mancata gestione del processo di approfondimento e consolidamento in senso politico ha fatto sì che uno dei Paesi entrati col primo allargamento (il Regno Unito di Gran Bretagna) abbia deciso di uscire dall’Unione ponendo il problema di prevedere nei Trattati anche l’eventuale uscita dall’Unione, nel rispetto del fatto che gli interessi a partecipare e la delega sulle materie attribuite possono mutare nel corso del tempo4.

Certo è che il processo di integrazione europea ha modificato il concetto di “confine” degli stati nazionali rendendoli sempre più permeabili per rispondere alla necessità di favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, così come, di fatto, è nella consapevolezza di tutti che la crescita dei fenomeni migratori impone a tutta l’area dell’Unione europea nuove sfide in termini di creazione di condizioni inclusive delle molteplici diversità in essa presenti.

Questo significa che occorre una seria riflessione e revisione di tutto l’impianto istituzionale che va dall’Unione Europea agli Stati nazionali e da questi alle unità sub-statali, considerando con la dovuta attenzione la questione delle Nazioni senza Stato che coinvolge diversi territori ad ovest come a est, a sud come a nord del Continente europeo.

Di certo il processo di integrazione europea ha prodotto tali e tanti cambiamenti che sarebbe estremamente sbagliato non considerare nella loro globalità e complessità, sia positivi che negativi, circostanza questa che non deve permettere giudizi sommari volti a enfatizzare o demonizzare il percorso fatto fino ad oggi.

Nondimeno, sul piano scientifico/tecnologico l’evoluzione digitale ha favorito e favorisce la costruzione di reti e di relazioni che attraversano i confini degli Stati, abbattono le barriere linguistiche e culturali, permettono a ogni individuo di essere nel contempo parte della propria realtà locale e di quella europea e, più in generale, mondiale.

2.2 La necessità di una architettura politico-istituzionale adeguata alla nuova condizione

La premessa di cui al punto precedente è parte integrante del ragionamento che sta alla base della proposta di un nuovo Statuto di autonomia della Sardegna, poiché sarebbe metodologicamente errato ignorare che anche per questa terra e il popolo che la abita, il problema è quello di trovare, responsabilmente e da protagonisti, una adeguata e dignitosa collocazione del nostro stare nel mondo. Uno stare nel mondo che è, di fatto e di diritto, condizionato prima di tutto, volenti o nolenti, dall’appartenere sia alla Repubblica italiana che all’Unione europea. Tale appartenenza, infatti, è di certo all’origine di numerosi vincoli e condizionamenti negativi ma non si può sottacere che, dalla stessa scaturiscono importanti opportunità che occorre individuare e saper cogliere.

Sono queste ragioni che suggeriscono, responsabilmente, di rivedere lo Statuto della Sardegna all’interno dell’organizzazione complessiva della Repubblica italiana e, in prospettiva, dell’Unione europea; questo è propedeutico per comprendere in che modo la struttura dello Stato, nelle sue istituzioni centrali, possa essere più adatta e capace di agire per dare soddisfazione alle legittime, molteplici e diverse istanze provenienti dalle popolazioni presenti nei diversi territori dello Stato. A supportare questa esigenza c’è l’amara constatazione del fatto che l’attuale architettura istituzionale non è stata finora in grado di supportare efficaci azioni volte a impedire l’aumento delle differenze socioeconomiche tra le diverse aree mentre, di converso, l’attuale ordinamento non permette di attribuire valore alle differenze positive di tipo storico, culturale e linguistico che, anzi, nel tempo, sono state represse e perfino annullate se non anche criminalizzate.

Ciò implica una revisione della Carta costituzionale in modo da renderla strutturalmente adatta per far fronte alla nuova società in corso di formazione. Una revisione che mantenga saldi alcuni valori e principi che non tramontano e non devono tramontare ma che sia allo stesso tempo capace di accogliere istanze finora ignorate se non anche calpestate. Ecco perché serve una ridefinizione dei poteri metodologicamente coerente con il rispetto di valori e principi universali riconosciuti istituzionalmente ma negati sostanzialmente per effetto della prevaricazione di chi, avendo dei vantaggi dalla situazione esistente, voglia in modo miope ed egoistico continuare a impedire quanto già oggi la stessa Costituzione pone a base della formazione dello Stato italiano e i Trattati europei pongono a base della cittadinanza europea. In tal senso, infatti, i poteri attribuiti alle Regioni dalla Costituzione, anche dopo la riforma del Titolo V, appaiono inadeguati rispetto alla necessità di favorire quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 3 che recita:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

L’inadeguatezza dell’architettura politico-istituzionale è connessa con la necessità di riconoscere all’origine il principio in base al quale si è in grado di esercitare il potere e cioè che questo libero esercizio è possibile solo se si dispone degli strumenti e delle risorse necessari, ovviamente nel rispetto della responsabilità, cioè del fatto che chi decide risponde personalmente del proprio operato, nel bene e nel male.

Questo significa che non è solo una questione di materie sulle quali esercitare il potere, alcune in modo esclusivo e altre in modo concorrente con lo Stato, quanto di riconoscere per ciascuno dei livelli di potere decisionali la responsabilità e la capacità di stabilire le risorse utilizzabili allo scopo, a partire da quelle finanziarie ottenibili attraverso la fiscalità.

Se quindi lo Statuto originario ha attribuito alla Sardegna il potere di legiferare in maniera esclusiva su alcune materie (ad esempio: ordinamento degli enti locali, edilizia, urbanistica, agricoltura e foreste), mentre in altre (come sanità, assistenza pubblica) può legiferare nell’ambito dei principi stabiliti con legge dello Stato, con la riforma del Titolo V tali competenze sono state ampliate (ad esempio, ricerca e formazione professionale). Ciò che manca, tuttavia, è la possibilità di prevedere all’origine risorse proprie per ciascun livello decisionale, visto che tutte le entrate fiscali sono dello Stato e poi da questo trasferite alle Regioni. Questo è uno dei vulnus più evidenti che spingono a considerare non più rinviabile la revisione della Costituzione italiana e la costruzione di un nuovo Statuto che assicuri un livello reale e sostanziale di esercizio del diritto di autodeterminazione.

Nondimeno occorre evidenziare che l’attuale Carta costituzionale, nell’attribuire allo Stato centrale tutto il potere prevedendo che sia quest’ultimo a delegarlo a livelli istituzionali inferiori, legittima l’idea di una gerarchia che non si discosta da quello monarchico dal quale il popolo decise di volersi staccare col referendum del 1946. Sarebbe invece opportuno che, coerentemente con una idea reticolare e sistemica della società, la Carta costituzionale riconoscesse pari dignità a ogni livello politico-istituzionale, dal momento che la suddivisione del potere andrebbe realizzata nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di efficienza ed efficacia dell’azione politica.

Analogamente, ancorché il tema verrà sviluppato in un punto successivo, va chiarito fin d’ora che una democrazia compiuta si fonda sul coinvolgimento diretto e totale dei cittadini cui si rivolge un determinato ordinamento, sia esso lo statuto, la costituzione o un trattato internazionale. Questo, per noi Sardi, dal 1720 a oggi non è mai avvenuto. Anzi, i sardi hanno subito tutte queste decisioni senza mai esprimersi. La democrazia diretta è indice di maturità. Rifiutarla, significa che ci sono delle élite che si arrogano un diritto che non gli appartiene, quello di pensare di essere migliori di altri.

3. L’Italia? Una repubblica fondata sul debito pubblico.

3.1 Le principali criticità dello stato italiano

Le ragioni fondamentali che inducono ad agire per modificare il contesto politico-istituzionale italiano, a dispetto della convinzione di possedere la “costituzione più bella del mondo”, sono due.

La prima è che la cultura politica largamente consolidatasi nell’isola, e in generale in tutto il territorio italiano, ha visto i partiti trasformarsi in meri comitati elettorali dediti a raggiungere il potere per incrementare la spartizione della spesa pubblica. Sia a vantaggio della propria replicazione al potere, sia a diretto vantaggio di ampie fette del proprio elettorato, in termini di sussidi di varia natura, tanto al reddito individuale quanto alle imprese.

Terminata infatti la stagione dei grandi idealismi politici, si è alimentata una prassi di governo che reclama diritti ma in assenza di doveri. E nonostante la presenza di alcune figure politiche preparate all’interno dei vari schieramenti, l’assenza di responsabilità nella gestione dei conti pubblici rappresenta il tratto unificante della linea assunta dalla quasi totalità di tali organizzazioni politiche. Un fenomeno di degenerazione del neokeynesismo amministrativo che ha avuto come principale conseguenza quello di alimentare la seconda ragione che motiva il nostro impegno.

Ci si vuole riferire, nello specifico, all’immobilismo politico, che a sua volta genera quello economico e sociale.

L’elargizione di sussidi e in linea generale di spesa corrente improduttiva, destinata non agli investimenti in crescita, ma ai consumi, rappresenta l’unico concreto collante nazionale italiano. Una tradizione che ha creato un ceto politico incapace di portare avanti riforme strutturali, il quale potrebbe altrimenti limitare la sua capacità acquisita di sviluppare nuovo consenso elettorale. Ragion per cui, nel momento in cui tale classe dirigente raggiunge i gangli del governo, locali o statali, si limita ad occuparsi di ordinaria amministrazione, senza aggredire le basi della nostra bassa competitività economica, e coinvolgendo media e intellettuali in un conformismo al ribasso. Un contesto in cui si moltiplicano progressivamente le varie crisi di settore, a cui si risponde con provvedimenti spot, dal tenore populistico, o tampone, rimandando nel tempo ogni soluzione, o accrescendo la dimensione dei problemi5.

Pertanto, l’uso sconsiderato della spesa pubblica accresce il debito pubblico, che a sua volta diventerà sempre meno sostenibile, in quanto l’incapacità di generare nuova ricchezza, dovuta a storici e consolidati gap economici e al crescente declino demografico, ne comprometteranno la solvibilità.

Per comprendere meglio quanto affermato è opportuno riferirsi ad alcuni dati come quelli pubblicati nei periodici bollettini statistici, tra cui quelli di Bankitalia, Istat, Eurostat, Ocse e, in ambito locale, Crenos, inerenti alla struttura della società sarda, che, purtroppo, dipingono una realtà drammaticamente in declino destinata a peggiorare ulteriormente la sua performance. A sua volta inserita nel più drammatico calderone del debito pubblico italiano, che nel 2024, secondo la Banca d’Italia, ha raggiunto la cifra record di 2.872,4 miliardi di euro.6

Cosa sta accadendo nell’economia sarda del primo ventennio del XXI° secolo?

3.2. La criticità delle criticità in Sardegna: la specializzazione in professioni a basso valore aggiunto.

Le imprese reggono l’urto della fase pandemica, con una lieve tendenza alla crescita, ma stentano a tornare ai livelli pre-crisi. Preoccupa maggiormente il mercato del lavoro, spia della struttura reale della nostra economia e dunque della natura delle nostre imprese. Ciò poiché i lavoratori sardi si differenziano principalmente da quelli della penisola e ancor di più dal resto dei paesi dell’UE, per due elementi negativi: il primo riguarda il minor numero pro capite di ore lavorate, che non riguarda tuttavia professioni ad alto valore aggiunto che giustifichino il trend; mentre il secondo riguarda i più bassi salari dei sardi rispetto ai concittadini della penisola. Anche pari al 10,6% in meno7, aspetto tanto più grave se consideriamo che i salari medi italiani risultano già essere tra i più bassi di tutta l’area Ocse. Sono cresciuti infatti appena dell’1%, tra il 1991 e il 2022, rispetto al 32,5% degli altri Paesi8.

Figura _ – Mettere titolo

Fonte:

A cosa si devono queste differenze? Secondo Bankitalia «L’economia sarda si caratterizza infatti per una maggiore specializzazione nei settori e nelle classi dimensionali di impresa con salari orari più bassi, quali i servizi ricettivi e ricreativi e le aziende di piccola dimensione. Nel confronto con l’Italia, è inoltre proporzionalmente più elevata la quota di occupati che ricoprono mansioni meno qualificate. Anche la maggiore prevalenza rispetto al resto del Paese di rapporti a tempo determinato e stagionali influenza il divario salariale a sfavore della Sardegna.»

La bassa produttività della nostra forza lavoro è dunque uno dei principali motivi dell’esiguità dei nostri salari, su cui pesano (micro)imprese, per la maggiore, tecnologicamente arretrate e scarsamente diversificate verso altri settori. Imprese che, oltre ad un generale carico fiscale elevato, scontano pure un nuovo problema dovuto al fenomeno del labour shortage. Ossia la difficoltà di trovare personale in quantità e qualità adeguato e formato per le esigenze dell’impresa. Un problema oggi relativamente comune anche al resto d’Italia, e non solo.

Siamo inoltre al paradosso per cui, da un lato le imprese cercano figure professionali adeguate alle mansioni richieste, ma per contro, dall’altro, a causa del peso di fisco e burocrazia, propongono sottobanco contratti che, seppur in linea con la contrattazione collettiva nazionale del lavoro italiano, dequalificano le mansioni del singolo lavoratore. Per cui, anche laddove si trovasse un candidato valido per una determinata azienda, e nonostante gli indubbi miglioramenti apportati dal jobs act, esiste la sommersa tendenza ad assumerlo come “principiante”, o di una categoria più bassa di quella posseduta, pur di risparmiare qualcosa in busta paga, orientando poi tale lavoratore sia all’esercizio delle sue effettive competenze, che di altre mansioni che esulano da tali competenze. Anche questo fenomeno contribuisce a generare un mercato del lavoro low cost, in cui il lavoratore appare sempre e comunque la figura più debole nel rapporto con i propri principali. A sua volta, inoltre, esposto alle periodiche ondate inflattive che erodono ulteriormente il suo potere d’acquisto9.

3.3 Una economia poco produttiva.

L’Istat pone la Sardegna al penultimo posto d’Italia tra le Regioni per tasso di produttività. I Comuni sardi ospitano un tessuto del lavoro mediamente più produttivo della sola Calabria, vedere tabella al seguito:

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(Pag. 3, dati rispetto alla media nazionale italiana, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, a. 2018, Roma, Istat, 30-12-2020).

La Sardegna risulta inoltre essere agli ultimi posti tra le Regioni nella capacità di attirare investimenti da multinazionali estere, a conferma dell’inefficienza generale del sistema Sardegna in ambito economico. Risultati confermati dall’Istat anche nel successivo rapporto del periodo 2020/21.

Figura _ – Investimenti esteri nelle diverse regioni italiane

Fonte: Il grafico mostra la quota di valore aggiunto sul totale per tipologia di unità locale e Regione nel 2018, a valori percentuali, in rapporto risultati economici di imprese e multinazionali a livello territoriale, Roma, Istat, 30-12-2020, p. 6).

Per comprendere da cosa derivi la bassa produttività del sistema economico sardo occorre soffermare l’attenzione sul capitale umano, come si evidenzia nel punto successivo.

3.4. L’obiettivo fondamentale di innalzare la qualità del capitale umano.

La scarsa formazione del nostro capitale umano rappresenta la base di tutti i principali problemi attorno a cui si è avvitata la società sarda. E non riguarda solamente cittadini, lavoratori e imprese, ma anche la classe dirigente, e precisamente il ceto politico chiamato a risolvere quegli stessi problemi di cui, tuttavia, è espressione. Basti un dato su tutti, in Italia, limitandoci ad un range di età di persone tra i 25 e i 34 anni, le persone dotate di una laurea sono appena il 29.2%, contro il 40.5% della Polonia, per intenderci, e il 50.4% della Francia.

La situazione peggiora ulteriormente se osserviamo la fascia di età adulta dai 55 ai 54 anni, in cui i laureati italiani scendono al 12,4% (Dati OCSE 2022).

Il problema genera a sua volta un limite di mismatch tra domanda e offerta di lavoro, con la conseguenza che, in un territorio in cui per la maggiore si sono sviluppate imprese a basso valore aggiunto, come la Sardegna, persino i laureati si trovano nella condizione per cui dovranno accettare in loco un lavoro inferiore alla propria formazione (nell’isola si tratta del 25,9% di occupati). O in ogni caso un lavoro per cui non sono sufficientemente formati. In entrambi i casi raccogliendo un salario medio-basso. (Pag. 112, Istat-BES 2022, Roma, 2023)

Per essere più precisi ed avere un’idea dell’entità della situazione, è necessario osservare i dati della Sardegna, che la collocano agli ultimi posti d’Italia (e d’Europa) per formazione dei propri giovani, unitariamente alla bassa performance della nostra istruzione, che non in rari casi tende ad attestare falsamente titoli su competenze che i maturandi in realtà non posseggono. L’indice Istat-BES indica che nel 2022 appena il 54,6% dei sardi di età compresa tra i 25 e i 64 anni possiede una qualifica o un diploma secondario superiore. Per intenderci, contro il 72% della Provincia Autonoma di Trento.

Figura _- Popolazione con educazione superiore

Fonte: Dati OCSE 2022 Occorre mettere il documento e il link

La Sardegna si trova al terzo posto, dietro Sicilia e Campania, per abbandono scolastico precoce, ed al primo posto d’Italia per l’abbandono scolastico maschile (pari al 20,7% di defezioni). I nostri giovani si trovano anche al 5° posto d’Italia tra le Regioni con maggiore incompetenza alfabetica, e al 4° posto d’Italia nella maggiore incompetenza numerica. E ciò ci porta ad una domanda conseguente, ossia, quanti sono i laureati in discipline tecnico-scientifiche (STEM) oggi indispensabili per tenere il passo con la crescita? Appena il 13,5% del totale. Un numero pericolosamente inidoneo a mandare avanti una società. (Pp. 77-86-95, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Eppure, i dati continuano a confermare che lo studio premia la capacità occupazionale. I sardi dotati di titolo di studio hanno un tasso di occupazione maggiore rispetto a chi si trova privo di formazione, con sfumature crescenti dal più basso al più alto gradino tra i due poli. Al 2022, nella fascia tra i 15 e i 64 anni, gli occupati tra chi ha titoli di studio medio-bassi si collocano al 54,6% degli uomini, e al 30,4% delle donne, mentre i diplomati uomini raggiungono il 69,6% e le donne diplomate raggiungono il 51,0%. Infine, i laureati, con gli uomini che raggiungono un tasso di occupazione pari al 79,8%, e le donne del 72,6%. Livelli in ogni caso inferiori alla media italiana, ma ampiamente indicativi del valore intrinseco della formazione.10

Ciò nonostante, in tutta Italia e nell’ultimo decennio, gli iscritti in discipline STEM sono cresciuti appena dell’1%, mentre rimane preoccupante il tasso di gender gap del sesso femminile. Ossia la minor propensione delle donne a scegliere tali branche del sapere, ed in seguito la modesta possibilità di trovare posizioni soddisfacenti nei rami ad hoc del mondo del lavoro.

(Nota Deloitte Italy S.p.a. su competenze STEM, Milano, 2024).

3.5. Quale contesto economico-culturale?

Di fronte ad uno scenario formativo a tinte fosche, come quello illustrato, Sardegna Federale pone al centro della sua azione la priorità dell’istruzione come pilastro essenziale della crescita. E purtuttavia, il contesto merita un ulteriore commento per capire l’eziologia della crisi in atto.

L’idea che studiare, letteralmente, “non serva” a nulla nell’isola rappresenta una vera e propria emergenza nazionale, sedimentata e ripetuta nel tempo per effetto combinato di vari fattori. Oggi sappiamo che un laureato STEM ha ben cinque punti percentuali di successo in più sul mercato del lavoro, con possibilità occupazionali che per l’intera media italiana raggiungono l’85,7%11. Eppure, l’isola sembra non tenere conto dei dati.

Storicamente, la Sardegna non ha mai conosciuto sensibili investimenti statali in istruzione, al punto che persino negli anni del boom economico italiano, il territorio è rimasto luogo di emigrazione verso terzi centri produttivi, come il Nord Italia, la Germania ed altri Paesi sviluppati. Infatti, in tempi in cui non esisteva l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i paesi ricchi erano meno numerosi e l’Italia era la “Cina dell’Occidente”, con forza lavoro low cost, larga parte della ricchezza prodotta nell’isola è derivata dal settore pubblico e dalle rimesse degli emigrati concentrati in tali poli industriali. Denaro confluito spesso irresponsabilmente non verso nuove iniziative imprenditoriali, per cui non vi era formazione né infrastrutturazione adeguata, ma verso un miglioramento del tenore di vita, grazie a maggiori consumi, e verso investimenti nel mattone, con conseguente deprezzamento del valore degli immobili in tempi in cui il territorio si è avviato ad una progressiva fase di spopolamento.

Pertanto, un’economia tecnologicamente arretrata come quella sarda, salvo note eccezioni, non richiedeva personale particolarmente qualificato, né si comprendeva che proprio una qualificazione di maggior livello avrebbe consentito di far sviluppare in loco nuovi investimenti che si portassero al di fuori del classico settore primario (agro-allevamento, peraltro assistito), e dai servizi (oggi prevalentemente rivolti alla stagionalità turistica), con esigue note di merito nell’industria, nelle manifatture e nel terziario avanzato. Studiare veniva e viene dunque erroneamente percepito come “un esercizio superfluo, che non muta sensibilmente le condizioni reddituali” del singolo individuo, e che, in modo abbastanza proverbiale, tale impegno “sottragga braccia all’agricoltura”.

Le nuove generazioni sarde hanno parzialmente ereditato la ricchezza citata, per un verso derivante da rendite di posizione ottenute da trasferimenti pubblici, e per altro verso dal duro lavoro delle generazioni precedenti, che ha migliorato i consumi a vantaggio delle famiglie, le quali si sono adagiate nella stagnazione e nell’immobilismo, con giovani che possono permettersi di stare nella casa dell’infanzia molto più a lungo dei propri genitori, che invece avevano necessità di entrare presto nel mercato del lavoro (non a caso la Sardegna si posiziona nel cluster delle Regioni più problematiche con alta presenza di NEET, cioè individui che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego, pari al 21,4% dei giovani).

In Sardegna sono appena il 4% gli scienziati e ingegneri presenti in rapporto alla popolazione attiva, mentre il settore privato investe per appena il 14% in ricerca e sviluppo, la più bassa quota d’Italia, pari ad appena 289 milioni di euro.12

La politica assistenziale ha ulteriormente aggravato il fenomeno, sacrificando la meritocrazia a vantaggio del clientelismo, contribuendo così a generare un contesto culturale in cui la competenza diventa un mero orpello simbolico di una società in realtà basata sulla cooptazione. E danneggiando infine, per diretta conseguenza, l’efficienza generale dei servizi offerti a cittadini e imprese.13

().

Da ciò ne deriva un contesto culturale ed economico cronicamente in ritardo con lo sviluppo, e perennemente esposto al rischio di povertà, con redditi medi inferiori a quelli della maggior parte delle Regioni italiane. La Sardegna ha un reddito lordo pro capite di 16.859 euro annui, contro, per capirci, i 23.862 della Lombardia e i 26.296 della Provincia di Bolzano. (https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-bes-2022-il-benessere-equo-e-sostenibile-in-italia/ Pp. 87-126, Istat-BES 2022, Roma, 2023).

Da considerare poi che ad aggravare ulteriormente il nostro quadro si uniscono terzi fattori capaci di incidere sensibilmente sulla qualità della vita dei sardi, i quali detengono primati poco invidiabili. Tra questi, uno dei maggiori tassi di suicidi di tutta la Repubblica, pari all’8,25%, dietro solamente alla Provincia di Trento (9,75%)14. Ed uno dei maggiori tassi di alcolismo nella popolazione di età compresa tra i 18 ed i 69 anni, pari al 66,2% del biennio 2021-2215.

3.6. Gli interventi per potenziare il mercato del lavoro e il tessuto produttivo

In un territorio in cui la popolazione inattiva cresce rispetto a quella attiva, investire in produttività (per compensare il calo della forza lavoro), ed accrescere l’immigrazione, possibilmente qualificata, con un’oculata politica di controllo dei flussi, sono certamente strumenti utili ad arrestare il declino.

E perché puntare su questi argomenti? Perché grazie agli studi del Nobel per l’economia Robert Solow (1924-2023) e dei suoi successori, tra cui N. Gregory Mankiw, sappiamo che l’innovazione tecnologica è uno dei fattori principali che determinano la crescita di ricchezza di una nazione. L’innovazione porta ad un aumento della produttività, produttività che a sua volta genera un incremento dei salari.16

Al problema salariale e in generale alla rigidità del nostro mercato del lavoro occorrerebbe inoltre rispondere con una decentralizzazione della contrattazione collettiva, rimuovendo così l’aberrazione per cui in Italia, da nord a sud, territori con diverso livello di produttività e diverso costo della vita, debbano tenere un identico livello di remunerazione per i lavoratori. Una differenziazione contrattuale, inoltre, con la crescita della produttività, agevolerebbe anche la crescita dei salari.17

Si tratta di processi che oggi larga parte dei sardi, a partire da politici e “intellettuali”, sfortunatamente ignorano, puntando blandamente su settori che non garantiscono affatto una riscossa dell’isola.

3.7. La fiscalità e la questione del “cuneo”.

Tra i vari fattori che penalizzano il mercato del lavoro locale, ma anche i bassi investimenti delle nostre imprese e soprattutto gli investimenti stranieri nel territorio, pesa indubbiamente il cuneo fiscale. Una responsabilità primaria dello Stato su cui purtroppo ad oggi la Regione non ha un’autentica voce in capitolo. Un peso, peraltro, non giustificato dall’esistenza di efficienti servizi pubblici statali, come invece accade in altri Paesi dell’area OCSE.

A tal proposito, il rapporto OECD Taxing Wages 2024 evidenzia che il cuneo fiscale italiano, per un lavoratore single, senza figli e percettore di retribuzione media, è salito nel 2023 al 45,1%. Al quinto posto tra i paesi dell’area; di 10,3 punti percentuali sopra alla media OCSE, calcolata nel 34,8% del costo del lavoro.

Osservando i singoli elementi che compongono il cuneo, si registra che l’Italia si colloca al 4° posto tra i paesi OCSE per i contributi sociali a carico del datore di lavoro; al 12° per le imposte sui redditi del lavoratore ed al 31°, in via temporanea, per i contributi sociali a carico del lavoratore.18

La situazione non migliora neppure quando spetta a Stato ed enti locali pagare i fornitori privati di beni e servizi, mettendo in difficoltà soprattutto le PMI, che non vedono ripagato in tempi brevi il frutto del proprio lavoro. La burocrazia del mezzogiorno appare più lenta nel soddisfare tali pagamenti, con l’intera Pubblica Amministrazione che al 2023 ha cumulato un debito commerciale di circa 50 miliardi di euro. Tra i ritardatari, ben 9 ministeri su 15. Sul podio, la maglia nera spetta a quello del Turismo, con un ritardo di 39,72 giorni, seguito dall’Interno, con 33,52 giorni di ritardo, e Università, con 32,89 giorni di ritardo.19

3.8. Spesa pubblica sul PIL.

Due domande fondamentali a cui è necessario trovare risposta sono le seguenti:

  1. Quanto spendono le istituzioni nell’isola?
  2. Qual è il volume di spesa pubblica?

La Ragioneria Generale dello Stato, dipartimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si occupa di elaborare periodicamente una stima regionalizzata di tale impegno finanziario.20

Per la Sardegna, lo Stato ha impiegato nel 2022, al netto degli interessi sul debito pubblico, 11 miliardi e 360 milioni di euro. Pari a 7.177 euro per abitante, con un rapporto del 32,88% sul PIL. Quest’ultimo, il valore più alto d’Italia, smentisce anche la tesi di quanti giudicano insufficienti i trasferimenti economici per l’isola. Senza neppure considerare che, in termini di consumi, gli stipendi erogati dalla pubblica amministrazione in loco hanno un peso maggiore rispetto alle Regioni del centro-nord, gravate da un costo della vita più alto. Bisogna infatti considerare anche la spesa, capitolo a parte, destinata ad Enti e Fondi pubblici, ed una quota di spesa non regionalizzabile (che al dato lordo per le Regioni si attesta ad un totale di oltre 488 miliardi di euro, pari ad un ulteriore 15,93% sul PIL), più la spesa delle autonomie locali.

Ad offrirci un quadro complessivo della drammatica situazione dell’isola c’è lo studio dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani, per cui, nella media degli anni 2014-2016, ed includendo la spesa pensionistica, il peso della spesa complessiva sul PIL regionale raggiunge il 68%, a fronte del 45% di entrate. Al secondo posto in Italia dopo la Calabria per negatività della performance.21 Il che conferma un’isola in cui la maggior parte dell’economia reale dei cittadini viene intermediata a vario titolo dal settore pubblico e che brucia più risorse della capacità di creare e riprodurre ricchezza da parte dei sardi.

Oltre a ciò, bisogna aggiungere che parte della spesa pubblica destinata all’isola, derivante da trasferimenti esterni, non viene neppure programmata e spesa integralmente. Osserva in proposito il Crenos: «I risultati mostrano come la buona riuscita degli investimenti pubblici dipenda dalla qualità istituzionale degli enti locali, confermando le recenti denunce di sindaci e amministratori locali del Mezzogiorno. In diversi sostengono, infatti, che il loro personale sia numericamente insufficiente e non abbastanza specializzato per poter gestire adeguatamente le risorse pubbliche in arrivo. Lo studio ha confermato la scarsa efficienza delle istituzioni locali del Mezzogiorno: la loro bassa qualità rischia dunque di mettere a repentaglio la realizzazione di numerose politiche di sviluppo fondamentali per la crescita e la resilienza delle regioni economicamente più fragili.

L’analisi dei dati sugli investimenti pubblici ha mostrato una forte dipendenza delle regioni del Mezzogiorno, e in particolar modo della Sardegna, dalle amministrazioni pubbliche per la realizzazione di investimenti. I soggetti centrali assumono un ruolo fondamentale nella realizzazione degli investimenti nel Mezzogiorno suggerendo una scarsa capacità di investimento degli enti locali. La scarsa qualità istituzionale delle regioni del Mezzogiorno rischia di compromettere la realizzazione di importanti politiche pubbliche future22

Ancora in itinere, inoltre, lo sviluppo della connessione internet nelle varie aree dell’isola, nell’era della rivoluzione IA, con le conseguenti ricadute economiche di mancata convergenza economica verso le Regioni più sviluppate. Osserva il Crenos: «Analizzando i dati forniti dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, emerge non solo un’Italia a due velocità, ma anche una Sardegna che fatica a non lasciare indietro le aree interne e meno popolate, già economicamente svantaggiate e da tempo in forte declino demografico. L’ultimo dato rilasciato dall’AGCOM (2023) indica che la percentuale di famiglie sarde raggiunte dalla connessione FTTH (fibra) è del 39,2%. La copertura è distribuita in modo molto disomogeneo, concentrandosi principalmente, se non esclusivamente, nell’area del Cagliaritano, dove raggiunge il 77%. In netto contrasto, nelle province del Sud Sardegna, Nuoro e Oristano, la percentuale di copertura scende drasticamente, variando tra il 17% e il 19%. Per quanto riguarda la provincia di Sassari, il tasso di copertura è leggermente migliore e pari al 37%. Ad ulteriore conferma della disparità territoriale, Sud Sardegna, Oristano e Nuoro sono le ultime tre province italiane per copertura di FTTH, mentre Cagliari si trova nella top 10. La Sardegna risulta quindi la penultima regione italiana per tasso di copertura FTTH, seconda solamente alla Calabria (36%), con una copertura nettamente inferiore sia alla media nazionale (59,1%) che a quella del Mezzogiorno (58%)».23

3.9. Un popolo in pensione.

Sul versante della spesa pubblica, le pensioni rappresentano indubbiamente uno dei nostri maggiori talloni di Achille, non solo perché la loro totalità non riguarda residenti che percepiscono pensioni maturate da regolari versamenti contributivi, ma anche da pensioni retributive, sociali e assistenziali a vario titolo.

Al 2022 la Sardegna registra ben 649.000 pensioni, rispetto a 566.000 occupati (ossia persone che versano dei contributi al sistema previdenziale). Un saldo negativo di 83mila soggetti, che giustifica anche in parte il nostro residuo fiscale negativo in termini di trasferimenti pubblici a favore del territorio.24

Secondo i dati offerti dall’INPS, nel totale delle nostre pensioni, ben 112.853 riguardano pensioni di dipendenti pubblici25. E si tratta di uno dei fattori che evidenzia le maggiori capacità di consumo dei cittadini sardi rispetto a Regioni maggiormente produttive della nostra, benché il processo di invecchiamento demografico rappresenti un trend comune all’intera Italia e a tutto l’Occidente.

Il dato strutturale, al di là di ogni contingenza e congiuntura economica periodica, evidenzia l’insostenibilità corrente del nostro welfare.

3.10. Spopolamento, denatalità e opportunità tra Sardegna e Singapore.

All’insostenibilità del nostro welfare concorre peraltro il drammatico fenomeno dello spopolamento e della denatalità, problemi comuni ai paesi più sviluppati, ma particolarmente incisivi nelle aree che presentano problemi economici strutturali come la nostra.

La Sardegna è la regione con la fecondità più bassa. Stabilmente collocata sotto il livello di un figlio per donna, nel 2023 si posiziona a 0,91 figli (in calo rispetto allo 0,95 del 2022). In parallelo, la performance della popolazione residente registra ancora dati negativi, perché le regioni in cui se ne è persa di più sono la Basilicata (-7,4 per mille) e la Sardegna (-5,3 per mille). Al 2023 inoltre la nostra isola si colloca sempre sotto la media della speranza di vita tra le regioni: -7° posto per i maschi, e -2° posto per le femmine.26

Ciò nonostante, malgrado il destino incerto e di declino a cui la realtà sarda pare proiettata, esistono al mondo contesti in cui il tasso di popolazione residente non desta particolari preoccupazioni per la tenuta della stabilità economica. Si pensi al caso di Singapore, Stato insulare divenuto indipendente e completamente privo di risorse, ed oggi balzato in testa a tutti i maggiori indici di sviluppo internazionali.

Tra i maggiori centri finanziari del globo, la fortissima economia della città Stato ha conquistato una popolazione composta per il 43% da persone di origine straniera, capace di attirare un’alta densità di investitori e milionari, ma anche una variegata composizione etnica di lavoratori e basso valore aggiunto, per lo più impiegati nel settore dei servizi.27 Quest’ultima fascia sociale costituisce attualmente il maggior tallone d’Achille del contesto singaporiano, e attualmente oggetto di dibattiti da parte delle forze politiche locali.28

In questa sede l’esempio serve a evidenziare quanto una maggiore sovranità ed una maggiore libertà economica, abbinata ad una sapiente politica immigratoria (civic liberal nationalism), consentano di rendere appetibile un territorio ben oltre le singole capacità della popolazione originaria. In altri termini, qualora la Sardegna lavorasse per accrescere la propria formazione, le proprie competenze, e conquistasse maggiori poteri nell’ambito delle leve fiscali e burocratiche, potrebbe limitare i danni oggi derivanti da un tessuto sociale locale alle corde e scarsamente orientato ad immaginare un futuro di benessere in Sardegna.

3.11. Una fotografia del presente.

Nell’isola esiste ancora uno spettro ben tangibile, la povertà. In base ai dati dell’Indagine sulle spese delle famiglie dell’Istat, nel 2021 – ultimo dato disponibile – la quota di famiglie sarde in povertà assoluta è stata stimata nel 7,8%, poco superiore alla media nazionale (7,5 per cento). A dicembre 2022 gli individui appartenenti ai nuclei beneficiari di Reddito di Cittadinanza in Sardegna erano circa 75.000, in parte successivamente convertiti in assegni di inclusione.29 Mentre la ricchezza pro capite dei sardi si è attestata a circa 143.000 euro, inferiore ai 176.000 euro della media italiana. (pag. 32)

A mandare avanti un siffatto contesto tra luci ed ombre ci pensa oggi anche la spesa degli enti territoriali, che vale la pena osservare.

Sul piano istituzionale, nel 2022 la spesa primaria totale degli enti territoriali (al netto delle partite finanziarie) è stata pari a 7,7 miliardi di euro. In termini pro capite è ammontata a 4.930 euro, inferiore alla media delle RSS ma superiore alla media nazionale; poco meno del 90% delle erogazioni è rappresentato dalla spesa corrente al netto degli interessi (spesa corrente primaria). (Pag. 47).

Per capire come sono state utilizzate queste risorse è utile fare riferimento alla Tabella che segue

Tabella _ – Spesa degli enti territoriali nel 2022 per natura

Nel 2022 i costi della sanità hanno continuato ad aumentare, seppur in misura più contenuta rispetto all’anno precedente (tav. a6.15). L’incremento è dipeso soprattutto dalla spesa in convenzione (2,6 per cento rispetto al 2021), mentre si sono ridotte le spese relative al personale (dell’1,2 per cento), per effetto del calo di organico nel comparto medico e infermieristico. Parallelamente, la spesa per l’acquisto di collaborazioni e consulenze sanitarie esterne, rafforzatesi significativamente nel 2020 in risposta all’emergenza sanitaria, ha continuato a mantenersi elevata: nel biennio 2021-22 la sua incidenza, rapportata al totale del costo del personale, ha raggiunto il 6,5 per cento, crescendo di 2,6 punti percentuali rispetto agli anni 2012-13.

A fine 2021 la dotazione di infermieri e di personale medico risultava in regione inferiore non solo ai valori antecedenti la pandemia, ma anche a quelli del 2011, nonostante l’ampio ricorso alle forme contrattuali diverse da quella a tempo indeterminato. Nello stesso periodo sono cresciute invece le consistenze dell’altro personale sanitario e del ruolo professionale, anche qui per la crescita delle forme contrattuali a termine. (Pag. 56).

Tabella _ – Costi del servizio sanitario

Gli incassi correnti della Regione sono stati pari a 5.064 euro pro capite, nella media del triennio 2019-21 le entrate correnti erano riconducibili per il 6,0% all’addizionale all’Irpef, per il 2,3 all’IRAP e per l’1,0 alla tassa automobilistica. (Pag. 57). In Sardegna nel 2021, ultimo anno di disponibilità dei dati, le entrate pro capite accertate, ossia quelle che gli enti si aspettano di incassare nell’anno, sono state inferiori alla media nazionale per tutti i tributi considerati. La differenza tra il gettito pro capite regionale e quello italiano ha risentito sia delle più contenute basi imponibili, in ragione delle peggiori condizioni socio-economiche del territorio, sia della minore aliquota effettiva applicata ai diversi tributi. (Pag. 59).

3.12. L’urgenza di contrastare la malapianta del populismo.

Una delle conseguenze principali dei ritardi della Sardegna è che la politica cerca di affrontarli secondo l’armamentario classico del populismo. Ossia attraverso la tendenza a scaricare ogni responsabilità su cause esterne (che in parte ci sono), evitando di confrontarsi con le proprie, pur di preservare il potere ed i privilegi da esso derivanti, ed alimentando tattiche dilatorie per rimandare a data da destinarsi ogni necessaria riforma. Per cui, l’abuso verbale e mai sostanziale del principio di sussidiarietà, di perequazione e di solidarietà tra Regioni, sancito dalla Costituzione, diventa la foglia di fico con cui giustificare l’immobilismo nel dibattito sulle aberrazioni della nostra finanza pubblica, anestetizzando nel contempo i pochi passi riformistici concessi dalla stessa Costituzione: si pensi, per esempio, ai frequenti tentativi, anche da parte di intellettuali e accademici organici al potere politico, di attribuire colpe alle Regioni settentrionali, accusandole di “avidità”, ignorando i deficit del nostro capitale umano, solleticandone i bassi istinti e facendo ricorso ad una retorica che tende a promuovere solo diritti in luogo dei doveri.

E così, ignorando i generosi trasferimenti delle Regioni settentrionali, tanti sardi finiscono spesso per accusarle di “scarsa solidarietà”, o di subdoli tentativi di minare le radici dell’impianto costituzionale a nostro sfavore. Né si tiene conto del fatto che tali Regioni oggi pagano un progressivo deficit di competitività sui mercati internazionali, zavorrate da un pesante obbligo di solidarietà verso territori della Repubblica che poco o nulla fanno per migliorare l’efficienza delle proprie istituzioni e della propria economia. Il nord frena verso il basso, con un tasso di crescita reale del PIL italiano passato dal 6,7% della seconda metà degli anni ’90, all’1,4% nel primo decennio del nuovo secolo, allo 0,6% degli ultimi 10 anni.30

Politiche nettamente diverse vengono invece attuate in Stati e isole, anche e soprattutto minori, muniti/e di sovranità. E non solo perché tra le prime dieci economie del mondo vi sono anche paesi piccoli, come ci hanno insegnato studiosi del calibro di Leopold Kohr e Alberto Alesina, ma anche perché diversi recenti studi e ampie evidenze empiriche suggeriscono che territori minori amministrati da istituzioni dimensionalmente contenute presentano una serie di vantaggi. Il sociologo maltese Godfrey Baldacchino ha riassunto il contesto mediante un’efficace sintesi della loro natura: benché contrassegnati da rilevanti elementi di criticità e vulnerabilità, si mostrano ampiamente resilienti, perseveranti, abilmente opportunisti e dinamici, in grado di offrire ottime possibilità di investimento finanziarie, in ordine sia alla capacità di attirare capitali, che di sfoltire la burocrazia ai fini del radicamento e dello sviluppo delle imprese.31

Oltre a ciò, la politica e, in generale, lo Stato, non si pongono il problema dei “residui fiscali”, negativi per il centro-sud, tra cui la Sardegna, che per tenersi in piedi, infatti, spende più ricchezza di quella prodotta. E dunque i vertici amministrativi non si occupano di analizzare le causali del fallimento delle politiche redistributive a vantaggio di una parte del Paese, derubricando il problema del cronico assistenzialismo come un mero problema di deficit di capacità fiscale dei singoli contribuenti, a prescindere dalla diversa capacità fiscale del territorio in cui sono ubicati.32

Bisogna inoltre considerare, che a fronte di un residuo fiscale negativo, pari a 3.681 euro pro capite dei sardi, pari a 5.773.004.325 miliardi di euro, occorre valutare il dato sulla base di una potenziale e differente ripartizione delle entrate, ed una potenziale differente ripartizione delle spese.

Questo significa che una diversa strutturazione del fisco sardo ed una diversa composizione della spesa pubblica, potrebbero determinare un residuo fiscale pro capite nettamente inferiore al presente. Un esempio? Si potrebbe lavorare alla rimozione delle spese per corpi, enti e agenzie istituzionali le cui funzioni rappresentano autentici doppioni, razionalizzandone la spesa in un’unica struttura.33

3.13. La retorica dell’insularità in Costituzione.

Anche la retorica dell’insularità, che in realtà cela la solita povertà culturale dell’assistenzialismo, rientra nella dinamica vittimistica poc’anzi illustrata. L’idea che basti avere nella Costituzione la parola “insularità”, oltre alla manifesta ingenuità, nasconde la volontà di reclamare più trasferimenti pubblici dallo Stato centrale, ignorando uno storico precedente giuridico.

Un aspetto singolare, infatti, del cosiddetto “comitato scientifico” sardo che ha promosso il progetto di insularità in Costituzione non ha tenuto conto del fatto che tale strumento è già esistito. La Costituzione italiana infatti ha riconosciuto il principio di insularità sino alla riforma del Titolo V° avvenuta nel triennio 1999-2001. Così recitava il terzo comma dell’articolo 119:

«Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il mezzogiorno e le isole, lo Stato assegna per legge a singole regioni contributi speciali».

Il testo è stato riformato nei seguenti termini:

«La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insu-larità».34

Nonostante la mole di contenziosi Stato-Regioni affrontato negli anni dalla Corte Costituzionale a causa della complessiva riforma del Titolo V°, il novellato art. 119 non rappresenta un evidente miglioramento rispetto alla vecchia versione, per due ragioni principali:

  • la prima è che, pur non risolvendo il problema dei divari economici del Paese, permane il principio secondo cui esisterebbero precise aree atavicamente considerabili come arretrate in luogo di altre, al punto da meritare una costante elargizione di sussidi;
  • la seconda è che, quantomeno, in ragione del primo motivo, si è scelto di istruire il principio di coesione sociale e territoriale estendendolo indistintamente a tutte le Regioni (e non solo) suscettibili di manifestare periodi di difficoltà. Questo concetto ammorbidisce, ma non rimuove, l’ottica assistenziale presente nel vecchio articolo, introducendo un approccio più attuale al lavoro di perequazione svolto dallo Stato centrale.

La Costituzione italiana emersa nel 1948 non chiariva tali aspetti, pur garantendo analoga tutela giuridica dei territori insulari, e pur essendo meno chiara della Costituzione spagnola, che include il concetto di insularità nella carta.

Pertanto, alla luce di tali argomenti, è lecito domandarsi: c’è stata una tutela maggiore dell’isola da parte dello Stato sino al 2001?

La complessa e articolata vicenda relativa, ad esempio alla vertenza entrate, financo ai programmi di continuità territoriale, dimostrano che prima del 2001 non vi è stata alcuna differenza di trattamento rispetto al presente. E d’altra parte, solo una certa dose di demagogia e superficialità politica potrebbe pensare che inserire una semplice parola – “isola” – in una carta costituzionale, possa automaticamente cambiare le sorti di quest’ultima. Le cui condizioni di sviluppo dipendono da una vasta serie di variabili, non tutte imputabili al dettato costituzionale, che sono di natura storica, geografica, culturale ed economica. Se così non fosse, tutte le aree insulari del globo si troverebbero, ipso facto, in condizioni economiche disagiate e assistite da terzi centri amministrativi maggiori. Si pensi a Taiwan, o in particolare al Regno Unito, dalle cui isole scaturì un impero di dimensioni globali, senza il minimo supporto degli Stati continentali.

Sul piano scientifico, inoltre, il paper di Marlene Jugl, Finding the golden mean. Country size and the performance of national bureaucracies35, ci suggerisce che la quantità dell’intervento pubblico non è necessariamente connessa alla qualità dei servizi erogati ad una data popolazione. Ma nonostante tali evidenze scientifiche, esistono persino giuristi e costituzionalisti italiani che si affannano a sostenere il contrario, ideologicamente allineati al mito dell’unità istituzionale, senza una ponderata valutazione della sua bassa efficienza.36

Pertanto, quantificare i deficit economici dell’insularità, come paravento per ignorare diritti vigenti e articolati processi riformistici, diventa un mero esercizio statistico che porta automaticamente alla fallace idea – peraltro diffusa nella politica italiana – secondo cui un territorio disagiato avrebbe solamente bisogno di più attenzioni e di più spesa pubblica da parte dello Stato centrale. In quest’ottica, come noto, non solo la Sardegna ma l’intero mezzogiorno italiano avrebbe già sperimentato da anni degli interessanti tassi di crescita, che invece non si sono verificati.37

Alla Sardegna non servono più sussidi ma più responsabilità. Ossia maggiore autogoverno, da cui derivano sia diritti che doveri. Ad esempio, il diritto ad un fisco a misura di imprese, e il dovere di non reclamare soldi allo Stato o ad altre Regioni se si sperperano i propri. Che ciò avvenga tramite una difficile riforma federale dello Stato, o tramite una difficile indipendenza della Sardegna, non cambia la sostanza dei problemi, ma sicuramente incide nella retorica nazionalista di chi vuole conservare istituzioni obsolete e inefficienti.38

3.14. Quale modello istituzionale vogliamo?

Sardegna Federale immagina un graduale impegno riformistico, che, legislatura dopo legislatura, porti la politica a revisionare tanto la cultura, quanto le istituzioni espresse dalla nostra società.

Il modello di riferimento, sulla scorta delle storiche intuizioni di filosofi come Giovanni Battista Tuveri, od economisti come Giuseppe Todde, è quello rappresentato dalla Confederazione Elvetica. Ma ben sappiamo tuttavia quanto la Svizzera sia lontana, culturalmente parlando, dalla tradizione politica italiana, basata quest’ultima su un centralismo amministrativo di derivazione franco-sabauda. A sua volta basato sul culto di un nazionalismo ottocentesco, tipico degli Stati-nazione sorti all’epoca. E bisogna pertanto distinguere, nel nostro contesto, l’ideale dal concreto, e il concreto dal possibile.

L’ideale guarda ad un’Europa, un’Italia ed una Sardegna che si avvicinino quanto più, a seconda delle rispettive differenze, ad istituzioni federali, in cui il potere sia attribuito al livello più vicino alla popolazione. Va da sé che, per materie di interesse generale e ampio (come per esempio moneta, difesa, trattati internazionali), è più efficiente ed efficace, hic et nunc, che le competenze siano attribuite al livello europeo, sottraendolo ai singoli stati nazionali come oggi li conosciamo. Questa dinamica innescherebbe comportamenti virtuosi sia nell’amministrazione della spesa pubblica che degli investimenti in ricerca. L’uso del condizionale è d’obbligo perché non esistono ricette magiche in grado di portare automatici sviluppi socio-economici per tutti. Esiste però sicuramente lo strumento, il federalismo appunto, che può consentire la capacità di rimuovere centri di governo e di potere lontani dai cittadini e dalle loro esigenze, affrontando un’ampia gamma di criticità in vari ambiti. Come suggerisce il sociologo Gianfranco Bottazzi, il mutamento non è altro che un processo sistemico, in cui pertanto la modernizzazione comporta cambiamenti in tutte le dimensioni del sistema sociale.39

3.15. Dall’indipendenza all’interdipendenza e all’inter-indipendenza.

Un’Italia formata da Regioni con poteri simili ai Cantoni elvetici sarebbe auspicabile, in cui lo Stato limita la propria presenza nella sfera pubblica a poche materie, in concerto con i partner internazionali, tra cui, per esempio, la Difesa. A sua volta, la Sardegna potrebbe sviluppare una struttura confederale, in cui ogni subregione storica, dalla Barbagia alla Gallura, possa sviluppare un proprio fisco, competitivo con le proprie vicine, e in grado di attrarre investimenti a seconda delle esigenze del proprio contesto. Per esempio, più basso nelle regioni interne, più equilibrato nelle regioni costiere.

E sarà solo in un simile quadro normativo che i sardi potrebbero sviluppare maggiore capacità deliberativa, decidendo direttamente su materie di pubblica utilità, in modo tale che non danneggino il proprio futuro allargando le maglie del debito pubblico. Un problema invece ben diffuso nel presente, in cui la spesa pubblica, come sosteneva il Nobel per l’economia James M. Buchanan, pare essere di tutti e di nessuno, avvantaggiando unicamente i professionisti della politica che la gestiscono irresponsabilmente. Un po’ per perpetuare il proprio potere, un po’ per assecondare l’irresponsabilità e l’analfabetismo economico-finanziario del proprio elettorato.40

In un mondo sempre più interconnesso, e nel quadro delle istituzioni UE, il potere è e sarà sempre più ripartito in termini verticale in luogo di un esercizio esclusivamente o prevalentemente orizzontale. La sovranità diventerà dunque uno strumento dei popoli sempre più diffuso e diluito nei territori, ma che oggi, ben lungi dall’essere configurata in tali termini, deve essere riformata, seppur per passi graduali. Un processo che potrebbe richiedere anni.

Laddove poi l’Italia non riuscisse a liberarsi dei costumi più desueti, sarebbe diritto dei cittadini sardi battersi per una riforma delle istituzioni italiane in tal senso: o percorrendo un vero e proprio percorso che porti, dapprima ad una maggiore autonomia; e successivamente, tramite un referendum e degli irrinunciabili strumenti democratici, all’indipendenza della Sardegna nel quadro dell’Unione Europea, in accordo coi partner internazionali.41

Oltretutto, non manca un terreno di dibattito attorno ad una ulteriore varietà di questioni irrisolte.

Nondimeno occorre sottolineare che è proprio il principio di sussidiarietà che implica una frantumazione del potere in senso verticale non già sulla base di deleghe provenienti dal potere centrale ma considerando ogni livello di decisione autonomo e indipendente, per quanto coordinato con gli altri.

3.16. Servitù militari e posizionamento internazionale.

Il nodo delle servitù militari, i cui soli poligoni interessano una superficie di oltre 22.000 ettari, la più alta d’Italia tra le Regioni, a fronte di basse ricadute economiche per il territorio in rapporto ai fenomeni dell’inquinamento ad esse riconducibili rappresenta, a tutt’oggi, un vulnus non sopito, nonostante alcuni cambiamenti derivanti dopo il 2008 in termini di salvaguardia ambientale e ripristino dei siti oggetto di esercitazioni.42

Il problema fondamentale riguarda l’estensione di tali servitù, da ridiscutere con lo Stato e con i partner internazionali, riqualificando le infrastrutture che devono comunque garantire l’addestramento del nostro personale preposto alla sicurezza collettiva, secondo i migliori standard NATO, e i test di efficienza dei nostri strumenti/mezzi tecnologici preposti allo scopo. Nondimeno, occorre far sì che tali cambiamenti debbano avere anche delle ricadute di carattere civile e sociale sia in termini tecnologici che di qualificazione e riqualificazione del personale coinvolto

Reputiamo, peraltro, che la Sardegna, non possa in ogni caso rinunciare al suo posizionamento nell’ambito di un’architettura di sicurezza che vede nei valori della libertà e della salvaguardia dei territori, così come sanciti nel Diritto internazionale, i canoni della propria stabilità, anche al fine di prevenire ogni potenziale minaccia proveniente da regimi ostili e/o instabili in materia di politica estera e interscambi commerciali.

4. Il metodo sistemico come fondamento della costruzione di una nuova architettura politico-istituzionale efficace ed efficiente

4.1 L’utilità delle istituzioni

Il malcontento crescente verso le Istituzioni politiche, acclarato da una crescente disaffezione all’esercizio del principale diritto esistente nelle mani dei cittadini (il voto) porta alcune correnti di pensiero a teorizzare l’inutilità delle Istituzioni. Questo pensiero è poi alla radice di pubblicazioni che, nel mostrare tutte le contraddizioni e le debolezze degli ordinamenti che danno origine a queste Istituzioni, non si limitano a far prendere consapevolezza su tutto ciò (cosa buona e giusta) ma alimentano, più o meno volontariamente, fastidio, contestazione e, non raramente, odio, il quale ultimo non aiuta a prendere decisioni razionali.

Orbene, nel tentativo di fornire un contributo al dibattito, si è ritenuto utile dedicare uno spazio per rispondere alla domanda: servono le istituzioni?

Espressa con altre parole, questa domanda cerca di chiarire semplicemente se gli individui per soddisfare le proprie necessità umane possono fare a meno delle Istituzioni oppure se, invece, esse sono indispensabili e allora è un problema di come sono progettate, organizzate e attuate.

4.2 Il contributo della scienza economica

Era il 1937 quando Ronald Coase pubblicò nella rivista Economica un articolo intitolato “The nature of the firm”43. In questo suo lavoro di ricerca nell’interrogarsi sulla natura dell’impresa si domandava in sostanza che cosa ne giustificasse l’esistenza.

La sua conclusione è stata che le imprese esistono perchè svolgono una funzione che altrimenti i singoli individui (tutti noi che siamo il mercato) non potrebbero svolgere da soli. Ronald Coase introdusse questo tema contrapponendo i concetti di gerarchia (oggi possiamo chiamare questo concetto istituzione o organizzazione) e mercato. In sostanza, tutte le volte che qualcuno di noi ha bisogno di qualche cosa (che normalmente costa poco ed è prodotta in grande quantità) si rivolge al mercato. Se invece si tratta di beni e servizi specializzati, che richiedono competenze, ecc. allora preferisce internalizzare queste all’interno di un contesto organizzativo coordinato, quindi di un contesto istituzionale, chiamata impresa.

Estremizzando il discorso, se ciascuno di noi fosse in grado di produrre da sé tutto ciò di cui ha bisogno nella vita, non avrebbe bisogno di altri dai quali recarsi, chiedere, comprare, ecc. Analogamente, ci sono servizi che nessuno comprerebbe o che, per questioni di diversa disponibilità di risorse e opportunità qualcuno non si potrebbe permettere ma che sono indispensabili per avere determinati standard di civiltà (servizi sanitari, di smaltimento dei rifiuti, ecc.)

Orbene, a questo punto chiediamoci:

– siete in grado voi, da soli, di procurarvi l’acqua di cui avete bisogno?

– siete in grado voi di procurarvi, da soli, di ciò che ritenete utile per vestirvi, per viaggiare, per studiare, ecc.?

– siete in grado voi di allestire un sistema di smaltimento dei vostri rifiuti?

– come pensereste di viaggiare senza auto, moto, navi, aerei, ecc.?

– e se viaggiaste dove andreste a dormire, mangiare, ecc. se non ci fossero imprese che offrono questi beni e servizi?

– e chi vi dovrebbe curare se state male?

– in che modo compensereste chi vi cura se non avete beni e servizi da scambiare?

– e se siete malati e poveri e incapaci di lavorare come potreste sopravvivere se non c’è qualcuno che istituzionalmente si prende cura di voi?

Potremmo continuare all’infinito e se voi foste in grado di rispondere sì a queste domande, allora non ci sarebbe alcun motivo per creare istituzioni che costano. In questo senso, per esempio, non avremmo bisogno di istituzioni comunali, regionali, statali, internazionali. Ovviamente, vale il principio di efficienza in base al quale tutto ciò che posso fare da solo devo farlo da solo e ricercare forme di cooperazione, collaborazione e coordinamento con altre entità nel momento in cui riconosco che io da solo non posso fare una serie di cose o, in altre parole, servono risorse, capacità e competenze che io da solo non possiedo.

Si potrebbe pensare che tutto ciò serva a livello di piccole comunità mentre non ci sarebbe necessità di disporre di istituzioni internazionali come l’ONU o l’Unione europea, ma pure il World Trade Organization o il Fondo Monetario Internazionale o l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’idea di un mondo che torna alle sue origini, fatto solo di boschi, praterie, animali, ecc., dove ognuno vive nel suo piccolo spazio e si alimenta di cibo locale e degli animali del luogo è alquanto affascinante e bucolica ma, forse, non troverebbe i consensi necessari nel mondo. Né si può pensare che tutto ciò possa funzionare senza aver condiviso alcune regole base comuni. Ecco, quindi che gli uomini, nel corso della storia, hanno concepito istituzioni nel tentativo di creare condizioni per lo sviluppo di relazioni stabili, eque e positive per la vita di ciascuno. Mi si dirà che non hanno funzionato bene, che non funzionano bene, che sono state utilizzate da alcuni per finalità diverse da quelle per cui sono nate. Benissimo, si intervenga su questi aspetti ma non si proponga la distruzione delle stesse ritenendole aprioristicamente inutili o dannose.

Quindi, se le Istituzioni hanno una loro ragione di esistere, il problema non è distruggerle perché funzionano male, ma cambiarle e renderle efficienti. In altre parole, guardiamo con favore ad una “distruzione creativa”, pur opponendoci ad una distruzione tout court, che col federalismo non ha nulla a che fare.

In altre parole, se la distruzione di ciò che c’è, seppure con la giusta e corretta osservazione che quello che c’è, è limitante di molte libertà, non funziona bene, è soggetto a corruttela di varia natura in cui l’interesse particolare prevale su quello generale, ecc., si impone la necessità di un cambiamento.

Questo è un punto dirimente per chiunque voglia costruire una proposta politica alternativa all’esistente. Vogliamo cambiare la Costituzione italiana, vogliamo cambiare i Trattati dell’Unione europea, vogliamo cambiare lo Statuto di autonomia della Regione Sardegna, vogliamo contribuire a creare una società più giusta, equa, responsabile, dove ciascun individuo abbia la possibilità di affermarsi come tale e di collaborare con altri per comuni obiettivi e interessi.

Viceversa, Sardegna Federale ritiene che gli intenti di chi vorrebbe distruggere l’Unione europea, lo Stato italiano, e qualsiasi istituzione non corrispondono a un approccio razionale, soprattutto se, come è facile osservare, mancano di proposte alternative credibili e attuabili. Le istituzioni si mettono in discussione e si cambiano per migliorarle, non già per distruggerle tanto per distruggerle. Si tratta di idee (neppure di progetti) che non danno prospettive, che non hanno nulla che possa migliorare le condizioni di vita dei cittadini di questo mondo.

4.3 La teoria dei sistemi applicata alla organizzazione politico-istituzionale

Quanto indicato nei punti precedenti è il risultato dell’adozione di un metodo di analisi prima e di proposta poi, quello sistemico. Quest’ultimo, infatti, trae origine dallo studio della realtà fatta di parti in relazione tra loro. Non è un caso che alla base di tale metodo ci sia il concetto di “sistema”, cioè un insieme di parti interagenti tra loro, tale che ogni parte condiziona l’altra ed è da essa a sua volta condizionata. Un sistema, pertanto, è un fenomeno emergente dall’interazione tra le parti. Dal che si evince che, non tutti gli insiemi di parti sono sistemi.

Se queste parti di un insieme godono di un certo grado di libertà, come nel caso dei sistemi organizzativi e sociali (sistemi aperti) ciascuno dei quali ha una propria specifica identità, non è scontato che ci sia interazione e, se esiste, potrebbe anche assumere connotazioni negative, al punto che invece di generare valore, lo distruggono. Per questi motivi, in ambito organizzativo, sono i valori e gli obiettivi che favoriscono e guidano la costruzione dell’interazione tra le diverse identità interessate e, in base a questi, il sistema delle relazioni formali e informali che si genera per effetto dell’adozione di una appropriata struttura organizzativa che definisca funzioni, compiti e responsabilità.

Partire da questa premessa metodologica implica che alla base di ogni costruzione organizzativa di tipo sistemico ci sia l’individuo, la sua libertà e i suoi diritti inalienabili, il cui unico limite è rappresentato dall’impatto che il suo comportamento può originare in termini di pregiudizio alla libertà di altri individui come lui. A tale proposito, Karl Popper (1902-1994) abbracciava la tesi secondo cui: “ciò che esiste veramente sono gli uomini [..], in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. [..] Ciò che non esiste è la società [..]. Uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggior ideologia44.

Tutte le organizzazioni, comprese quelle politico-istituzionali nascono (o dovrebbero nascere) da una volontà di donne e uomini liberi che decidono di aggregarsi, si organizzano e si danno delle regole per interagire positivamente perseguendo comuni finalità, sapendo che queste relazioni sono dinamiche e, quindi, possono evolvere nel corso del tempo, rinforzarsi o indebolirsi se non adeguatamente gestite.

A questo punto sorge la domanda: cosa succede alle parti (sia individui che aggregati degli stessi) che intraprendono questo percorso di aggregazione? Si annullano e perdono di identità? Si annacquano nel sistema? Oppure continuano a esistere conservando ciascuna una propria identità, un proprio grado di libertà e un proprio ambito di competenza decisionale esclusiva?

La risposta, in questo caso è: dipende. Infatti, se avvenisse la scomparsa di una o più parti o il loro depotenziamento fino all’emarginazione significherebbe che una parte ha prevalso sull’altra e questa prevaricazione potrebbe avere diverse cause. Altrimenti, proprio perché le parti hanno concordato obiettivi comuni, ognuna di esse ha titolo e diritto per essere parte attiva del processo interattivo e, di conseguenza, ha titolo per conservare la propria identità e un proprio grado di libertà, pur all’interno di un processo di progressiva aggregazione.

In altre parole, quanto testé evidenziato mostra come l’emergere del sistema possa derivare, alternativamente, da processi di integrazione per colonizzazione oppure per inclusione: nel primo caso, se l’integrazione deriva dal prevalere di una parte, si va incontro a processi di annullamento o prevaricazione di una identità sull’altra45, mentre nel secondo caso si ha un processo evolutivo basato sul riconoscimento e sul rispetto reciproco delle diversità, considerata ciascuna come una ricchezza. In questo secondo caso è lecito affermare che ogni parte conserva un grado di libertà/indipendenza rispetto alle altre parti e rispetto al sistema, per tutto ciò che rimane nelle prerogative esclusive della parte considerata, a partire dall’individuo.

L’implicazione concettuale è che una parte può essere un sottosistema di un sistema più ampio e, nel contempo, rimanere indipendente nelle decisioni per tutto ciò che è efficiente ed efficace gestire in modo diretto, a patto che le stesse non contravvengano a principi e interessi più generali coinvolgenti anche altre parti. Nell’applicazione di questo principio si configura la pari dignità di ogni livello decisionale, senza una gerarchia precostituita.

4.4 Implicazioni dell’applicazione della teoria dei sistemi sulla revisione della Costituzione italiana

Per entrare nel concreto, se prendiamo le Regioni italiane attuali come parti costitutive della Repubblica, in quanto espressive di popoli e territori – cosa che dovrebbe essere naturale e scontata se si conoscesse la storia iniziata con il passaggio del Regno di Sardegna ai principi del Piemonte46 – occorre capire quali sono i valori e i princìpi che si pongono alla base dello stare insieme di queste parti e, nel contempo, capire quali sono invece le specificità positive che differenziano tali parti e che vanno tutelate con il riconoscimento di adeguati poteri e risorse, e quelle negative da rimuovere, che negano alla base i valori e i princìpi che questi popoli vogliono darsi per stare insieme in modo civile e conveniente per tutti.

Applicando questo metodo si arriva facilmente a individuare alcune aree di modifica della Carta costituzionale in modo che, per esempio, si valorizzino le differenze positive:

  • Riconoscendo che i popoli che abitano i territori dello Stato hanno storie, culture e lingue meritevoli di tutela e che, per queste aree e per questi popoli, occorrerebbe inserire adeguati poteri per la tutela e la valorizzazione di tali differenze, la cui esistenza e perpetuazione non solo non contrastano con lo status di cittadino italiano ed europeo ma, addirittura, rafforzerebbero il senso di appartenenza allo Stato, proprio perché rispetto al passato, ne sentirebbero una maggiore appartenenza divenendone i primi difensori, come del resto è avvenuto nel caso della costruzione della Confederazione elvetica47;
  • Riconoscendo che le differenze di sviluppo sociale ed economico affondano le radici nel fallimento delle politiche di sviluppo attuate fin dall’inizio della Repubblica, il cui principale limite è stato rappresentato dall’essere calate dall’alto, senza alcun legame con le realtà dei luoghi48. Eppure, oggi si sa bene, come previsto dai regolamenti europei che disciplinano l’uso delle risorse dei fondi strutturali e delle altre politiche comunitarie, che alla base di qualsiasi progetto di programmazione occorre una stretta interazione e collaborazione tra Territori, Stato e Commissione europea sulla base del principio di responsabilità diffusa, in grado di prevedere non solo poteri ma anche risorse proprie così che la fiscalità posta in essere in questi territori possa essere controllata dagli stessi cittadini, sapendo bene che non ci sarà lo Stato a intervenire qualora tali risorse non vengano utilizzate in modo efficace ed efficiente.

È a partire da queste considerazioni che abbiamo maturato le seguenti proposizioni:

  1. non si può revisionare efficacemente lo Statuto sardo se non si interviene sulla Costituzione italiana;
  2. modificare la Costituzione italiana è interesse di tutti i popoli che abitano questo Stato e che sono insoddisfatti del suo funzionamento;
  3. i Sardi hanno interesse a dialogare con gli altri popoli che abitano l’Italia per fare massa critica rispetto alla necessità di modificare la Costituzione;
  4. qualsiasi progetto di revisione statutaria o costituzionale si fa per “costruire qualcosa” e non “contro qualcuno”;
  5. le uniche proposte di revisione dello Statuto e della Costituzione devono fondarsi sulla scienza sistemica e non sulle ideologie, una proposta che sia in grado di conciliare l’indipendenza delle parti con il coordinamento delle stesse per il raggiungimento di comuni obiettivi.

5. Evoluzione costituzionale in senso sistemico e federalismo

5.1 Le fondamenta del federalismo

La teoria del federalismo si fonda sulla volontà di due o più entità (di norma nazionali) di sottoscrivere un patto (foedus) volto ad affrontare e risolvere insieme problematiche di comune interesse. In questo senso, “federalismo significa potere che si esprime dal basso, potere che ha origine primariamente nell’Ente che si federa, e che trova un proprio equilibrio con il potere del governo centrale, attraverso nuovi organi costituzionali e leggi correttive, proprie di tutti i veri Stati federali49.

È facile rilevare in questo concetto una sostanziale analogia con il linguaggio proprio della teoria dei sistemi: due o più unità parziali sottoscrivono un accordo per raggiungere comuni finalità. In sostanza, una federazione è un sistema, qualcosa che non esiste di per sé ma un fenomeno che emerge dalla volontà delle parti, una volontà che va esercitata e praticata con sistematicità e continuità.

Alla base di tale accordo o processo di aggregazione c’è il principio di sussidiarietà50 che stabilisce una cosa elementare: le decisioni vanno prese al livello politico-istituzionale più vicino al cittadino e devono essere delegate a un livello superiore solo per ragioni di efficienza ed efficacia della decisione, oppure quando la tematica su cui si discute coinvolge comunità più ampie. Se si parte dal presupposto che ogni aggregazione parte dall’individuo è evidente che è questo il primo titolare del potere che lo delega a livelli organizzativi e politico-istituzionali superiori proprio in virtù di quanto indicato in precedenza. Federalismo significa “potere decisionale ai cittadini” circostanza che nulla ha a che vedere con il decentramento amministrativo o con la “devolution”51. Di converso, occorre anche precisare che la delega di potere a un livello superiore non significa che viene meno il diritto-dovere di monitorare l’esercizio di quel potere, così come non significa che il delegato si ritenga titolare originario dello stesso.

A livello organizzativo istituzionale, pertanto, il potere originario risiede nelle comunità sulla base dell’idea che finché è utile, conveniente e non impatta su altri interessi esterni alla comunità, ognuna deve essere in grado di provvedere a sé stessa fintanto che è possibile, mentre partecipa solidaristicamente con altre comunità per questioni comuni e di interesse più ampio.52

Orbene, la piena e consapevole adozione del principio di sussidiarietà, permette di individuare tanti livelli di decisione politico-istituzionali quanti sono gli ambiti di condivisione dei problemi: estremizzando, dal condominio al quartiere (o villaggio), dalla città alla provincia, dalla regione alla nazione, dallo stato all’insieme di stati (o di nazioni se c’è coincidenza tra gli stessi), fino ai continenti e al mondo.

Ciò non dovrebbe sorprendere: come si può pensare che a decidere sul cambiamento del sistema di climatizzazione di un condominio possa essere il Comune?

Analogamente, come si può pensare di affrontare il tema dei cambiamenti climatici senza un coinvolgimento di tutti gli stati del mondo?

In sostanza, ogni livello istituzionale ha legittima sovranità nel proprio campo di competenza, che rappresenta esattamente un ambito di indipendenza. Va da sé che il dialogo e la negoziazione sono gli strumenti per addivenire a forme di coordinamento tra “sovranità” distinte, coordinamento che deve prevedere, necessariamente, forme di condivisione di risorse, a partire dalle conoscenze, in funzione di comuni finalità, a iniziare dalla pace e dallo sviluppo socio-economico armonico ed ecosostenibile di tutti gli individui e i loro aggregati.

5.2 Federalismo e autonomia: il contributo di Emilio Lussu53

Al fine di evitare fraintendimenti è utile precisare che la prospettiva federalista si distingue assai nettamente da quella autonomista. Giova in tal senso ricorrere al contributo di Emilio Lussu che in un saggio del 1933 pubblicato nel n. 6 di Giustizia e Libertà, scrive:

Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento. L’autonomia concepita come decentra-mento non è più autonomia.

Gli autonomisti della Sardegna si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federalismo, non già decentramento… D’ora innanzi adoperando la terminologia “Federalismo’ non ci saranno più equivoci.

Poi precisa:

Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto.

Lussu esprime in questo passo, modernamente, con precisione e lucidità – e ancora oggi di grande attualità – la discriminante vera fra autonomia/decentramento e federalismo. E quando afferma che per fare chiarezza politica non basta più dire «autonomia», bisogna dire «federazione» non lo sostiene per una questione lessicale e terminologica, ma di sostanza.

La visione autonomistica, anche rivista e irrobustita, dello Stato è ancora tutta dentro l’ottica dello stato ottocentesco, unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente, può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitate e parziali alla Regione che, comunque, in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri54.

In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale.

Lussu non si limita a disegnare in astratto il futuro stato federale, gli stati membri e le rispettive competenze, ma individua con precisione e nettezza anche l’ente, il soggetto che dovrà costituire lo stato membro o federato: la regione. E lo argomenta così:

La regione in Italia è una unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica… La provincia al contrario non è che una superficiale e forzata costruzione burocratica. La provincia può sparire come è venuta, in un sol giorno, la regione rimane. La terra, il clima, le acque, la posizione geografica, antiche influenze commerciali, rapporti e attitudini particolarmente sviluppati da tempo, contribuiscono a dare a ogni regione una sua economia caratteristica e quindi una vita sociale chiaramente distinta.

Da questo passo emerge non solo che per Lussu il futuro stato federato dovrà identificarsi con la regione ma che egli fonda il suo federalismo sulla identità etno-linguistica. Vi è di più: descrivendo la regione Lussu ci dà – al di là delle sue intenzioni – un ritratto compiuto della “nazione”, modernamente intesa e da non identificare con lo stato; identificazione operata invece dalla cultura ottocentesca, che purtroppo permane ancora e che permeava profondamente la visione di Lussu tanto da indurlo a parlare di “nazione mancata”, intendendo, forse, “stato mancato”.

Il ritratto che Lussu delinea della regione si attaglia in modo particolare alla Sardegna che “deve essere nello stato italiano all’incirca quello che è il cantone nella confederazione svizzera e il lander nella repubblica federale tedesca”. Ma anche alla Sicilia perché “godevano di una situazione di privilegio in quanto il mare era sufficiente a risolvere ogni contestazione territoriale”. Ma in genere per tutte le regioni prevede un’organizzazione federale “a un dipresso come i «paesi» in Germania, le «province» in Austria e i «cantoni» in Svizzera”. Scrive a proposito della Svizzera55

Io ho conosciuto molto da vicino la Svizzera, la piccola grande democrazia organizzata in Stato federalistico, la più antica che l’Europa conosca. Ebbene, è a quel tipo d’organizzazione federalistica dello Stato democratico che la Sardegna aspira.

Quanto alla questione del nome delle entità che dovrebbero costituire lo stato federale: regioni, repubbliche, stati federati, territori autonomi, Lussu non ha dubbi: avrebbero dovuto chiamarsi “repubbliche federate”. E così argomenta:

Io propendo per la denominazione di ‘repubblica’ perché questa è la più rispondente a mettere in evidenza la parte di sovranità conquistata e a dare più popolarmente coscienza dell’attività autonoma e distinta nel seno della intera comunità italiana.

A chi obiettava che per diventare «stato» le nostre regioni sarebbero troppo piccole rispondeva: “Lo sarebbero come stati indipendenti, – io preciserei ‘separati’-, non lo sono come stati federati.” E aggiunge: “Nella Confederazione svizzera non vi è un solo cantone più grande delle più piccole delle regioni italiane”. Non era quindi il criterio del territorio – secondo Lussu – ad impedire a una regione di essere l’unità di base di uno stato federale. Inoltre, l’autore di Un anno sull’altipiano ricordava a questo proposito che nulla vietava a due o più regioni che avessero interessi comuni o unità di vita economica di unirsi in un solo stato federale.

5.3 Individui e istituzioni tra libertà e necessità di collaborazione

Uno dei temi di più difficile soluzione riguarda il rapporto tra gli individui (sistemi reali) e le istituzioni (sistemi concettuali): i primi cioè esistono in modo oggettivo, le seconde sono il frutto della volontà dei primi.

Questa constatazione non è banale poiché pone una serie di questioni finora risolte in un modo che se poteva andare bene nel passato, oggi costringono a una più attenta riflessione. La ragione fondamentale della necessità di “aprire” un dibattito sul tema è connessa con le trasformazioni sociali intervenute nel mondo nel corso degli ultimi decenni e che hanno visto una porzione crescente di popolazione accedere ai più alti livelli della conoscenza e del sapere umano. Ciò significa che se prima il coordinamento sociale poteva utilmente avvalersi di strumenti “coercitivi” perché il contesto non poteva capire la necessità di comportamenti finalizzati al perseguimento di comuni obiettivi, ora questo è più difficile da accettare e, soprattutto, è da rifiutare a priori sulla base di una visione filosofica dell’uomo come soggetto capace di intendere e di volere, quindi di decidere sempre più responsabilmente per sé e per i propri simili.

Ergo, ci si deve chiedere: possono essere costrette le persone a sottostare a vincoli ritenuti obsoleti, inadeguati o inefficienti in relazione alle legittime ambizioni di ciascuno di potersi realizzare nella vita scegliendo il meglio per sé?

Nel contempo, se fino a ora anche nei paesi che fondano il loro ordinamento giuridico sulla partecipazione della popolazione senza distinzione di censo, reddito, genere, credo religioso o altro (concetto di democrazia), è accettabile che il meccanismo della rappresentanza (così come lo abbiamo conosciuto) debba operare sempre e comunque quando, anche grazie alle tecnologie digitali, oggi si possono realizzare forme diffuse e frequenti di partecipazione diretta ai processi decisionali riguardanti, sempre più, questioni diverse e mutevoli nel tempo?

Si tratta di domande legittime che riportano al rapporto tra individui e istituzioni: sono i primi che costituiscono le seconde o, invece, queste ultime hanno assunto talmente vita propria da essere dominanti sui primi al punto che il ruolo degli individui tende a essere non quello formalmente dichiarato di cittadini ma di sudditi?

La complessità degli argomenti posti non può liquidarsi con posizioni “dogmatiche”, spesso contrapposte ed estremiste, volte a evitare la discussione e imporre l’accettazione acritica di quel che è stato finora ereditato dal passato. Come si possono spiegare altrimenti le azioni di varia natura esercitate dagli Stati per reprimere i tentativi di “recupero” di una soggettività degli individui che si identificano come popoli che con quello Stato invece non vogliono accettare un rapporto di sottomissione con lo Stato di cui fanno parte?

Non si tratta, in altre parole, di liquidare come “anacronistici processi di secessione” le istanze di popoli, come i Catalani, i Corsi, gli Scozzesi, ecc. che, per il tramite di azioni come i referendum, rivendicano una soggettività che considerano annullata se non criminalizzata e, comunque, non valorizzata, anche in termini di sfruttamento a fini di sviluppo socio-economico. Come evidenziato all’inizio di questo documento, il problema legato alla revisione del rapporto tra individui e istituzioni, se fosse affrontato in modo dialogico e finalizzato a creare effettive ed eque condizioni di sviluppo per tutti, non darebbe luogo a contrapposizioni che esacerbano gli animi e che accentuano la percezione di un profondo squilibrio tra istituzioni detentori del potere, che pure gli deriva dal popolo, e gli individui che in questo modo perdono la loro sovranità trasformandosi da cittadini in “sudditi obbedienti”.

Si tratta di temi che riportano al grande tema proprio delle scienze sociali della contrapposizione tra individualismo e collettivismo, incapaci, ciascuno, di addivenire a una soluzione56.

Per superare questa dicotomia occorre una terza via, costituita, come è stato indicato in precedenza, dall’approccio sistemico, l’unico metodo in grado di tenere insieme le prospettive di tutela dell’individuo (le parti) con quelle dell’insieme (il tutto, il collettivo). Ciò che rende possibile l’interazione tra le parti e il tutto sono le relazioni e ciò che le rende possibili: il dialogo reciproco che si fonda sull’ascolto dei punti di vista dell’altro, la condivisione delle risorse, l’assunzione diffusa delle responsabilità e, infine, la trasparenza dei comportamenti che ha come base il riconoscimento reciproco degli interessi legittimi.

5.4 I criteri di adesione all’Unione europea come base di revisione della Costituzione italiana

A supportare la necessità di revisione della Costituzione italiana, oltre che un approccio metodologico rispettoso delle parti e il tutto, vi sono gli stessi Trattati europei che nel definire i valori fondamentali all’articolo 257, stabilisce all’articolo 7 che il Consiglio europeo, “deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo”, possa “constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”.

Nello stesso articolo 7, al comma 3, invece, si stabilisce che “Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche”.

Peraltro, anche con riferimento ai criteri che disciplinano l’ingresso di nuovi Stati dentro l’UE, i Trattati stabiliscono che siano rispettati i seguenti:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;
  • un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, tra cui la capacità di attuare efficacemente le regole, le norme e le politiche che costituiscono il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Di rilievo è l’ultimo capoverso del comma 3 dell’articolo 3 che recita testualmente: “Essa – l’Unione europea (ndr) – rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo.”

Analogamente occorre considerare quanto previsto dalla Convenzione UNESCO per la Protezione e Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali58 nell’ambito della quale, all’articolo 1, si esplicitano chiaramente le finalità riguardanti tra gli altri:

  • la protezione e la promozione delle diversità e delle espressioni culturali;
  • la creazione delle condizioni che permettano alle culture di prosperare e interagire liberamente, in modo da arricchirsi reciprocamente;
  • la promozione e il rispetto per la diversità delle espressioni culturali nonché la presa di coscienza del loro valore a livello locale, nazionale e internazionale;
  • la riaffermazione dell’importanza della connessione tra cultura e sviluppo per tutti i Paesi, soprattutto per quelli in via di sviluppo, e sostenere le misure nazionali e internazionali volte a evidenziare il valore capitale di questo nesso;
  • il riconoscimento della natura specifica delle attività, dei beni e dei servizi culturali quali portatori d’identità, di valori e di significato;
  • la riaffermazione del diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e applicare politiche e misure che ritengono adeguate in materia di protezione e di promozione della diversità delle espressioni culturali sul proprio territorio.

Anche in considerazione di quest’ultimo riferimento alla Convenzione UNESCO emerge in modo abbastanza chiaro che lo Stato italiano, almeno con riferimento al tema del rispetto e della tutela delle minoranze, in questo caso etniche e linguistiche, abbia articoli della Costituzione quanto meno ambigui e suscettibili di una attenta rivalutazione.

Ecco perché, qui di seguito, si propongono alcune possibili modifiche volte a rendere più coerente la Carta costituzionale italiana con i Trattati dell’Unione.

5.5 Modifiche costituzionali necessarie

Quanto ora indicato, se ritenuto ragionevole e perseguibile, rappresenterebbe una prospettiva rispetto alla quale non conta quanto oggi siamo distanti dal renderla operativa, quanto il fatto di agire subito per avvicinarsi ad essa. In tal senso non c’è un prima e un dopo, si agisce laddove oggi è possibile farlo alle condizioni ora esistenti.

Va da sé che questo progetto richiede una revisione della Costituzione italiana per renderla capace di accogliere al suo interno questi principi organizzativi che non ledono affatto le fondamenta della Carta ma anzi, le danno maggior vigore, proprio perché più rispondente alla complessità della situazione attuale che, come è noto, non va ridotta ma compresa e gestita.

In particolare, i primi articoli che richiedono un sostanziale adeguamento sono l’1, il 5 e il 6 in modo da renderli coerenti col principio che coniuga unità e diversità, quest’ultima da considerare come parte costitutiva della Repubblica e non come soggetto di delega come, purtroppo, accade ora.

Nello specifico, l’articolo 1, proprio per far emergere la natura sistemica ed emergente dello Stato dovrebbe indicare, ponendo rimedio agli errori del passato, che la sovranità appartiene congiuntamente ai popoli che abitano il territorio dello Stato e ai rispettivi territori. In questo senso, per esempio, la nuova formulazione potrebbe essere la seguente:

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla libertà.

La sovranità appartiene congiuntamente al popolo e alle Comunità territoriali, organizzate in Comuni, Province e Regioni, il cui esercizio si esprime sulla base della pari dignità con gli organi centrali dello Stato e del principio di sussidiarietà per quanto riguarda la ripartizione delle competenze e delle risorse.

L’articolo 5 dovrebbe essere modificato proprio nella stessa direzione: attualmente il potere è in capo allo Stato mentre in una prospettiva sistemica, sulla base del principio di sussidiarietà, dovrebbe essere in capo ai popoli e ai territori che si organizzano attribuendo a livelli superiori quelle parti di potere che secondo criteri di efficienza ed efficacia coinvolgono tutti i popoli o è utile e conveniente che siano gestiti a tale livello superiore. Allo stesso tempo, occorre codificare il principio secondo il quale l’unità nasce dal riconoscimento delle diversità e non invece ribadire il principio contrario dell’unitarietà e della indivisibilità che non intacca le differenze negative da rimuovere e impedisce invece la valorizzazione di quelle positive. Una nuova possibile configurazione dell’articolo 5 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica si fonda sulla comune volontà delle Comunità locali organizzate in Comuni, Province e Regioni di operare, secondo criteri di efficienza ed efficacia, per il benessere, la felicità e l’equità di trattamento dei popoli che la abitano, adottando come criterio di ripartizione delle competenze e delle risorse, il principio di sussidiarietà.

La Repubblica si impegna a garantire la pari dignità dei diversi organi rappresentativi dei popoli e dei territori, attraverso misure di perequazione sociale e territoriale, combinando criteri demografici con altri territoriali e socio-economici.

Infine, nell’articolo 6 occorre stabilire che le minoranze linguistiche hanno pari dignità con l’italiano nei territori in cui esse vengono parlate, favorendo altresì lo studio di tali lingue proprio per conservare e valorizzare nel tempo queste specificità. Si tratta in altre parole di riconoscere in Costituzione la possibilità del bilinguismo perfetto. A tale proposito, per esempio, una nuova configurazione dell’articolo 6 potrebbe essere la seguente:

La Repubblica riconosce la pari dignità con l’italiano alle diverse lingue parlate nei diversi territori. In particolare, la pari dignità è riconosciuta al francese, al tedesco, al ladino, al sardo, [e terze]nei territori in cui queste lingue sono parlate.

La Repubblica, al fine di garantire la tutela e la valorizzazione di queste lingue ne garantisce e ne promuove l’insegnamento e lo studio nelle scuole di ogni ordine e grado, così da incentivare il plurilinguismo come competenza di maggiore competitività delle popolazioni.

Un’architettura come quella così ipotizzata crea le basi per la trasformazione dello Stato da centralista e unitario in sistemico-federale, così che l’autonomia di ogni livello di potere politico-istituzionale diventi sostanziale, perché garantita da responsabilità di ciò che si fa e da risorse direttamente gestite, pur conservando a livello federale un sistema di perequazione volto a ridurre e rimuovere le differenze negative di tipo socio-economico, ciò che in gergo si chiama federalismo fiscale e che non avrebbe bisogno di specificazione, visto che il federalismo non sarebbe tale senza responsabilità delle parti e senza risorse proprie.

Non è da trascurare il fatto che questa trasformazione crea le basi per un recupero di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni repubblicane, oggi fortemente compromessa e testimoniata dalla progressiva scarsa partecipazione dei cittadini alle consultazioni elettorali. Sarebbe invece utile restituire agli stessi maggiori opportunità di partecipazione alla vita democratica, cosa che, nella prospettiva indicata, suggerisce una integrazione dell’attuale Carta con l’ampliamento dell’utilizzazione dell’istituto referendario non solo in termini abrogativi ma anche propositivi e confermativi, circostanza che oggi sarebbe possibile grazie all’uso delle moderne tecnologie che possono permettere l’esercizio del voto senza il dispendio di risorse umane, materiali e finanziarie che di fatto scoraggiano l’esercizio di questo diritto59.

6. Per una ridefinizione democratica e pacifica del rapporto tra Sardegna, Italia e Unione europea

6.1 I valori che dovrebbero caratterizzare i rapporti istituzionali tra livelli

Alla base di questa proposta di ridefinizione della Carta fondamentale del popolo sardo e della sua convivenza pacifica con gli altri popoli della Repubblica italiana e dell’Unione europea c’è solo l’idea di costruire un’organizzazione delle relazioni basata su valori universali e inalienabili quali, al di sopra di tutti, il benessere e la felicità di ogni individuo che si possono realizzare solo se si creano condizioni di esercizio della propria libertà individuale, nel limite già indicato rappresentato da quella di ciascun altro, la pace e la creazione di condizioni di diritto, interne e internazionali, per la soluzione delle controversie che dovessero sorgere, nonché l’equità e la creazione di pari opportunità perché ogni individuo possa trovare, secondo le sue propensioni, la possibilità di tutelare il diritto alla salute, al lavoro, ad una dimora stabile, a istituzioni educative e formative in grado di favorire il miglioramento delle condizioni di umana esistenza.

Questo significa altresì che una organizzazione di questo tipo si fonda sia su beni individuali che su beni comuni: questi ultimi sono quelli di cui tutti devono avere il diritto di poterne fruire alle medesime condizioni e che sono la base per la convivenza pacifica delle persone, a iniziare da quelli che permettono la vita e l’affermazione della dignità umana.

6.1.1 Il diritto al benessere e alla felicità60

Gli Stati Uniti hanno inserito il diritto alla felicità, già nel 1776, nella dichiarazione d’indipendenza. In particolare, questo testo, redatto da Thomas Jefferson (1743-1826) e approvato dal Congresso di Filadelfia il 4 luglio 1776, qualifica il perseguimento della felicità come diritto inalienabile. In virtù di ciò, il popolo avrebbe quindi il diritto di pretendere dal governo le misure in grado di assicurare a ogni cittadino la propria quota di benessere; in caso contrario i consociati avrebbero il diritto di sovvertire o modificare l’ordine precostituito. La Dichiarazione americana identifica quei valori politici, tra cui la felicità, che i nuovi governi da quel momento dovranno perseguire.

A livello mondiale, esiste persino una giornata dedicata alla felicità, che si celebra il 20 marzo di ogni anno, istituita dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, nella consapevolezza che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone61.

In Italia questo diritto non è affermato, almeno a livello formale, anche se spesso i giudici tendono a riconoscere, tra le righe delle pronunce, valori che almeno in parte postulano il fantomatico diritto alla felicità.

Il Global Happiness 2020 di Ipsos, riporta che sei adulti su dieci, in 27 paesi, sono felici62. Nonostante la pandemia, la prevalenza della felicità a livello aggregato è quasi immutata rispetto all’anno precedente. I paesi più appagati da questa emozione, cioè quelli in cui più di tre adulti su quattro riferiscono di essere molto felici, sono Cina, Paesi Bassi, Arabia Saudita, Canada, Francia, Australia, Gran Bretagna e Svezia.

Quanto ai driver della cultura della felicità, l’indagine mostra che le principali fonti di tale sentimento tendono ad essere universali. In 14 dei 27 paesi intervistati, ognuna delle prime cinque fonti di felicità, cioè quelle che le persone riferiscono più di frequente, è tra le prime 10 fonti a livello globale. Questa lista di paesi include anche l’Italia, oltre a Brasile, Canada, Cile, Cina, India, Messico, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Sudafrica, Spagna, Svezia e Stati Uniti.

Tra le 29 potenziali fonti di felicità, le persone in tutto il mondo, tendenzialmente, sostengono che “la più grande felicità” deriva da:

  • salute e benessere fisico (citato dal 55%)
  • rapporto col partner o coniuge (49%)
  • figli (49%)
  • sentire che la vita ha un significato (48%)
  • condizioni di vita (45%)
  • sicurezza personale (45%)
  • sentirsi il controllo della vita (43%)
  • avere un lavoro o occupazione significativo (43%)
  • soddisfazione per la direzione in cui sta andando la vita (40%)
  • avere più soldi (40%)

Rispetto alla precedente indagine, le fonti di felicità che hanno guadagnato terreno a livello globale riguardano le relazioni, la salute e la sicurezza.

Alcuni elementi mostrano un calo quale fonte di felicità, come la situazione finanziaria personale, la quantità di tempo libero, la nuova leadership politica del paese.

Codificare questo diritto significa porlo alla base delle scelte che un qualsiasi governo si propone di portare avanti, significa altresì utilizzare questo criterio e le sue determinanti quali criteri discriminanti per la valutazione delle decisioni pubbliche prese a qualsiasi livello, da quello più vicino al cittadino (il comune) a quelli superiori, fino ad arrivare, almeno alla dimensione europea, per ciò che concerne noi Sardi.

6.1.2 Il diritto alla pace

Coerentemente con queste finalità e seguendo quanto auspicato da Immanuel Kant ne La pace perpetua, la prospettiva di una convivenza pacifica nel mondo trova un fondamento essenziale nella creazione, a qualsiasi livello, di condizioni giuridiche che impediscano ogni forma di conflitto, di violenza, di prevaricazione e sopraffazione di qualsivoglia natura. Di conseguenza, è auspicabile che si adottino provvedimenti volti, da un lato, al coordinamento, alla riqualificazione e, persino, alla riduzione delle spese militari (almeno per mere questioni di economia di scala) e, dall’altro, per mettere al bando le armi di distruzione di massa e le imprese che le producono.

Nondimeno, la pace e lo sviluppo sociale ed economico trovano oggi possibilità di realizzazione anche nel rispetto dell’ambiente e di ogni forma di vita in esso contenuta. Il patrimonio naturale ereditato dal passato deve essere salvaguardato, protetto e se possibile migliorato a beneficio delle future generazioni, superando la visione antropocentrica per abbracciare invece quella ecosistemica, il che implica che ogni investimento deve essere valutato nel rispetto di questo vincolo. Questo è il concetto di sostenibilità definito dalla stessa Organizzazione delle Nazioni Unite che questa proposta fa proprie compresi gli obiettivi dell’Agenda 203063.

In altre parole, si può affermare che le guerre nascono dalla volontà degli Stati di espandere il proprio dominio economico e/o di reprimere le libertà individuali. Lo Stato, in troppi casi, invece che strumento per garantire i valori di cui sopra, diventa esso stesso soggetto preponderante sulle persone tanto da tradursi, assai spesso, in forme di colonizzazione di varia natura.

Va da sé che ove c’è colonizzazione non c’è libertà o, comunque, questa è di molto limitata, così come dove non c’è libertà non c’è uguaglianza e non c’è giustizia sociale. Giovanni Battista Tuveri in proposito osservava che “l’uguaglianza … consiste nella libertà garantita indistintamente a tutti, di manifestare i loro valori sociali, e nell’equa e costante proporzione tra i valori che ciascuno manifesta, e l’estimazione che la legge è disposta a farne. È inutile il soggiungere, che una siffatta eguaglianza non può effettuarsi compiutamente sotto quei governi la cui essenza ripugna al pieno svolgimento delle libertà: dacché, ogni attentato inferito alla medesima è inseparabile dalla lesione di un qualche diritto ingenito o acquistato, e quindi di quella proporzione, senza la quale, non dessi vera uguaglianza64.

6.1.3 Il diritto al lavoro

Il diritto al lavoro è riconosciuto come un principio fondamentale nell’ambito delle legislazioni europea, italiana e della Regione Sardegna. Questo diritto non solo garantisce la possibilità di ottenere un impiego dignitoso e giustamente remunerato, ma impone anche agli enti governativi il dovere di promuovere condizioni che favoriscano lo sviluppo economico e l’occupazione. Sostenere il diritto al lavoro significa quindi implementare politiche attive che stimolino la creazione di nuove opportunità lavorative, formazione professionale adeguata e misure di supporto per l’inserimento nel mercato del lavoro.

In termini di azioni concrete, è essenziale che la Regione Sardegna operi in sinergia con le direttive europee e le normative statali per elaborare programmi specifici che mirino a ridurre la disoccupazione, in particolare nelle aree più svantaggiate e tra le fasce più vulnerabili della popolazione, come i giovani e i disoccupati di lungo termine. Questo può includere incentivi per le aziende che assumono disoccupati, sgravi fiscali per i nuovi investimenti produttivi e partenariati con istituzioni educative per l’aggiornamento delle competenze professionali in linea con le esigenze del mercato.

Un altro punto chiave è l’adattamento della forza lavoro alle trasformazioni digitali e ecologiche, che sono centrali nelle politiche dell’Unione Europea. La Sardegna dovrebbe pertanto promuovere la formazione e la riqualificazione nel settore delle tecnologie verdi e digitali, settori che presentano un elevato potenziale di crescita e di creazione di impiego. Parallelamente, è cruciale implementare misure di protezione sociale che garantiscano una rete di sicurezza per chi perde il lavoro a causa delle fluttuazioni economiche o della trasformazione industriale.

Per garantire l’efficacia di queste politiche, la Regione Sardegna può avvalersi di fondi europei, come quelli del Fondo Sociale Europeo e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che offrono risorse significative per l’impiego e lo sviluppo economico. Inoltre, è fondamentale che queste iniziative siano monitorate e valutate regolarmente per assicurare che rispondano in modo efficace alle dinamiche del mercato del lavoro locale.

6.1.4 Il diritto alla salute e a vivere in un ecosistema salubre

Mai come in questo periodo storico l’ambiente è al centro delle attenzioni delle persone più responsabili che operano nel pianeta terra. Tuttavia, nonostante la crescita di consapevolezza, i dati sui cambiamenti climatici sono impietosi e le misure finora adottate non sono più sufficienti per evitare una catastrofe annunciata. I grafici seguenti ne sono una palese dimostrazione.

Figura 1 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: NOAA, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 2 – Variazioni della temperatura media annua della superficie terrestre.

Fonte: OWID, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

Figura 3 – Quota emissioni globali di gas serra per ambito di attività economica.

Fonte: Climate Watch e WRI, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-i-cambiamenti-climatici-10-grafici-32170

A tutto questo occorre una azione forte che prima di tutto ponga al centro dello sviluppo socio-economico e di tutela dell’ambiente non più l’approccio antropocentrico ma quello ecocentrico. Il primo approccio (definibile come antropocentrismo-ecologico), si fonda su un ambientalismo che cerca di conciliare lo stile di vita consumistico dell’uomo con la conservazione dell’ambiente, con risultati finora del tutto deludenti, poiché l’esercizio del benessere per questa prospettiva è più importante della salvaguardia delle altre specie. Il secondo approccio, invece, individua la conservazione dell’ambiente nel suo complesso come bene indipendente dall’uomo; quest’ultimo, pertanto, è solo una delle tante specie esistenti sulla terra e qualsiasi gerarchizzazione è arbitraria e fondata sulla presunta separazione tra uomo e ambiente.

La conservazione e la rigenerazione dell’ecosistema dovrebbero essere alla base di qualsiasi visione di sviluppo sociale ed economico: questa scelta è alla base della vita, non solo di una vita decente. Ciò significa che occorre una azione ad ampio spettro che coinvolga indistintamente tutti, a livello individuale sino a quello planetario.

A partire da questa consapevolezza, l’azione a livello locale diventa fondamentale, sia per preservare il contesto in cui si vive, sia per contribuire al più generale miglioramento del sistema Terra.

Ambiente, agricoltura, salute, educazione alimentare, ecc. sono quindi le leve sulle quali agire e le attività da svolgere sono chiarissime:

  • riforestazione e rigenerazione urbana sono priorità assolute. Solo l’incremento della flora può aumentare la capacità di assorbire la quantità di emissioni di CO2 che vengono emesse in atmosfera, può contrastare efficacemente l’erosione dei suoli, le conseguenze devastanti delle alluvioni, l’aumento della temperatura al suolo, ecc.. Queste attività andrebbero fatte, da subito, in ogni centro abitato e nelle aree rurali e di montagna, sia pubbliche che private. Ogni cittadino dovrebbe sentirsi investito della necessità di mettere a dimora delle piante a partire dai propri possedimenti, se qualcuno ne possiede, e per questo dovrebbero esserci delle misure atte ad agevolare con azioni premianti i comportamenti virtuosi o penalizzanti per quelli non consoni a questa visione;
  • incremento delle produzioni agricole così da ottenere almeno due risultati: quello di non lasciare terreni incolti, come purtroppo si vede troppo spesso in Sardegna, e quello di ridurre la dipendenza dall’esterno della nostra bilancia commerciale. Sotto questo profilo serve una azione sinergica molto forte tra l’istituzione regionale (alla quale compete l’onere di definire una visione e gli obiettivi), agenzie regionali (come Laore e Agris) cui spetta il compito di dialogare con le istituzioni statali e comunitarie da un lato e di ritornare a fare divulgazione nei campi a beneficio di chi vuole fare impresa in agricoltura, sia per migliorare la qualità delle specie, in una prospettiva di tutela e valorizzazione delle varietà tipiche, sia per incrementare l’efficienza gestionale di questi imprenditori. Allo stesso tempo occorrono provvedimenti volti a scoraggiare la rendita da possesso che, in molti casi, coincide con l’attesa di cambi di destinazione d’uso da agricoli a industriali o altro per lucrare su affitti o vendite, senza concorrere alla produzione di beni primari.

6.1.5 Il diritto a una formazione continua tutto l’arco della vita

Nel contesto contemporaneo, caratterizzato da rapidi cambiamenti e da un’economia basata sulla conoscenza, la formazione continua emerge non solo come un diritto, ma come una necessità impellente per ogni individuo. Il principio fondamentale di una “Scuola come spazio di formazione della persona umana” si articola nella visione di un’istruzione che non si limita a trasmettere conoscenze, ma che modella i cittadini, fornendo loro gli strumenti per navigare e prosperare in una società complessa. In questo quadro, proponiamo l’implementazione di programmi educativi che enfatizzano lo sviluppo delle competenze critiche, creative e relazionali, oltre alla pura acquisizione di saperi.

Parallelamente, la visione della “Scuola per la formazione di una identità contestuale, multidimensionale e dinamica che dia valore alle radici e alle ali” si concentra sulla costruzione di percorsi formativi che riconoscano e valorizzino le specificità culturali e storiche del contesto sardo, integrandole con una prospettiva globale. È essenziale che la formazione scolastica in Sardegna incoraggi la consapevolezza delle proprie radici culturali e al contempo prepari gli studenti a inserirsi in contesti internazionali. Per realizzare ciò, suggeriamo l’introduzione di moduli dedicati alla storia e alla cultura sarda in tutti i livelli di istruzione, affiancati da programmi di scambio internazionale che espongano gli studenti a diverse realtà globali.

Azioni concrete da intraprendere includono l’istituzione di laboratori di apprendimento permanente nelle scuole, aperti alla comunità, dove le lezioni di storia locale possano essere integrate con workshop su tecnologie emergenti e competenze digitali. Inoltre, si propone di collaborare con enti culturali e università per sviluppare corsi che esplorino l’intersezione tra identità sarda e fenomeni globali, equipaggiando così gli studenti con le competenze per operare efficacemente sia a livello locale che internazionale.

Queste iniziative, finanziate tramite partenariati pubblico-privati e con il supporto di fondi europei dedicati all’istruzione e alla cultura, mirano a creare un sistema educativo che non solo rispetti il diritto alla formazione continua, ma che trasformi la scuola in un luogo di crescita continua e di preparazione a una vita di attiva partecipazione alla società.

6.1.6 Il diritto al reinserimento sociale e l’adozione di politiche di contrasto alla cultura dello scarto

Nella visione di una società che valorizza ogni suo membro, il diritto al reinserimento sociale rappresenta un pilastro fondamentale per combattere la cultura dello scarto e promuovere l’inclusione di tutti i cittadini, specialmente quelli che si trovano in condizioni di vulnerabilità. Questo diritto si estende dalle politiche carcerarie che favoriscono il reinserimento degli ex detenuti, fino al sostegno per le fasce più deboli, come le persone senza fissa dimora, gli anziani soli e i minori in difficoltà.

Per quanto riguarda il sistema carcerario, proponiamo l’adozione di programmi di educazione e formazione professionale all’interno delle carceri, finalizzati a fornire agli detenuti le competenze necessarie per un efficace reinserimento nel tessuto lavorativo e sociale al termine della loro pena. Questi programmi dovrebbero essere integrati da partnership con imprese locali per facilitare stage e opportunità di lavoro a tempo determinato post-detenzione.

Inoltre, per contrastare la cultura dello scarto, è essenziale implementare politiche di sostegno che includano servizi di assistenza domiciliare per gli anziani, programmi di tutoraggio per i giovani a rischio di dispersione scolastica e iniziative di housing sociale per offrire soluzioni abitative stabili a chi si trova in condizioni di precarietà. Queste azioni possono essere potenziate attraverso l’utilizzo di fondi regionali, nazionali ed europei destinati all’inclusione sociale e al miglioramento delle condizioni di vita dei gruppi vulnerabili.

Per rafforzare ulteriormente queste politiche, suggeriamo la creazione di centri di ascolto e supporto in ogni comune, dove professionisti qualificati possano offrire consulenza legale, psicologica e lavorativa gratuita. Questi centri dovrebbero operare in rete con le strutture sanitarie locali, le organizzazioni non governative e le associazioni di volontariato, formando una rete di sostegno capillare che possa intervenire prontamente e efficacemente nelle situazioni di emergenza sociale.

Infine, per promuovere un cambiamento culturale duraturo, è fondamentale integrare nei programmi scolastici moduli specifici dedicati al valore della solidarietà e dell’inclusione sociale, educando le nuove generazioni al rispetto e al sostegno reciproco tra cittadini di ogni età e condizione sociale.

6.1.7 Il diritto ad una politica del servizio

Nell’ambito di una visione rinnovata dell’impegno politico, il diritto ad una politica del servizio sottolinea l’importanza di considerare l’attività politica non come una carriera a lungo termine, ma come un servizio temporaneo reso alla comunità. Questo principio si concretizza nella proposta di limitare il numero di mandati elettivi a un massimo di due per ogni carica, promuovendo così un rinnovamento continuo all’interno delle istituzioni e prevenendo la stagnazione e l’accaparramento del potere.

Limitare i mandati a due termini aiuta a garantire che le cariche politiche siano occupate da individui motivati dal desiderio di servire il pubblico e non da interessi di lungo termine legati al mantenimento del potere. Tale misura incoraggia anche una maggiore partecipazione civica, aprendo regolarmente le porte a nuovi leader con fresche idee e prospettive, essenziali per affrontare le sfide in continua evoluzione della società moderna.

Inoltre, questa limitazione dovrebbe essere accompagnata da politiche che promuovano la trasparenza e la responsabilità, come la dichiarazione obbligatoria degli interessi e la valutazione periodica delle performance. Queste politiche assicurano che i politici rimangano veri servitori del pubblico, mantenendo sempre un alto livello di integrità e allineamento con gli interessi dei cittadini che rappresentano.

Per implementare efficacemente questa visione, si propone di introdurre modifiche legislative che formalizzino la limitazione dei mandati e che stabiliscano chiari criteri di accountability per i politici in carica. Si suggerisce anche di avviare campagne di sensibilizzazione per educare i cittadini sui vantaggi di una rotazione regolare dei rappresentanti politici, enfatizzando come questo approccio possa portare a una politica più dinamica e reattiva alle necessità della popolazione.

6.1.8 Il diritto a una imposizione fiscale ispirata a equità e libertà

In Italia la pressione fiscale si situa intorno al 60%, ciò sta a significare che oltre la metà del frutto del nostro lavoro è appannaggio dello Stato, ossia, su 312 giornate lavorative siamo costretti a lavorare oltre 187 giorni per lo Stato e solamente 125 giorni per noi stessi. Con un prelievo di tale portata si può affermare che siamo di fronte al fenomeno che possiamo definire una schiavitù moderna.

Qualcuno può trovare consolazione nel fatto che siffatta moderna schiavitù è deliberata da un Parlamento democraticamente eletto?

Ricordiamoci che sulla base della legislazione italiana, a differenza del sistema istituzionale elvetico, in campo tributario non sono ammessi referendum. Pertanto, tra la fiscalità e la libertà personale esiste una relazione inversa, nel senso che, oltre un certo punto, la crescita della fiscalità ha luogo a spese della nostra libertà.

Coloro i quali hanno dubbi sulla validità di questa relazione dovrebbero spiegarci quale sarebbe il senso della libertà in un paese in cui lo Stato mi portasse via il 100% del mio reddito. A tal proposito vedasi la efficace descrizione del fenomeno che fa Herbert Spencer, nel libro L’individuo contro lo Stato (1884) Bariletti editori, 1989.

La leva fiscale che, da che mondo e mondo può essere utilizzata anche rispettando adeguatamente la libertà dei cittadino per favorire lo sviluppo economico e sociale di un territorio, può anche essere utilizzata per ostacolarlo, oppure, anche inintenzionalmente o indirettamente, per frenarne le potenzialità.

In Sardegna, è amaro constatare che, fin dal momento in cui il Regno di Sardegna passò sotto il dominio sabaudo prima e italiano poi, la fiscalità è stata usata con quest’ultima finalità. E a tal proposito G.B. Tuveri in un famoso articolo dal titolo “Chi oserà attaccare i campanelli al gatto?”, apparso sul giornale La Cronaca in data 27 gennaio 1867, in cui denunciava che il prelievo fiscale operato dallo Stato italiano in Sardegna era di gran lunga superiore ai benefici che il suo operato apportava alla nostra isola, sosteneva altresì che

“Un’isola qualunque non può prosperare, ove non si governi da sé, o non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi colle prerogative del potere centrale più limitato. E la Sardegna non raggiunse in alcun tempo la prosperità cui è chiamata dalla sua posizione, dai suoi porti, dalla varietà dei suoi prodotti, appunto perché non ebbe mai nel suo seno un governo unico e si organizzato, da poter essere emendato radicalmente e costituzionalmente.”

E sull’operato del Governo di allora sentenziava:

“Un governo che pone tanta diligenza nello spendere il meno che possa nell’isola, quanta ne pone nel ricavarne sempre di più; un governo che, per ciò, non ci lascia che un’ombra di forza pubblica; che macchina tutto dì soppressioni d’uffici e d’istituti pubblici, […] che nel mentre s’appropria la maggior parte delle rendite comunali, addossa ai Comuni ed alle Provincie quasi tutti i suoi carichi, e che inoltre li sottopone ad un’amministrazione dissennata e dispendiosissima, un governo insomma la cui grettezza non può essere pareggiata che dalla sua avidità: un governo siffatto basterebbe ad immiserire, non noi ma il popolo più industre e più dovizioso della terra”.

Tuveri fu il primo ad individuare quella che venne successivamente conosciuta come la “questione sarda”. Qualche anno più tardi anche Camillo Bellieni, in un articolo pubblicato sul “Solco” il 18 dicembre 1921, aveva individuato più o meno le stesse problematiche e così si esprimeva:

“Di fronte al problema sardo, quale noi lo prospettiamo nel nostro programma e nella nostra propaganda quotidiana, le riforme e le concezioni governative, sono nient’altro che pannicelli caldi sopra un membro in cancrena. […] Lasciata a se stessa la Sardegna sarà capace non solo di governarsi e di crearsi ordinamenti più consoni alle proprie condizioni e alle proprie necessità più che oggi non accada, ma anche di crearsi quella prosperità economica che ora le manca, ed è ostacolata in tutti i modi e alla quale le sue risorse naturali e l’energia dei suoi figli le danno diritto di aspirare.

Le esiguità dei tributi, la scarsità della produzione attuale non sono elementi tali che possano dare soverchie preoccupazioni per l’avvenire di una regione come la nostra, che non ha ancora avuto la possibilità di sviluppare tutto il suo rendimento economico.

La Sardegna vuole liberarsi dall’oppressione di tutela dello Stato italiano, per fare da sé, per curare le sue piaghe da sé.

Liberismo, autonomia, cooperazione.

Sono questi gli elementi entro cui è compreso il problema sardo, che è anche il problema dell’Italia.”

Applicato al tempo presente, il fare da sé che auspicava Bellieni equivale ad applicare nel campo tributario i concetti del federalismo.

In campo tributario, il Federalismo attiene essenzialmente alla configurazione e distribuzione delle competenze e delle funzioni tra Stato ed Enti territoriali in materia di entrate fiscali, secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà più volte richiamato.

In un assetto federale deve essere riconosciuto a ciascun ente territoriale il potere di governare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel medesimo ente ai cittadini.

Tenendo ben presente questa premessa vediamo di esaminare l’attuale sistema tributario vigente in Sardegna in quanto Regione appartenete al territorio doganale dello Stato italiano.

A seguito della riforma fiscale del 1972, in vigore in Italia dal 1973, le imposte dirette e indirette più rilevanti dal punto di vista sociale e finanziario, sono concepite e strutturate e sono funzionali ad un sistema sostanzialmente unitario, e mal funzionerebbero in un sistema di tipo federale senza una radicale revisione dei presupposti impositivi e delle procedure di riscossione.

Per quanto riguarda le imposte dirette, la capacità contributiva e la progressività sono i cardini su cui è costruito il sistema tributario italiano ai fini della tassazione dei redditi. Da questo ne discende che il sistema tributario italiano è informato a criteri di progressività e il prelievo fiscale può essere illimitato.

Per quanto attiene al prelievo delle imposte dirette vigenti nel territorio dello Stato italiano, occorre fare riferimento in primis all’articolo 53 della Costituzione che così stabilisce:

Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Il primo principio cardine: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” come sopra richiamato, non prevede alcun limite a questo contributo. Sulla base di questo principio, assurdo se ci si pensa un attimo, può succedere e succede ad un qualsiasi contribuente che in base alle sue capacità imprenditoriali, bravura o altro, riesca a conseguire un reddito di 5, 10, 20, 50 o 100 milioni di euro, con il sistema tributario attualmente in vigore dovrebbe/deve concorrere con oltre la metà: 2, 5, 5, 10, 25, 50 e passa milioni di euro alle spese pubbliche. Con siffatta cifra, deriverebbe un concorso abnorme alle spese pubbliche da parte di un singolo contribuente che, con un reddito simile, molto probabilmente non farebbe ricorso, né lui né la sua famiglia, alla stragrande maggioranza dei servizi pubblici tipo (sanità, istruzione, trasporti, etc.) erogati dallo Stato.

In un sistema federale sardo si potrebbe proporre un limite quantitativo al prelievo fiscale. Per esempio, stabilendo un tetto che, oltre al criterio di progressività, tra contribuenti, .si introduca anche un importo informato a criteri di proporzionalità.

Poiché l’altro principio cardine della progressività, su cui si basa il prelievo tributario, appare innaturale.

Normalmente chi lavora di più si attende un maggior guadagno mentre, con il sistema delle aliquote progressive, chi lavora di più, per assurdo, guadagna di meno, e questo vale per qualsiasi contribuente, sia esso lavoratore dipendente o autonomo. Pertanto, in una ipotesi di federalismo fiscale, in un sistema federale sardo, si dovrebbe integrare il principio della progressività col criterio della proporzionalità, prevedendo, per esempio, una percentuale massima del prelievo fiscale sulla base di pochi scaglioni, oppure di una aliquota unica del 15%.

Nell’ottica della trasparenza e di un corretto rapporto fisco-contribuente, nel territorio della Sardegna, si dovrebbe abolire o limitare la figura del sostituto d’imposta prevista nel nostro ordinamento dagli artt. 23 e seguenti del D.P.R. 600/73.

Tra l’altro i sostituti d’imposta, dovrebbero garantire questo servizio di riscossione per conto dello Stato senza alcuna retribuzione, a fronte di notevoli e gravose responsabilità sanzionabili anche sotto il profilo penale come previsto dall’articolo 5 del D.Lgs. n. 74/2000.

Per quanto riguarda le imposte indirette, di cui la principale è l’imposta sul valore aggiunto istituita con il DPR 633 del 26 ottobre 1972, considerato che è un’imposta che grava essenzialmente sul consumatore finale, in linea di principio, ad un’ipotetica crescita della ricchezza prodotta nell’isola, dovrebbe corrispondere la previsione di una esenzione dal tributo per i beni di prima necessità quali, pane, acqua, latte e suoi derivati, pasta, prodotti per l’infanzia, etc.

La diminuzione del gettito che ne deriverebbe da tale esenzione potrebbe essere compensata con l’aumento e la diversificazione delle aliquote per taluni prodotti e servizi, prevedendo delle aliquote maggiori oltre un determinato prezzo di vendita.

Per quanto riguarda l’imposta di registro si potrebbe ipotizzare un’aliquota dell’1% su tutti gli atti soggetti a registrazione, mentre dovrebbero essere abolite l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale e tutti gli altri balzelli che costellano l’universo tributario italiano.

Inoltre, considerato che il patrimonio del de cuius in generale è il frutto degli investimenti realizzati con risorse finanziarie già sottoposte a tassazione, l’imposta di successione dovrebbe essere soppressa.

Tutte le norme fiscali da applicare nella nostra isola dovrebbero essere contenute in un Testo Unico scritte in modo chiaro e di facile interpretazione.

Dovremmo accuratamente evitare il delirio normativo generato dalle centinaia di norme, circolari e risoluzioni ministeriali che affollano la legislazione tributaria italiana e rendono oltremodo vessatorio l’adempimento fiscale.

Attualmente, i rapporti tra la Regione Sarda e lo Stato italiano sono regolati dagli articoli del vigente statuto speciale della Regione Sardegna sulla base di quanto previsto al Titolo III. Finanze – Demanio e Patrimonio, con gli articoli dal 7 al 12.In particolare,l’art. 8 è stato modificato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1 comma 834 e seguenti della Legge 27 dicembre 2006 n. 296 che recita:

Comma 834 

L’articolo 8 dello Statuto speciale per la Sardegna, di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “Art. 8. – Le entrate della regione sono costituite: a) dai sette decimi del gettito delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle persone giuridiche riscosse nel territorio della regione; b) dai nove decimi del gettito delle imposte sul bollo, di registro, ipotecarie, sul consumo dell’energia elettrica e delle tasse sulle concessioni governative percette nel territorio della regione; c) dai cinque decimi delle imposte sulle successioni e donazioni riscosse nel territorio della regione; d) dai nove decimi dell’imposta di fabbricazione su tutti i prodotti che ne siano gravati, percetta nel territorio della regione; e) dai nove decimi della quota fiscale dell’imposta erariale di consumo relativa ai prodotti dei monopoli dei tabacchi consumati nella regione; f) dai nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto generata sul territorio regionale da determinare sulla base dei consumi regionali delle famiglie rilevati annualmente dall’ISTAT; g) dai canoni per le concessioni idroelettriche; h) da imposte e tasse sul turismo e da altri tributi propri che la regione ha facoltà di istituire con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato; i) dai redditi derivanti dal proprio patrimonio e dal proprio demanio; l) da contributi straordinari dello Stato per particolari piani di opere pubbliche e di trasformazione fondiaria; m) dai sette decimi di tutte le entrate erariali, dirette o indirette, comunque denominate,. ad eccezione di quelle di spettanza di altri enti pubblici.

Nelle entrate spettanti alla regione sono comprese anche quelle che, sebbene relative a fattispecie tributarie maturate nell’ambito regionale, affluiscono, in attuazione di disposizioni legislative o per esigenze amministrative, ad uffici finanziari situati fuori del territorio della regione”.

Comma 835. 

Ad integrazione delle somme stanziate negli anni 2004, 2005 e 2006 è autorizzata la spesa di euro 25 milioni per ciascuno degli anni dal 2007 al 2026 per la devoluzione alla regione Sardegna delle quote di compartecipazione all’imposta sul valore aggiunto riscossa nel territorio regionale, concordate, ai sensi dell’articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, per gli anni 2004, 2005 e 2006.

Comma 836. 

Dall’anno 2007 la regione Sardegna provvede al finanziamento del fabbisogno complessivo del Servizio sanitario nazionale sul proprio territorio senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato.


Comma 837. 

Alla regione Sardegna sono trasferite le funzioni relative al trasporto pubblico locale (Ferrovie Sardegna e Ferrovie Meridionali Sarde) e le funzioni relative alla continuità territoriale. Al fine di disciplinare gli aspetti operativi del trasporto di persone relativi alle Ferrovie della Sardegna ed alle Ferrovie Meridionali Sarde, il Ministero dei trasporti e la Regione Autonoma della Sardegna, entro il 31 marzo 2007, sentito il Ministero dell’economia e delle finanze, sottoscrivono un accordo attuativo relativo agli aspetti finanziari, demaniali ed agli investimenti in corso.

Comma 838. 

L’attuazione delle previsioni relative alla compartecipazione al gettito delle imposte di cui alle lettere a) e m) del primo comma dell’articolo 8 dello Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, non può determinare oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato superiori rispettivamente a 344 milioni di euro per l’anno 2007, a 371 milioni di euro per l’anno 2008 e a 482 milioni di euro per l’anno 2009. La nuova compartecipazione della regione Sardegna al gettito erariale entra a regime dall’anno 2010.

Comma 839. 

Dall’attuazione del combinato disposto della lettera f), del primo comma, dell’articolo 8 del citato Statuto speciale di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, come da ultimo sostituito dal comma 834 del presente articolo, e del comma 836 del presente articolo, per gli anni 2007, 2008 e 2009 non può derivare alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Per gli anni 2007-2009 la quota dei nove decimi dell’imposta sul valore aggiunto sui consumi è attribuita sino alla concorrenza dell’importo risultante a carico della regione per la spesa sanitaria dalle delibere del CIPE per gli stessi anni 2007-2009, aumentato dell’importo di 300 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009.

Comma 840. 

Per gli anni 2007, 2008 e 2009 gli oneri relativi alle funzioni trasferite di cui al comma 837 rimangono a carico dello Stato.

L’ultimo comma aggiunto all’articolo 8 che prevede la compartecipazione della Regione anche ai tributi diretti e indiretti maturati in ambito regionale ma riscossi fuori del nostro territorio è entrato in vigore nel 2010.

Sulla base delle nuove disposizioni le entrate fiscali (fonte CPT) riferibili alla Sardegna ammonterebbero per l’anno 2021 (in milioni di euro) a € 24.164,35, mentre i trasferimenti operati dallo Stato italiano sarebbero pari a € 30.812,65, per cui risulterebbe un residuo fiscale negativo pari a € 6.648,30. Ogni residente in Sardegna riceverebbe in più dallo Stato una cifra rispondente a circa 4.155,00 euro. A tale proposito, non avendo la possibilità di verificarne l’attendibilità, è lecito solo dubitare che i dati su riportati siano corretti e, anche se lo fossero per quanto verrà riportato in seguito, si ritiene che la Sardegna vanti ancora un credito consistente nei confronti dello Stato italiano. Il problema, di ordine politico e, si badi bene, solo conseguentemente contabile, è farselo riconoscere per poi pervenire alla riscossione.

Intanto, possiamo tranquillamente affermare che fino all’anno 2010, in base alle norme vigenti, in primis i D.P.R. 917/86 e D.P.R. 633/72, e le altre che regolano il prelievo fiscale, una cospicua parte delle imposte dirette e indirette versate dai contribuenti, non venivano riscosse nel nostro territorio dove si creava la base imponibile, ma dove il contribuente, individualmente o in forma societaria, aveva il domicilio fiscale.

La scelta legislativa, applicata fino al 2010, di individuare il luogo di riscossione o d’imputazione delle imposte nel luogo di domicilio fiscale del contribuente, anziché nel luogo di produzione della ricchezza o della materia imponibile, era solo una convenzione fondata sulla presunta esigenza di rendere agevole l’adempimento tributario del contribuente, e non di stabilire un legame diretto tra luogo di produzione del reddito e versamento delle imposte.

Tale scelta per oltre 60 anni, ha comportato che la totalità delle imposte e tasse dovute dalle ditte individuali e dalle società commerciali che operavano nel nostro territorio, e qui producevano base imponibile, non risultavano riscosse nella Regione Sardegna ma, in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e nel resto del territorio italiano dove le stesse avevano il domicilio fiscale o la residenza anagrafica. L’elenco sarebbe lunghissimo e qui ci si limita nel ricordare che la stragrande maggioranza delle banche, delle compagnie di assicurazione, aziende di trasporti aerei e marittimi, grande distribuzione commerciale, aziende che operano nel settore turistico, telecomunicazioni ed energia, non dispongono di sede in loco.

Lo stesso avveniva per tutti i contribuenti di derivazione peninsulare che avevano le seconde case in Sardegna e pagavano l’IRPEF maggiorata di un terzo nei loro Comuni di residenza e non nei Comuni della Sardegna, dove ricadevano le loro case.

Inoltre, non facevano capo alla Sardegna tutte le ritenute IRPEF che venivano operate sugli stipendi dei dipendenti pubblici (insegnanti, magistrati, etc.) per i quali le buste paga venivano elaborate nel Centro elaborazione dati dei vari Ministeri di riferimento, situato a Latina, mentre le ritenute risultavano versate nella Regione Lazio.

Le imposte riscosse in Sardegna sulla base di questa convenzione e in applicazione (da oltre 60 anni) dell’art. 8 dello Statuto Speciale, sono state di gran lunga inferiori a quelle che saranno quantificate e riscosse con l’applicazione del nuovo criterio previsto dal novellato art.8.

Sarebbe utile e vantaggioso per noi quantificare l’ammontare delle imposte che in 60 anni sono state incamerate dallo Stato e non restituite alla Sardegna. A questo ammontare dovremmo sommare anche gli interessi e tutti gli indennizzi che lo Stato italiano dovrebbe corrisponderci per l’uso del nostro territorio, per esempio quello gravato dalle servitù militari e nella dubbia ottemperanza delle normative ambientali.

Nell’ottica di un’ipotetica e graduale affermazione della sovranità della nostra autonomia, le risorse finanziarie suindicate, nel breve periodo potrebbero essere usate per sopperire all’eventuale contrazione delle entrate tributarie.

Appare del tutto verosimile, sulla scorta delle numerose esperienze internazionali, che con un sistema fiscale quale quello ivi abbozzato, che preveda oltre alla possibilità di riscuotere tutte le imposte e tasse, anche la necessaria autonomia impositiva (con la previsione di poter stabilire aliquote differenziate rispetto al resto del territorio italiano), nel giro di pochi anni la Sardegna potrebbe diventare attrattiva per numerose imprese e, persino, per molti contribuenti italiani ed europei che si trasferirebbero nella nostra isola apportando vitali risorse umane e finanziarie.

6.2 I poteri e le risorse come strumenti di esercizio della responsabilità ai diversi livelli istituzionali

La costruzione di una architettura federale, realizzabile in Italia con una modifica di alcuni articoli della sua Carta costituzionale, sul piano formale richiede modifiche che impattino su due dimensioni in modo particolare: i poteri attributi a ciascun livello sulla base del principio di sussidiarietà e le risorse, finanziarie, umane e materiali, necessarie per l’esercizio di quei poteri.

Sotto questo profilo non si parte da zero. Si tratta di ragionare intorno ai poteri oggi delegati dallo Stato per verificarli e, se necessario, modificarli in funzione del principio secondo cui tutto ciò che si può fare a livello più vicino del cittadino deve rimanere a tale livello. Il Comune è, pertanto, titolare primo di tali poteri, ripartendo da quanto previsto nella Legge 8 giugno 1990, n. 142 in cui si definiva questo ente come quello che “rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Via via che si sale di livello si individuano poi gli altri Enti fino ad arrivare allo Stato e all’Unione europea. I diversi confini tra questi livelli, pertanto sono tutti importanti e nessuno è e deve diventare, come purtroppo è accaduto finora, un “dogma” in nome del quale fare guerre o impedire legittime aspirazioni di libertà dei popoli che vi abitano all’interno.

Per quanto riguarda le risorse vale lo stesso ragionamento. Ogni livello istituzionale deve essere dotato di risorse proprie in funzione degli obiettivi della propria azione di governo. In questo senso, il concetto di federalismo fiscale non è opzionale rispetto al federalismo ma ne è parte costitutiva senza il quale non si potrebbe neppure fare riferimento ad una architettura federale.

Alcune conclusioni

Calando il ragionamento di cui sopra alla Sardegna, si può affermare, senza tema di smentita, che questa terra e questo popolo sono oggi una parte dell’insieme Italia65, costruita fino a oggi sulla base di un processo di integrazione per colonizzazione, visto che una parte (la nazione italiana) ha prevalso sull’altra (la nazione sarda, anche se il tema coinvolge altre Nazioni senza stato presenti nel territorio della Repubblica), costringendola in molti casi a perdere alcuni tratti distintivi. Per esempio criminalizzando l’uso della lingua sarda e imponendo per sostituzione l’uso dell’italiano, ovvero allorché l’introduzione della Legge delle chiudende pur volendo creare i presupposti per la responsabilizzazione degli attori economici di fatto diede avvio a un iniquo assalto ai terreni di ogni tipo da parte dei soggetti più forti e aumentando in questo modo le diseguaglianze tra feudatari e piccoli agricoltori e allevatori.

Questa evoluzione storica è alla base non solo delle difficoltà di sviluppo sociale ed economico ma più in generale di un diffuso malcontento che si sostanzia nella legittima contestazione delle attuali istituzioni che sono all’origine della rivendicazione di una capacità di autogoverno secondo quanto previsto dal principio di autodeterminazione dei popoli affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55), nonché ribadito nella Dichiarazione dell’Assemblea generale dell’ONU sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960), nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966), nonché nella Carta di Algeri del 4 luglio 1976.

A partire da questo principio, nella Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, si raccomanda agli Stati membri dell’ONU di “astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione”.

Orbene, queste istanze non vanno demonizzate, come è stato fatto finora ignorando quanto indicato fin qui; una demonizzazione che discende dalla attribuzione di “sacralità” al principio di unitarietà e indivisibilità dello Stato che, si è visto, è il fondamento giuridico con il quale le diversità positive sono state finora annichilite. Una demonizzazione che non riguarda solo il popolo sardo ma che coinvolge altre Nazioni senza stato come la Catalogna, la Scozia, i Paesi Baschi, ecc.

Al contrario, occorre aprire un dibattito che, serenamente e sulla base di un metodo scientifico, possa svilupparsi rigettando i dogmatismi ideologici di posizioni che ne limitano la comprensione da un lato e la possibilità di spiegazione dall’altro.

Nelle scienze sociali, infatti, non esiste irreversibilità o un destino che si muove lungo un piano inclinato. Al contrario, molto dipende da ciò che si decide di fare, sia da parte di chi ha subito una forma di nazionalismo accentratore, sia da parte di chi l’ha posto in essere, se ci si tiene a costruire relazioni più eque e più solidali.

L’uso del termine “colonizzazione”, almeno nel caso della Sardegna, non deve scandalizzare se si analizza la storia di questa terra con un minimo di obiettività. In tal senso, pensando alla Sardegna, si rifletta su quanto Antoni Simon Mossa diceva nell’affermare che «L’oppressione coloniale si è intensificata con lo Stato italiano. L’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo».66

Rifiutare di partire dalla logica e dai fatti storici non aiuta a rimuovere quella percezione di fastidio che tanti Sardi oggi hanno nei confronti dello Stato italiano. Di converso, in questo ragionamento c’è solo la volontà di essere protagonisti del proprio destino, assumendosi la responsabilità delle decisioni e delle azioni, in un contesto solidale con gli altri popoli che abitano l’Italia, l’Unione Europea e gli altri popoli dell’area euro-mediterranea.

Nell’ambito della teoria del federalismo, questo percorso verso il basso viene definito federalismo “dissociativo”. Ciò da molti è vissuto in modo traumatico, come se si perdesse chissà cosa, mentre il tema è quello di re-distribuire il potere in senso verticale in modo coerente col principio di sussidiarietà, così come indicato anche in precedenza.

Parimenti, questo progetto non intende essere ostile all’Italia ed ai suoi cittadini, ma ritiene doveroso contribuire all’evoluzione delle sue e delle nostre istituzioni, mediante riforme democratiche. Riforme che assecondino il bisogno di sviluppo economico, sociale e culturale degli abitanti della Repubblica Italiana, entro il quadro del più ampio sogno europeo e nel rispetto del Diritto Internazionale.

1 https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/mercati-internazionali/accordi-bretton-woods-e-la-sua-fine.htm

2 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=legissum%3Axy0022

3 https://www.eda.admin.ch/europa/it/home/europaeische-union/erweiterungsprozess.html

4 https://www.ilsole24ore.com/art/brexit-ora-maggioranza-cittadini-non-vuole-piu-ADZt1Da

5 Bomboi A. (2019), Problemi economico-finanziari della Sardegna, Condaghes.

6 Il Sole 24 Ore, Conti pubblici, 15-04-2024.

7 Si veda della Banca d’Italia (2023), Rapporto Economie Regionali Sardegna, pag. 22.

8 Barone N., Confronto salariale in Italia, Il Sole 24 Ore, 14-12-2023.

9 inps.it/docallegatiNP/Mig/InpsComunica/WorkInps_Papers/10_WorkINPS_Papers_19febbraio_2018.pdf

10 Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, pag. 62, Tabella 2.2.

11 Più lavoro per i laureati STEM, di E. Bruno, Il Sole 24 Ore, 25-01-2023.

12 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, 2024, pag. 144.

13 Codogno, L., Galli, G. (2022). Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce, Il Mulino, Bologna.

14 Dati Eurostat 2020, in Quotidiano Sanità, 11-09-2023.

15 Indicatori Istituto Superiore della Sanità, PASSI 2021-2022, Roma, in epicentro.iss.it/passi/dati/alcol

16 R. M. Solow – Learning from ‘Learning by Doing’, Stanford, 1997.

17 Manfredi T., “La contrattazione decentrata: più lavoro e più efficienza”, Strade Online, 30-11-2015; Lagrosa I., “Salari differenziati, se copiassimo la Germania vantaggi per tutti”, Mondoeconomico, 20-02-2023.

18 Si vedano i Grafici 1 e 2, Taxing Wages 2024. Tax and Gender through the Lens of the Second Earner, OECD, Parigi, 2024

19 Pp. 1-4, P.A: Pagamenti lumaca – Nota Ufficio Studi CGIA di Mestre, 22-06-2024

20 Cfr. Tabella B, bilancio dello Stato, in La spesa statale regionalizzata. Stima 2022, RGS-MEF, pag. 14, Roma, 01-2024.

21 Si veda la Fig. 2, Entrate e spesa della PA, pag. 7, in La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni, di G. Galli e G. Gottardo, OCPI-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 26-09-2020

22 Con riferimento agli studi di Aresu, Marrocu e Paci (2022), su disaggregazione dati CPT per il periodo 2000-2019, si veda Crenos (2023). 30° Rapporto Economia della Sardegna, Crenos/Unica, Cagliari, pagg. 53-54.

23 Crenos (2024). 31° Rapporto Economia della Sardegna, Cagliari, pag. 161.

24 Dati elaborati da Ufficio Studi CGIA di Mestre su statistiche INPS e ISTAT, pag. 5, Nota CGIA, 18-11-2023

25 Tavola 7, pag. 6, Statistiche in breve su Gestione Dipendenti Pubblici, INPS, Roma, 05-2024

26 Report indicatori demografici anno 2023, ISTAT, Roma, 29-03-2024

27 Population in brief 2023, Singapore Department of Statistics, 09-2023

28 Sul tema, si consiglia il testo di T. A. Teo, Civic multiculturalism in Singapore. Revisiting Citizenship, Rights and Recognition, Palgrave Macmillan, Cham, 2019.

29 Pag. 29, rapporto Economie Regionali della Banca d’Italia, Sardegna 2023

30 A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020, pag. 27.

31 Sul tema, tra i vari, si segnalano: Entrepreneurship in Small Island States and Territories, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2015; The Success of Small States in International Relations, di G. Baldacchino, Routledge, New York, 2023; The Size of Nations, di A. Alesina, E. Spolaore, The MIT Press, Cambridge, 2003; Integration and International Dispute Resolution in Small States, di P. Butler, E. Lein, R. Salim, Springer, Cham, 2018; When Small States Make Big Leaps, di D. Ornston, Cornell University Press, Ithaca, 2012; Offshore Finance and Small States, di W. Vlcek, Palgrave Macmillan, New York, 2008; The Small States Club, di A. Sarkissian, C. Hurst & Co. Publishers, London, 2023.

32 pag. 123, A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Marsilio, Venezia, 2020; Pp. 583 ss., J. M. Buchanan, Federalism and fiscal equity, in The American Economic Review, 1950.

33 Residui fiscali al netto della spesa per interessi, anno 2019. Totale calcolato sulla popolazione sarda censita al 31-01-2024. Nota CGIA di Mestre su dati Banca d’Italia e Conti Pubblici Territoriali, Tab. 1, pag. 5, del 04-02-2023.

34 Legge costituzionale n. 2, 07 novembre 2022/GU Serie Generale n.267 del 15-11-2022.

35 Jugl, M. (2019). Finding the golden mean: Country size and the performance of national bureaucracies. Journal of Public Administration Research and Theory, 29(1), 118-132.

36 Vedere pp. 117-118, de “La riemersione dell’insularità in Costituzione”, di L. M. Tonelli, in Osservatorio Costituzionale, AIC, Roma, Fasc. 06/2022.

37 Nel merito, si consiglia E. Longo, Regioni e diritti. La tutela dei diritti nelle leggi e negli statuti regionali, EUM, Macerata, 2007.

38 Revisione intervento di A. Bomboi, “Insularità in Costituzione? Già esistita sino alla riforma del Titolo V°”, in Istituto Bruno Leoni, blog 23-10-2020.

39 Bottazzi, G. (2014). Sociologia dello sviluppo. Gius. Laterza & Figli Spa, pag. 71.

40 J. M. Buchanan, G. Tullock, Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1998.

41 Vedere anche capitolo X° in A. Bomboi, L’indipendentismo sardo. Le ragioni, la storia, i protagonisti, Condaghes, Cagliari, 2014, e cap. XII°, in A. Bomboi, Problemi economico-finanziari della Sardegna. L’isola può farcela da sola?, Condaghes, Cagliari, 2019.

42 Sul tema si veda Codonesu F., Servitù militari modello di sviluppo e sovranità in Sardegna, CUEC, Cagliari, 2013.

43http://www.richschwinn.com/richschwinn/index/teaching/past%20courses/Econ%20340%20-%20Managerial%20Economics/2013%20Fall%20340%20-%20The%20Nature%20of%20the%20Firm.pdf?fbclid=IwAR1OKjQVzOa_RPtJ1vHh-XML9avY_mZV536sJ6w6we53kRdnFW6sBBSX7xU

44 Popper K.R. (1990). La scienza e la storia sul filo dei ricordi. Intervista di Guido Ferrari, Jaca Book-Edizioni Casagrande, Bellizona, pp.24-25.

45 Esattamente quello che è accaduto nella penisola italica a partire dal 1720 quando il Regno di Sardegna passò ai Savoia che poi, dopo l’occupazione degli altri regni e territori della penisola, diedero luogo al Regno d’Italia diventata Repubblica dopo il referendum post-bellico del 1946.

46 Ci si vuole in sostanza riferire al fatto che l’unificazione dell’Italia è stata imposta dall’alto, senza il consenso delle popolazioni, e che presupporre che esista un popolo italiano è una forzatura in termini storici. È vero invece che più popoli, insistenti su territori differenti, con proprie specificità sono stati messi insieme per volontà del governo sabaudo e per interesse delle classi industriali del nord della penisola italica. Quando Massimo D’Azeglio affermò che “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani” non faceva altro che evidenziare queste diversità, allora considerate negative e, per questa ragione, oggetto di progressiva eliminazione, ancorché, a tutt’oggi, non ci sia riusciti, per fortuna.

47 Un articolo interessante per capire come sia nata la Confederazione elvetica si trova qui https://www.swissinfo.ch/ita/come-la-svizzera-diventò-la-svizzera–le-tappe-fondamentali-prima-del-1848/45810668. Di rilievo appare anche questo articolo in cui si spiegano le ragioni che supportano, ancora oggi, la presenza dei Cantoni, da taluni ritenuti troppo piccoli e che altri, invece, considerano fondamentali per la conservazione degli equilibri fin qui raggiunti. https://www.swissinfo.ch/ita/federalismo-cantoni-svizzera-quanti-ce-ne-vogliono/41171660

48 Si pensi, riferendoci alla Sardegna, al processo di industrializzazione realizzato col Piano di rinascita basato su alcuni errori di fondo, tra cui da un lato quello di pensare che la trasformazione dei lavoratori da agricoltori e allevatori in operai potesse eradicare definitivamente il banditismo. Peraltro creato proprio dalle politiche sabaude sia con la legge delle chiudende che con altri interventi che hanno accresciuto le disparità socio economiche, e dall’altro, dal ritenere che lo sviluppo industriale basato sulla grande industria motrice potesse far nascere un indotto di imprese ad esse collegate.

49 Contu G. (2002). Il federalismo nella storia della Sardegna contemporanea. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 16.

50 Nell’ordinamento italiano, si distingue una sussidiarietà verticale, che è il criterio di allocazione delle competenze fra livelli di governo differenti e mira ad attribuire la generalità delle competenze e delle funzioni alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini; e una sussidiarietà orizzontale, che contempla la suddivisione dei compiti fra le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati. Tuttavia, è utile considerare che il principio di sussidiarietà verticale è stabilito anche dall’art. 5 del Trattato della Comunità europea: “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene […], soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono, dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.

51 Cfr. Lobrano G. (2002). Fderalismo e De-centramento. I caratteri e le distinzioni. In AA.VV. (2002). Il Federalismo Sardo, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 6 e 7 dicembre 2001. Edizioni Fondazione Sardinia, p. 111.

52 A questo proposito è utile richiamare quando recitava l’articolo 2 della legge 142 del 1990 che disciplinava l’Autonomia dei comuni e delle province. In particolare, esso stabiliva testualmente:

“1. Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome.

2. Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.

3. La provincia, ente locale intermedio fra comune e regione, cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale.

4. I comuni e le province hanno autonomia statutaria ed autonomia finanziaria nell’ambito delle leggi e del coordinamento della finanza pubblica.

5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie.”

53 Questo paragrafo riprende, leggermente adattato da Francesco Casula, un articolo pubblicato il 3 marzo 2015 dallo stesso nella rivista online Truncare sas cadenas. https://truncare.myblog.it/2015/03/03/federalismo-pacifismo-il-messaggio-lussu-40-anni-dalla-morte-francesco-casula/

54 L’intera frase virgolettata è tratta da Norberto Bobbio, “Federalismo”. “Introduzione a Silvio Trentin”.

55 Vargiu A. (2006). I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del ’44. Edizioni ISKRA, Ghilarza.

56 Illuminanti, in proposito, sono le tesi dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, il quale rifiuta la presenza di un’autorità governativa che pone alla schiavitù gli individui, non condividendo quindi gli ideali tipici collettivistici in cui era necessaria la stessa. Per questo studioso, lo Stato si deve limitare a porre in essere e in modo semplice le regole basilari per favorire lo scambio tra individui. Cfr. Hayek (von) Friedrich A., Individualismo: quello vero e quello falso, Rubettino, 1990.

57 L’articolo 2 recita testualmente: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

58 https://www.unesco.beniculturali.it/wp-content/uploads/2017/11/convenzione2005.pdf

59 A tale proposito sarebbe utile prendere esempio dalla vicina Confederazione elvetica dove grazie a questo istituto il popolo ha davvero possibilità di incidere positivamente sul processo legislativo. Si veda per esempio https://www.swissinfo.ch/ita/strumentario-della-democrazia-svizzera_il-referendum–ovvero-la-politica-sotto-una-spada-di-damocle/44101794

60 Il contenuto di questo paragrafo deriva in gran parte da questo documento https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/12/diritto-alla-felicita-cosa-ne-pensa-popolazione-mondiale

61 Risoluzione A/RES/66/281 del 12 luglio 2012 dichiara che “L’Assemblea generale […] consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, […] riconoscendo inoltre di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata internazionale della felicità (International Day of Happiness)”.

62 Ogni anno, in occasione della celebrazione della giornata internazionale della felicità, l’ONU pubblica il World Happiness Report, un rapporto nel quale è riportata la lista dei Paesi più felici del mondo sulla base di criteri quali il Pil pro capite, il welfare, le aspettative di vita, la libertà, l’assenza di corruzione e la cooperazione sociale.

63 Cfr. https://unric.org/it/agenda-2030/

64 AA.VV. (1988). Giovanni Battista Tuveri. I tempi, le idee, le opere, i testi significativi di un pensatore nella Sardegna dell’Ottocento, Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari, p. 154.

65 Non è casuale l’uso della parola insieme e non sistema.

66 In https://www.algheroturismo.eu/event/5-frasi-per-conoscere-antoni-simon-mossa-il-politico/