LA PASQUA EBRAICA E “SU PANE PURILE” IL PANE AZZIMO SARDO – di Mario Carboni

(Da un articolo di Mario Carboni). La lingua sarda è una lingua neolatina originale e a sé stante, per questo è studiata dai linguisti di tutto il mondo anche per sue caratteristiche che la differenziano dalle altre cugine neolatine come lo spagnolo, il catalano, l’italiano, il friulano, il ladino, il francese ed il romeno. Senza entrare nel merito di queste tante particolarità e differenze è interessante ricordare quattro evidenze che sono un esempio dei rapporti millenari della Sardegna col giudaismo e che sono parte fondante della sua cultura identitaria.In sardo il mese di Settembre che sin dagli antichi documenti è Caputanni, oggi pronunciato Cabudanni o Cabidanni corrisponde ad una traduzione letterale di Rosh Hashanah (in ebraico: ראש השנה‎) indicando l’inizio dell’anno ebraico e dell’anno agrario sardo.Il Venerdì in lingua sarda è Chenàbura corrispondente alla Coena pura ( Cenapura ) che Sant’Agostino nella sua lettera ai Corinzi descriveva come rispettata dagli Ebrei africani per designare la vigilia di Pesah , la Pasqua ebraica, durante la quale si deve rimuovere da casa ogni traccia di lievito e mangiare esclusivamente pane azzimo cioè non lievitato ( in ebraico matzah).Anche Lampadas che indica in sardo il mese di Giugno ha un’origine ebraica ricordando le lampade e i fuochi che venivano accesi nel solstizio d’estate e non le calende Julie dedicate al sole e in onore della dea Giunone.Il motivo del radicamento di questi termini ebraici in sardo deriva dal fatto che la Sardegna rimase per molti secoli dipendente dall’Esarcato d’Africa o di Cartagine che era una articolazione amministrativa dell’Impero bizantino e nel quale si parlava un particolare latino diverso da quello europeo e che si evolse nell’Esarcato in un gruppo linguistico neolatino-africano nel quale erano forti le influenze del cartaginese, del libico, del numidico e del sardo nuragico prelatino, caratterizzato da un particolare accento latino-africano che si suppone somigliasse foneticamente molto al sardo antico.Secondo Max Leopoldo Wagner il grande linguista e insuperato studioso della lingua sarda, questi termini furono importati in Sardegna dagli Ebrei dell’Africa settentrionale e dato che nei primi tempi del cristianesimo ebrei e cristiani convivevano ancora senza particolari conflitti , in seguito furono adottati nella loro lingua volgare anche dai cristiani divenuti maggioranza che divenne di tutti i sardi.Dopo l’arabizzazione coatta del nord Africa, che vide oltre cento anni di resistenza guerreggiata delle tribù ebraiche che causò in seguito una grande fuga di ebrei e cristiani verso la Sardegna, di questo latino-africano è rimasta solo la lingua sarda e solo qualche traccia del latino-africano è riscontrabile nell’odierno berbero a testimoniare quel lontano passato.Chenàbura, Cabidanni e Lampadas sono un’eredità linguistica che corrisponde anche alle successive ondate di ebrei che antedecemente vennero in Sardegna assieme ai Fenici a partire dai tempi del Re Salomone intorno al 950 a.e.v. , seguendo fra i 535 e il 510 a.e.v. con i Cartaginesi che per primi assoggettarono militarmente i sardi nuragici e i fenici loro alleati e ormai sardizzati , continuando con i 4.000 liberti Ebrei deportati nel 19 e.v. per ordine di Seiano Ministro di Tiberio e anche negli anni 430 e.v. con i rifugiati ebrei e cristiani nordafricani sbarcati nell’Isola a seguito della conquista vandalica del Nord Africa.Già dal IV Secolo e.v. era possibile individuare forti nuclei ebraici a Caralis, Sulci e Tharros e durante i tanti secoli di dominazione cartaginese la lingua punica che era una lingua semitica affine alla fenicia e all’ebraica, si diffuse moltissimo specialmente nelle coste, nelle città e assieme alle istituzioni e modi di vivere soprattutto a Cagliari tanto che sino ai primi secoli dell’Impero romano nel sud Sardegna si parlava ancora punico e venivano eletti i Sufeti come organi di autogoverno riconosciuti dai romani che in seguito latinizzarono tutta lingua facendo scomparire sia il punico che la lingua nuragica.In seguito una forte traccia della presenza ebraica l’abbiamo da un fatto accaduto la Domenica della Pasqua (cristiana) del 599 e.v. quando un Ebreo convertito di nome Pietro entrò nella Sinagoga di Cagliari con dei facinorosi profanandola col deporre la sua veste battesimale, un crocifisso ed un’immagine della Vergine costringendo Papa Gregorio Magno, interpellato per protesta dagli Ebrei ad ordinare che i cristiani riparassero a questo gesto e rispettassero la libertà di culto della numerosa comunità ebraica.Non si sa molto della vita degli ebrei in Sardegna in un lungo periodo fra la caduta del dominio bizantino e i primi tempi dei Giudicati sardi, mentre abbiamo alcuni dati della loro presenza anche nel Giudicato d’Arborea, nei domini Pisani e Genovesi e soprattutto dall’immigrazione ebraica a seguito dell’invasione catalana e aragonese e della loro conquista del Regno di Sardegna che sostituì i Giudicati o Regni autoctoni.Pur essendo trascorsi più di cinque secoli dalla cacciata completa degli Ebrei nel 1492 da parte dei Re spagnoli e forse anche per il lascito culturale delle migliaia di ebrei che furono convertiti a forza pur di restare in Sardegna, la molto stratificata eredità ebraica nella cultura materiale identitaria sarda è presente anche nella panificazione con la confezione del pane dolce intrecciato identico alla Challah tipica dello Shabbat e soprattutto del pane àzzimo preparato e consumato per Pesah la Pasqua ebraica e chiamato in sardo Pane Purìle o Cotzula Purìle che viene confezionato senza lievito alcuno.È evidente l’assonanza fra il termine Purìle e il Purim che è la festa ebraica che ricorda lo scampato pericolo da una strage ordita da Aman Ministro del Re persiano Assuero che all’ultimo minuto per opera di Ester sventa il complotto e punisce i traditori iniziando da Aman loro capo.Che il pane àzzimo ( matzah) che è tipico della Pasqua ebraica abbia poi in sardo preso il nome di Purìle da Purim che si festeggia qualche tempo prima della Pasqua ebraica, dipende dagli effetti della sovrapposizione e spostamento di data delle feste ebraiche con date e riti cristiani, come l’appropriazione del Venerdì dello Shabbat ebraico da parte della gerarchia Greca ortodossa bizantina che fu la vera evangelizzatrice della Sardegna, trasformato in un ferreo giorno di digiuno che ne mutò radicalmente il significato e il rito formale.Ciò accadde anche per la Pasqua ebraica ( Pesah ) assorbita nel rito della Passione, morte e resurrezione del Cristo e non più come ricordo dell’uscita del popolo ebraico dall’Egitto e inizio del percorso di liberazione dalla schiavitù del Faraone e del raggiungere la Terra promessa d’Israele.Tuttavia i sardi hanno continuato a produrre il pane àzzimo, ogni volta che in casa veniva preparato e cotto il pane per il consumo famigliare anche se non più per il consumo nella cena della Pasqua ebraica che corrispondeva, per gli ebrei e i primi cristiani, comunque al Seder pasquale nel quale Cristo da ebreo praticante mangiava il pane azzimo e benediceva il vino e secondo la tradizione cristiana successiva istituiva il Sacramento dell’Eucarestia.Molti viaggiatori stranieri in visita in Sardegna, compreso Padre Antonio Bresciani nel suo “Dei costumi dell’Isola di Sardegna” hanno scritto sulla preparazione del pane Purìle, descrivendolo precisamente come pane àzzimo ovvero rigorosamente senza fermenti e lievito, cotto nella cenere calda o sopra i carboni del camino o del focolare, come appunto spesso era descritta nella Bibbia ebraica la preparazione per Pesah del pane azzimo .Moltissime volte, viaggiatori, scrittori e visitatori della Sardegna, considerata sempre come ancora immersa in un lontanissimo passato, con modi che ricordavano loro vicende bibliche, riportavano nel descrivere la panificazione del Pane Purìle frasi dell’Esodo o di Isaia, “ coxi super carbone eius panes” – ho cotto sulle braci i suoi pani, oppure nella Genesi “ subciniericios panes coquere”- cuocere i pani sotto la cenere .Ciò probabilmente accadeva pure e forse anche perché allora come oggi, i sardi godevano nel mostrarsi ai turisti e studiosi più selvaggi o pittoreschi di quanto lo fossero veramente, ma nelle famiglie la panificazione seguiva un processo ben determinato e complesso che impegnava più o meno ogni settimana o due le donne di famiglia e le vicine di casa che davano un aiuto.Anche contadini e pastori che rimanevano in campagna molto tempo e anche isolati, in genere si portavano o veniva portato loro il pane magari a lunga conservazione come il carasau e difficilmente, ma solo in casi eccezionali, mischiavano farina di riserva ed acqua e cuocevano pane Purìle nella cenere o sulle braci per emergenza.Oppure bisognava essere i più poveri dei poveri per ridursi a mangiare pane azzimo cotto in quella maniera e sopratutto con ospiti a casa senza vergognarsi.Generalmente sempre che si avesse un forno, l’attrezzatura necessaria, il combustibile e sopratutto il grano, la preparazione del pane o meglio dei diversi tipi di pane consisteva in un lavoro complesso e faticoso, nel quale era previsto anche “ su pane Purìle” ma cotto bene, pulito e non sporco di cenere e carbonella.Si partiva dalla cernita, lavaggio e asciugatura del grano che veniva frantumato alla mola casalinga o se presente in paese in un mulino.Poi con l’uso successivo di vari setacci e canestri veniva separata la farina dalla crusca e preparata sa Madrighe ovvero il lievito madre dando inizio all’impasto e dopo una successiva lavorazione in forme e tipi di pane differenti, si procedeva a sa cotta, cioè alla cottura del pane nel forno.Veniva preparato anche su pane Purìle o cotzula Purìle, cioè senza lievito in modo che non si gonfiasse e spesso era il pane prodotto col primo impasto ancora senza il lievito aggiunto che serviva o per provare il giusto calore del forno o per far esercitare i bambini a fare il loro pane come i grandi.A volte. e mi è stato raccontato da un testimone vivente, in certi paesi e in certe famiglie si preparava proprio per il Venerdì santo, cioè per la Chenàbura di Pasqua un pane speciale senza lievito nè sale, chiamato Zicchi in generale quando aveva in corpo il lievito madre o Frementu o Madrighe in sardo, ed allora veniva chiamato Àsimu, cioe Azimo e con ogni probabilità in quelle famiglie e per linea matrilineare si conservava la memoria di un’origine Marrana, cioè di una origine ebraica cancellata a forza dopo che i Sovrani cattolicissimi di Aragona e Sardegna avevano decretato nel 1492 l’espulsione di tutti gli ebrei anche dalla Sardegna pena la morte per chi contravvenisse dando la possibilità per chi invece non voleva abbandonare la Sardegna ormai loro patria di convertirsi e conservare quindi i beni e la vita.Per molti anni, inseguiti dall’Inquisizione spagnola, istituita in Sardegna proprio nel 1492/93, che cercava i segni anche minori di continuazione della propria fede ancestrale nei Conversos o Christianos nuevos o peggio chiamati Marranos per assimilarli ai porci, per poterli giudicare come apostati e magari condannarli al rogo o ad altre pene mostruose, questi segni di ebraicità si sono diluiti nella comunità sarda sino a rendersi indistinguibili se non ai ricercatori attenti ai segni di ebraicità interni alla cultura e all’identità nazionale dei sardi odierni.Non è quindi un caso che inseguendo questi segni, uniti ad un moto dello spirito a volte inspiegabile razionalmente, non sono pochi i sardi che amano come fatto naturale la cultura ebraica, si avvicinano ad essa, la studiano e spesso intraprendono un lungo, impegnativo e difficile cammino di conversione all’ebraismo.Posso dire di aver anche io da piccolo e inconsapevolmente allora partecipato alla preparazione di pane Àzzimo, o Pùrile o vero Àsimu, perché almeno sino a quando avevo una decina di anni ho avuto occasione di seguire e partecipare con mia nonna paterna e le mie zie a tutto il procedimento di panificazione periodica e che durava almeno due o tre giorni.Il pane preparato era di diversi tipi, su pane cola cola, una specie d’infarinato di semola a ciambella forata, la pagnotta, il pane poddine tipo quello che oggi viene chiamato anche pane d’Ozieri o zichi, ed altri dei quali non ricordo il nome.Avevo circa 4 anni quando ho fatto il mio primo pane Purìle e Àsimu.Si trattava di fare delle palline grandi come una piccola mela con l’impasto senza lievito che poi andavano stese e lavorate con un sottile mattarello e rese come dei dischi, ma sottili e più piccoli però di quelli che poi venivano fatti dai grandi, poi con la pala da forno e l’aiuto dei grandi noi bambini mettevamo nel forno per cuocerli.Si vedevano allora i dischi gonfiarsi un poco come una palla e poi sgonfiarsi appena tirati fuori dalla bocca del forno.Per noi bambini era il pane più buono del mondo anche perché lo avevamo fatto tutto da noi.Oggigiorno è tornato di moda e anche in ambito cattolico alcune confraternite neocatecumenali celebrano l’Eucarestia con pane rigorosamente azzimo, avendo presente che nell’Ultima cena si è consumato il pane azzimo, la matzah ebraica di Pesah e che quindi è necessario che sia rigorosamente senza lievito e anche che dall’impasto alla cottura non devono trascorrere più di 18 minuti per evitare che i lieviti che sono presenti sempre nell’aria possano comunque innescare qualche processo non voluto di lievitazione.In questi giorni di clausura proverò a fare ancora una volta “su pane Pùrile”. (Da un articolo di Mario Carboni).