La pittura sarda del secondo ‘900 con gli occhi di un bambino

(Riflessioni su come vedevo la pittura da bambino)

Negli anni ’70 del secolo scorso, attorno all’età di dieci anni, ebbi la fortuna di poter ammirare in casa per più di un decennio diversi quadri di pittori sardi e sebbene non avessi alcuna minima competenza artistica questo fatto ha segnato i miei gusti ed il mio angolo di visuale della pittura in Sardegna per i successivi decenni. Lungi da me abbozzare la benché minima critica d’arte, non ne sarei capace e non fa parte della mia formazione culturale, ma mi sono sempre considerato un professore di lettere, storia e filosofia mancato a causa dell’opposizione di mio padre verso gli studi umanistici, finendo per spingermi a scegliere la facoltà di giurisprudenza (dove non a caso ho scelto di inserire ne piano di studi due esami integrativi di storia (storia moderna e storia del risorgimento). Il mio articolo intende comunque portare alla ribalta un movimento artistico che in passato mi è parso particolarmente fecondo, ma che la crisi economica degli ultimi vent’anni mi pare abbia finito per penalizzare oltremodo. Prima della crisi economica strutturale un quadro d’autore era considerato a tutti gli effetti un bene rifugio contro l’inflazione ed un modo intelligente di investire i danari che l’economia tumultuosa di allora permetteva di guadagnare e ciò in qualche modo concorreva alla più facile promozione e circolazione delle opere d’ingegno. Ora pare tutto molto diverso e la mia impressione è che quella ribalta sia in buona parte andata persa e con essa la circolazione di idee, tecniche, contenuti artistici. Del resto la storia del mondo e non solo quella locale, è là a testimoniare che l’arte il più delle volte si sposa con le fortune economiche che le esprime, coincidendo con i momenti più fortunati delle civiltà, dei prìncipi, degli Stati.

Dei quadri che citerò ho la fortuna di avere copia fotografica, in quanto a suo tempo oggetto di polizza assicurativa.

I primi due quadri che mi vengono in mente sono quelli di Libero Meledina (Sassari 1918 – 1995), considerato dai più il maestro del realismo sardo. Da bambino ero molto attratto dai loro colori vivaci e ricordo molto bene che ovunque ci fossero sue opere il soggetto era quasi sempre titolato “le raccoglitrici di olive” (su tutti quelli che potevo ammirare a casa dell’olzaese Dott. Pietro Murgia nella sua residenza cagliaritana). I quadri che avevamo in casa erano invece uno scorcio del porto di Alghero e una donna su prato. Il tratto e lo stile erano molto riconoscibili e le sue opere potevo distinguerle ovunque e a distanza considerevole. Molti anni fa alcune sue opere furono oggetto di sequestro da parte dei Carabinieri con una denuncia di falsificazione a carico del possessore, che dopo molte traversie riuscì a dimostrare l’inconsistenza delle accuse. Dovette intervenire addirittura la figlia dell’autore per arrivare ad un’accertamento definitivo sull’autenticità, essendoci intanto stata in precedenza una perizia sfavorevole da parte del tribunale.

Un altro quadro denso di grande dignità e severità era senz’altro quello che, secondo i miei ricordi, avrebbe dovuto rappresentare una giovane donna di Mamoiada che non ricordo se opera di Antonio Ruiu (Nuoro 1923 – 2006), noto Tonino e a volte Nino o Costantino Spada (Sassari 1922 – 1975). Lo sguardo, appunto, molto fiero e severo della donna in “costume” dipinta dal Ruiu (o Spada) ben rappresentava quell’austerità e quell’orgogliosa fierezza tipica delle donne della Barbagia, incutendo su di me bambino e poi ragazzo un senso di inadeguatezza. Del resto io, con una lontana ma ben definita origine baroniese e vicina stirpe barbaricina, avevo direttamente sperimentato la durezza del carattere delle donne di questi luoghi, capaci di parlare con gli occhi, di consegnare le più gravi decisioni attraverso eloquenti silenzi.

Di grande impatto emotivo era anche il quadro del pittore Dikerson (o Dickerson), del quale purtroppo non ho notizie precise. In ogni caso il richiamo al concetto di famiglia un po’ tenero e sdolcinato confliggeva alquanto con la mia idea di donna e di madre che mi avevano trasmesso le donne della mia famiglia, ad iniziare da mia Nonna, per continuare a mia madre e le mie zie sarde, tutte indistintamente frutto concreto dell’organizzazione una volta matriarcale della società sarda, società nella quale la figura femminile non solo era centrale, ma godeva di un rispetto e di spazi sconosciuti alla maggioranza delle realtà della penisola.

A compensare decisamente questo clima serio e a volte un po’ cupo erano appesi nella sala due fresche opere di Francesca Devoto (Nuoro 1912 – 1989), esponente di una nota famiglia di imprenditori nuoresi, ma di fatto originari di Cagliari. Nonostante ella appartenesse ad una vecchia generazione di artisti, la sua pittura, per me giovanissimo, appariva estremamente moderna e diretta, con un linguaggio capace di grande espressività. I suoi quadri mi suggerivano un mondo più sereno e più gioioso; le belle figure di donne erano rese estremamente credibili grazie alla citazione di una bellezza semplice, un po’ statuaria, ma molto vicina ai classici canoni della tradizione isolana. Inoltre la femminilità dell’autrice ingenerava in me un senso di maternità e nel contempo di curiosità e distinzione.

Nelle grandi pareti delle scale, appena oltre l’ingresso, prendevano posto due grandi opere “monumentali” e molto ingombranti del pittore Mario Delitala, forse più adatte ad una cappella di una chiesa neoclassica piuttosto che ad una abitazione privata. I soggetti, di chiaro richiamo religioso, mi hanno sempre fatto considerare questi quadri fuori luogo ed ai miei occhi di bambino dell’immediato dopo guerra, con addosso l’aria pregnante della vita di chiesa, del catechismo, delle preghiere della notte, della devozione di mia nonna per il Sacro Cuore di Gesù, Padre Pio e Papa Giovanni XXIII, con le mie continue frequentazioni dell’Istituto delle figlie di Maria Ausilatrice, queste opere richiamavano troppa serietà, troppo rispetto, eccessiva ritualità che mal si conciliavano con la naturale tendenza al gioco ed alle distrazioni. Certamente la processione e la via crucis esprimevano molto bene la capacità del pittore di trasferire sull’osservatore proprio quel senso di spiritualità profonda che incuteva su di me rispetto e timore reverenziale.

Un autore estremamente eclettico, moderno e fuori dagli schemi era ed è per me Franco Bussu, allievo del grande pittore Carmelo Floris di Olzai e di Stanis(lao) Dessy. Mio padre si trovò attorno al 1976 alla Galleria Contini di Oristano ed a fine mostra ne acquistò probabilmente l’intero stock residuo. Il numero complessivo di quadri acquistati superava sicuramente il numero di venti. Il quadro più grande, che sovrastava un mobile orizzontale della sala, era quello raffigurante un campo di papaveri, un tema in quel periodo ripetuto in diverse opere, con diverse varianti. Uno di questi, raffigurante un campo di tulipani (almeno così ricordo), era in bella mostra nell’ufficio direzionale del Sig. Lucio Vinci, noto imprenditore macomerese. Attualmente di Franco Bussu possiedo ancora “Il fumatore” e “Il Convegno” ed alcuni paesaggi, ma molto sinceramente prediligo senza tentennamenti i paesaggi, per la loro capacità di esprimere con pochi e decisi tratti i colori e la luce della Sardegna. Sono opere che ho molto apprezzato con il passare degli anni e che si distaccavano completamente da tutto l’altro materiale appeso in casa.

Sarebbe difficile, per noi sardi, non annoverare il grande Aligi Sassu tra i sardi più sardi, forse per l’orgoglio di essere illuminati almeno un po’ della sua grandezza ed esserne partecipi. Ciò che è certo è che il padre Antonio era Sassarese, ma lui nacque a Milano. Io, con gli occhi da bambino, lo accostavo al grande De Chirico, non foss’altro perché i due soggetti in nostro possesso erano per l’appunto dei cavalli rampanti di colore verde e se ricordo bene azzurro. Non avendone foto, per mia personalissima analogia infantile, ho riportato il quadro del grande De Chirico che mio padre vendette attorno al 1985.

Della collezione degli anni ’70 mi rimane un’altra opera estremamente forte nel suo significato e nella sua drammaticità; il suo titolo è “Il sequestrato” e l’autrice e l’insegnante Marisa Tondo di Macomer, recentemente scomparsa. L’opera è del 1969 e rappresenta sin troppo bene la piaga che ha colpito la Sardegna per secoli con una particolare recrudescenza dagli anni ’60 agli anni ’90. Tutti avevamo un amico o un conoscente che era stato vittima di questo tremendo reato che per molto tempo aveva goduto della tacita approvazione morale di parte considerevole dei sardi che scambiava intollerabili reati per azioni accostabili alle gesta di Robin Hood, quasi che i sequestri potessero rappresentare un giusto strumento di redistribuzione del reddito. Non ci sono parole per esprimere la mia solidarietà personale verso le vittime di questo vergognoso reato e ne sono state colpite famiglie a me vicine, ad iniziare (quando avevo solo 7 anni) dalla famiglia del Dottor Ninna, medico condotto in Ottana, i cui figli furono compagni di scuola di me e di mia sorella, per finire alla famiglia Vinci di Macomer (Giuseppe rimase nelle mani dei sequestratori per moltissimi mesi)

Non potevo che chiudere con le opere appese nelle camere mia e di mia sorella. A distanza di anni devo dire che i miei genitori seppero concederci qualcosa di più adatto a noi, acquistando circa 20 piccoli quadretti dell’autore cagliaritano Pautasso, del quale peraltro non ho precisi riferimenti, tutte rigorosamente dell’anno 1974. Una serie rappresentava un personaggio a metà strada tra un musicista ed un direttore d’orchestra, ma i pezzi davvero spassosi erano quelli che giocavano sui profili inconfondibili delle attempate donne sarde con fazzoletto sul capo. Ancora oggi come allora mi regalano un sorriso ed ai tempi bilanciavano ampiamente la severità di tutte le altre opere presenti in casa. Certo avevano qualche difficoltà a misurarsi con le opere, di cui non ho più documentazione, di Vincenzo Manca (una processione), Giuseppe Biasi (una stupenda cavalcata sarda), Antonio Corriga (se non erro un ritratto), Enrico Piras ed il suo già citato maestro Carmelo Floris e tante altre ancora, ma ho sempre sostenuto che l’arte figurativa, come tutte le discipline (musicale, cinematografica, teatrale) non può essere relegata al dramma, ma se sostenuta dall’intelligenza può validamente allargarsi all’umorismo (che, come era solita sottolineare la mia professoressa di Italiano Boi, non era da confondere con la mera comicità) senza perdere la sua piena e alta valenza artistica. Il mio auspicio è che il futuro prossimo ci regali nuovamente la possibilità di un’esistenza che possa dedicare ai proverbiali “ozi latini” il tempo che meriterebbero.