L’imbarazzo per i nostri abiti tradizionali prova la nostra subalternità culturale.

L’imbarazzo registrato nelle cronache di questi giorni per i nostri abiti tradizionali indossati da una delegazione di donne sarde nella Capitale prova la nostra subalternità culturale e più ancora è testimone della violenta repressione subita negli ultimi 100 anni ad opera dello Stato su tutti i nostri usi e costumi. Molto sinceramente a volte arabi ed africani possono apparire un po’ ridicoli con i loro abiti tradizionali, ma ai miei occhi lo sono molto di più quando indossano in modo totalmente innaturale la giacca e la cravatta.

Mutuo un commento di un membro di Facebook per spiegare ulteriormente il mio pensiero: “Fin dai tempi della “Fusione Perfetta” si pose il problema dell’uso dell’abito tradizionale all’interno del Parlamento ed è indiscutibile che il costume (e il vestiario in particolare) sia stato uno dei fattori più incisivi sul piano della riduzione subculturale delle tradizioni dei Popoli, tanto da indurre, per esempio, i sardi a definire “civile” (vestire “a sa tzivile”, come ci ricorda Satta) l’abbigliamento borghese occidentale, conferendo una precisa connotazione di superiorità etica all’introduzione del canone estetico “continentale”. Il significato politico di questo gesto da parte delle rappresentanti femminili del mondo pastorale mi sembra di tutta evidenza e non può essere decontestualizzato dalla sua storia, ridicolizzandolo al livello di una genuflessione tribale davanti al conquistatore europeo. Questo, d’altra parte, non significa che dobbiamo accostarci in modo totalitario al vestiario per definire il nostro belonging specifico, ma bisogna essere capaci di riconoscere il profondo carattere politico di certi gesti”.

Mi pare di una certa utilità anche il pensiero di un utente oltre mare, che testualmente afferma: ”
E’ un errore ritenersi subalterni, poi a chi, ai mangia polenta? Avete da essere orgogliosi delle vostre tradizioni. Vengono solo a copiare dai vostri splendidi costumi. Daih, aio!”