Procurad’e moderare Italianos, sa tirannia

Procurad’e moderare, Barones, sa tirannia Chi si no, pro vida mia
Torrades a pés in terra, Torrades a pés in terra

Questa è la prima delle 47 strofe e 376 versi che divennero inno e canto di libertà dei sardi durante i moti rivoluzionari della fine del 1700 durante i quali gli italiani di allora, i piemontesi, vennero cacciati dalla Sardegna. Riporto di seguito una libera traduzione dell’intera poesia, con qualche volontario adattamento di cui mi assumo la responsabilità, poesia che rappresenta non solo un fatto storico, spesso dimenticato o mistificato dai nemici della Sardegna, ma anche una rivoluzione ancora incompiuta che richiama ogni sardo alle proprie responsabilità per la conquista della libertà, dell’autodeterminazione e dell’indipendenza. I fatti degli ultimi mesi, con l’incapacità manifesta dello stato italiano di tutelare gli interessi della Sardegna, che vanta un diritto storico, giuridico e naturale a darsi proprie leggi, a parlare la propria lingua, ad organizzare le proprie scuole che rendano giustizia alla storia sarda dimenticata, ad avere autonomia finanziaria e potere decisionale in merito ai beni culturali ed alle scelte fiscali, conferma più che mai la necessità di liberarci dal giogo che oggi rappresenta non solo un freno alla nostra libertà, ma anche un grande ostacolo al nostro sviluppo economico, ostacolato da una politica statalista, protezionista, assistenzialista, che di fatto, in cambio di elemosine, non fa che perpetuare i problemi della Sardegna, una regione che storicamente ha sempre goduto di grande splendore quando ha potuto autogovernarsi. Siamo stanchi di subire le stesse leggi di Roma e Milano; Sardinia no est Italia. La vicenda del coronavirus e le conseguenti decisioni nazionali calate dall’alto e fatte su misura per il Nord d’Italia è stata emblematica ed esemplare per tutti i sardi. Como ch’est su filu ordidu A bois toccat a tessere,

Ecco il testo nella traduzione del grande Sebastiano Satta. Segue il testo originale in lingua sarda.

Cercate di frenare, Baroni, la tirannia, Se no, per vita mia, Ruzzolerete a terra! Dichiarata è la guerra Contro la prepotenza E sta la pazienza Nel popolo per mancare

Badate! contro voi Sta divampando il foco; Tutto ciò non è gioco Ma gli è fatto ben vero; Pensate che il ciel nero Minaccia temporale; Gente spinta a far male, Senti la voce mia.

Non date più di sprone Nel povero ronzino, O in mezzo del cammino Si fermerà impuntito; Gli è tanto stremenzito Da non poterne più, E finalmente giù Dovrà il basto gittare

Il popolo, da profondo Letargo ottenebrato, Sente al fin disperato, Sente le sue catene, Sa di patir le pene Dell’indolenza antica. Feudo, legge nemica
A tutte buone cose!

Quasi fosse una vigna O un oliveto o un chiuso, Borghi e terre han profuso…
Li han dati e barattati Come branchi malnati Di capi pecorini; Gli uomini ed i bambini Venduto han colle spose

Per poche lire han reso, E talvolta per niente, Schiava eternamente La popolazione; Mille e mille persone Curvansi ad un sovrano. Gramo genere umano, Grama sarda genia!

Si hanno poche famiglie partito la Sardegna. In maniera non degna
Furono fatte ancelle Le nostre terre belle Nell’empia antichità;
Or questa nostra età Vuol ciò rimediare

Nasce il Sardo, soggetto A rei comandamenti; Tributi e pagamenti Deve dare al sovrano In bestiame ed in grano In moneta e in natura;
Paga per la pastura, Paga per seminare.

Già, pria che i feudi fossero, Fiorian i borghi lieti’ Di campi e di vigneti,
Di pigne e di covoni; Or come a voi, italiani, Tutto questo è passato?
Colui che ve l’ha dato Non vel potea dare.

Né alcun potrà presumere Che volontariamente Tanta povera gente
Innanzi a voi si prostri; Questi titoli vostri San d’infeudazione Le ville hanno ben ragione Di volerli impugnare.

I balzelli che prima Sembravan men penosi, Più forti e più dannosi
A noi voi li rendeste Man mano che cresceste In lusso ed in pretese,
Scordando tra le spese La buona economia.

Né vi giova accampare Possession avita. Con minacce di vita,
Con castighi e con pene, Con ceppi e con catene Dai poveri ignoranti
Imposte esorbitanti Voi sapeste spillare.

E almeno si spendesse In pro della Giustizia Per punir la nequizia
Degli sparsi predoni, E potessero i buoni Di salute fruire
Ed andare e venire Sicuri per la via!

A ciò solo servire Dovrian pesi e diritti, A guardar da’ delitti Chi nella legge viva. Ma di tal ben ci privan Dell’italian l’avarizia
Che in spese di giustizia Fa solo economia

Chi sa meglio brigare Vien fatto uffiziale. Faccia egli bene o male,
Ma non chiegga denaro; Leguleio o notaro, Servidore o lacché
Sia bigio o sia tam. Nato è per governare

Basta che faccia in modo Di render più opulenta L’entrata e più contenta
La borsa del signore, Ed aiuti il fattore A trovar, prestamente
O messo od altra gente Scaltra nel pignorare.

Talvolta da Barone Suol fare il cappellano; Le ville ha in una mano
Nell’altra ha la dispensa. Feudatario, deh! pensa Che schiavi non ci tieni
Per accrescerti i beni, Poterci scorticare.

Tu vuoi che per difenderti Il povero villano Vegli con l’arme in mano
L’intera notte e il dì; Se deve esser così E se nulla godiamo
Di ciò a te paghiamo, E’ da stolti il pagare.

E se il Barone gli impegni Non tien da parte sua, Villan, per parte tua
A nulla se’ obbligato; I soldi che succhiato Ei ti ha negli anni andati,
Son danari rubati E te li de’ ridare.

Giovan solo le rendite A procacciar brillanti, Livree, carrozze e amanti,
A creare servizi Vani, a crescer vizi. A scacciar la noia
E a poter ogni foia fuori casa sfogare,

Ad avere dieci o venti Portate a mensa ognora, Per poter la signora:
Cullare in portantina; La scarpetta (o meschina!) Le sbuccia il bel piedino,
Lo punge un sassolino E non può camminare

Per portare un messaggio Il vassallo, tapino!, Fa giorni di cammino
A piedi, non pagato, Va scalzo, sbrendolato, Esposto a ogn’inclemenza
E pur con pazienza Soffre e non de’ parlare.

Così si sparge il vivo Sangue del nostro cuore! Or come tu, Signore,
Soffri tanta ingiustizia? Tu, Divina Giustizia, Rimedia queste cose,
Tu sol puoi far le rose Dai tronchi germogliare.

O miseri villani, Sfiniti dal lavoro Per mantener costoro
Come tanti stalloni! Per lor sono i covoni, A voi dan la pagliata,
E sbarcan la giornata Pensando ad ingrassare.

Sorge tardi dal letto Il feudatario, e pensa Tosto a mettersi a mensa,
Va dalla mensa al gioco; Per poi svagarsi un poco Si reca a donneare;
Più tardi, all’annottare, Scene. danze, allegria.

Quanto diversamente Volge al vassallo l’ora! Già prima dell’aurora
Egli è nella campagna; Brezze e nevi in montagna, Al piano sole ardente;
Ahi! come può il paziente Tal vita tollerare!

Con la vanga e l’aratro Geme l’intero giorno; Biascica a mezzo giorno
Un sol tozzo di pane. Meglio, assai meglio il cane Si pasce del signore.
Quel can che a tutte l’ore Suol dietro a sè portare.

Le Cortes osteggiarono Con raggiri e soprusi Perché codesti abusi
Non dovesser cessare; Cercaron di fugare I patriotti migliori
Dicendoli fautori D’odio alla monarchia.

A chi levò la voce Per la natia contrada A chi strasse la spada
Per la causa comune Volean cinger di fune
Il collo: od i meschini Siccome Giacobini Volevan massacrare.

Ma il cielo, il ciel i giusti Guardò veracemente; Atterrato ha il possente
E ha l’umile esaltato Iddio s’è dichiarato Per questa terra nostra,
Ed ogni insidia vostra Egli dovrà sfatare.

Per far tue mire prave, Feudatario inumano, Chiaramente la mano
Distendi al Piemontese E con lui sulle intese Stai per far le tue voglie
I borghi tu, egli toglie Le cittadi a pelare.

Fu per Piemontese l’isola Nostra una gran cuccagna;
Come l’Indie la Spagna Egli ci mette in croce;
Non mai levò la voce Un vil cameriere,
Che servo o cavaliere Non si dovean piegare

Essi da questa terra han tratto milioni. Giungean senza calzoni
E partian gallonati Non ci fossero mai stati Per cacciarci in tal fuoco.
Sia maledetto il loco Che cresce tal genia.

Essi trovano tra noi Splendidi maritaggi A lor gli appannaggi, A lor tutti gli onori, Le dignità maggiori Di stola, spada e toga; Ed al sardo una soga
Per potersi appiccare.

Tutti i facinorosi tra noi per punizione Mandan, e han pensione
E stipendi e patente; In Russia una tal gente La si manda(va) in Siberia
Per crepar di miseria Ma non per governare.

E intanto, intanto lasciano Qui molti virtuosi Giovani inoperosi
Che in mezzo all’ozio annegano: e se alcuno ne impiegano
Lo cercano sciocco a prova, Però che a loro giova Coi ciechi aver da fare

Se d’impiegatucci al sardo Talor son liberali, Questi deve in regali
Spender tutto il salario, Poiché gli è necessario Di spedire a Roma
Bei cavalli, buon vino, Cannonau e malvasia

Nel dar al piemontese Il nostro oro e l’argento Sta tutto il fondamento
Della possanza loro. E che importa a costoro Che vada male il regno,
Se essi credon non degno Il farlo prosperare?

Guasto ha l’isola nostra Quest’orda di bastardi; I privilegi sardi
Ci ha tolto; degli archivi Nostri ci ha fatto privi; Come robaccia, parte
Delle memori carte Nostre ha fatto bruciare.

Ma (volle Iddio) siam quasi Da tal danno risorti. I Sardi sono insorti
Contro l’empio nemico, E tu, Baron, da amico Anche adesso lo tratti!
E indegno ti arrabatti Per farlo ritornare?

Perciò tu a viso aperto Decanti il Piemonte, Vile, lo stigma in fronte
Del traditor tu porte! Le tue figlie la corte Fanno al primo venuto,
Valga men d’uno sputo Pur che sardo non sia.

Se ti rechi a Torino, Non appena lo vedi Baci al ministro i piedi,
Baci agli altri il…m’intendi; Purché ciò che pretendi Ti diano per danaro,
Vendi la patria e caro Ti è dei sardi sparlare.

Là ti mungon la borsa, Ma in cambio fai ritorno Di croci e stemmi adorno.
Perché venisse eretto Il quartiere, il tuo tetto, Il tuo tetto atterrasti,
E nome meritasti Di traditore e spia.

Ma il cielo non vuol che sempre Trionfi la tristizia E deve la giustizia
Infrangere ogni male. La potestà feudale Già tocco ha la sua meta;
Il vender per moneta Le plebi de’ cessare.

L’uomo cui molto urgeva Secolar tenebrore Par che al prisco splendore
Levi la fronte ancora. Nella novella aurora Si affissano i gagliardi.
Ascoltatemi, o Sardi, Io vi schiudo la via.

Popoli, è giunta l’ora D’infrangere gli abusi; A terra, a terra gli usi
Malvagi e il dispotismo. Sia guerra all’egoismo, Sia guerra agli oppressori
I piccioli signori Devono a noi piegare.

Non osi chi fu inerte Mordersi un dì le dita; Or che la tela è ordita
Date una mano a tessere. Tardo vi potrebbe essere Un giorno il pentimento;
Quando si leva il vento E’ d’uopo trebbiare»

Versione originale in lingua sarda

Procurade e moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe’ in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare

Mirade ch’est azzendende
Contra de ois su fogu;
Mirade chi non est giogu
Chi sa cosa andat a veras;
Mirade chi sas aeras
Minettana temporale;
Zente cunsizzada male,
Iscultade sa ‘oghe mia.

No apprettedas s ‘isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S’arrempellat appuradu;
Mizzi ch’es tantu cansadu
E non ‘nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S’imbastu ‘nd ‘hat a bettare.

Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S’abbizzat ch ‘est in cadena,
Ch’istat suffrende sa pena
De s’indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!

Che ch’esseret una inza,
Una tanca, unu cunzadu,
Sas biddas hana donadu
De regalu o a bendissione;
Comente unu cumone
De bestias berveghinas
Sos homines et feminas
Han bendidu cun sa cria

Pro pagas mizzas de liras,
Et tale olta pro niente,
Isclavas eternamente
Tantas pobulassiones,
E migliares de persones
Servint a unu tirannu.
Poveru genere humanu,
Povera sarda zenia!

Deghe o doighi familias
S’han partidu sa Sardigna,
De una menera indigna
Si ‘nde sunt fattas pobiddas;
Divididu s’han sas biddas
In sa zega antichidade,
Però sa presente edade
Lu pensat rimediare.

Naschet su Sardu soggettu
A milli cumandamentos,
Tributos e pagamentos
Chi faghet a su segnore,
In bestiamen et laore
In dinari e in natura,
E pagat pro sa pastura,
E pagat pro laorare.

Meda innantis de sos feudos
Esistiana sas biddas,
Et issas fe ni pobiddas
De saltos e biddattones.
Comente a bois, Barones,
Sa cosa anzena est passada?
Cuddu chi bos l’hat dada
Non bos la podiat dare.

No est mai presumibile
Chi voluntariamente
Hapat sa povera zente
Zedidu a tale derettu;
Su titulu ergo est infettu
De s’infeudassione
E i sas biddas reione
Tenene de l’impugnare

Sas tassas in su prinzipiu
Esigiazis limitadas,
Dae pustis sunt istadas
Ogni die aumentende,
A misura chi creschende
Sezis andados in fastu,
A misura chi in su gastu
Lassezis s ‘economia.

Non bos balet allegare
S’antiga possessione
Cun minettas de presone,
Cun gastigos e cun penas,
Cun zippos e cun cadenas
Sos poveros ignorantes
Derettos esorbitantes
Hazis forzadu a pagare

A su mancu s ‘impleerent
In mantenner sa giustissia
Castighende sa malissia
De sos malos de su logu,
A su mancu disaogu
Sos bonos poterant tenner,
Poterant andare e benner
Seguros per i sa via.

Est cussu s’unicu fine
De dogni tassa e derettu,
Chi seguru et chi chiettu
Sutta sa legge si vivat,
De custu fine nos privat
Su barone pro avarissia;
In sos gastos de giustissia
Faghet solu economia

Su primu chi si presenta
Si nominat offissiale,
Fattat bene o fattat male
Bastat non chirchet salariu,
Procuradore o notariu,
O camareri o lacaju,
Siat murru o siat baju,
Est bonu pro guvernare.

Bastat chi prestet sa manu
Pro fagher crescher sa r’nta,
Bastat si fetat cuntenta
Sa buscia de su Segnore;
Chi aggiuet a su fattore
A crobare prontamente
Missu o attera zante
Chi l’iscat esecutare

A boltas, de podattariu,
Guvernat su cappellanu,
Sas biddas cun una manu
Cun s’attera sa dispensa.
Feudatariu, pensa, pensa
Chi sos vassallos non tenes
Solu pro crescher sos benes,
Solu pro los iscorzare.

Su patrimoniu, sa vida
Pro difender su villanu
Cun sas armas a sa manu
Cheret ch ‘istet notte e die;
Già ch ‘hat a esser gasie
Proite tantu tributu?
Si non si nd’hat haer fruttu
Est locura su pagare.

Si su barone non faghet
S’obbligassione sua,
Vassallu, de parte tua
A nudda ses obbligadu;
Sos derettos ch’hat crobadu
In tantos annos passodos
Sunu dinaris furados
Et ti los devet torrare.

Sas r’ntas servini solu
Pro mantenner cicisbeas,
Pro carrozzas e livreas,
Pro inutiles servissios,
Pro alimentare sos vissios,
Pro giogare a sa bassetta,
E pro poder sa braghetta
Fora de domo isfogare,

Pro poder tenner piattos
Bindighi e vinti in sa mesa,
Pro chi potat sa marchesa
Sempre andare in portantina;
S’iscarpa istrinta mischina,
La faghet andare a toppu,
Sas pedras punghene troppu
E non podet camminare

Pro una littera solu
Su vassallu, poverinu,
Faghet dies de caminu
A pe’, senz ‘esser pagadu,
Mesu iscurzu e ispozzadu
Espostu a dogni inclemenzia;
Eppuru tenet passienzia,
Eppuru devet cagliare.

Ecco comente s ‘impleat
De su poveru su suore!
Comente, Eternu Segnore,
Suffrides tanta ingiustissia?
Bois, Divina Giustissia,
Remediade sas cosas,
Bois, da ispinas, rosas
Solu podides bogare.

Trabagliade trabagliade
O poveros de sas biddas,
Pro mantenner’ in zittade
Tantos caddos de istalla,
A bois lassant sa palla
Issos regoglin’ su ranu,
Et pensant sero e manzanu
Solamente a ingrassare.

Su segnor feudatariu
A sas undighi si pesat.
Dae su lettu a sa mesa,
Dae sa mesa a su giogu.
Et pastis pro disaogu
Andat a cicisbeare;
Giompidu a iscurigare
Teatru, ballu, allegria

Cantu differentemente,
su vassallu passat s’ora!
Innantis de s’aurora
Già est bessidu in campagna;
Bentu o nie in sa muntagna.
In su paris sole ardente.
Oh! poverittu, comente
Lu podet agguantare!.

Cun su zappu e cun s’aradu
Penat tota sa die,
A ora de mesudie
Si zibat de solu pane.
Mezzus paschidu est su cane
De su Barone, in zittade,
S’est de cudda calidade
Chi in falda solent portare.

Timende chi si reforment
Disordines tantu mannos,
Cun manizzos et ingannos
Sas Cortes han impedidu;
Et isperdere han cherfidu
Sos patrizios pius zelantes,
Nende chi fint petulantes
Et contra sa monarchia

Ai cuddos ch’in favore
De sa patria han peroradu,
Chi sa ispada hana ogadu
Pro sa causa comune,
O a su tuju sa fune
Cheriant ponner meschinos.
O comente a Giacobinos
Los cheriant massacrare.

Però su chelu hat difesu
Sos bonos visibilmente,
Atterradu bat su potente,
Ei s’umile esaltadu,
Deus, chi s’est declaradu
Pro custa patria nostra,
De ogn’insidia bostra
Isse nos hat a salvare.

Perfidu feudatariu!
Pro interesse privadu
Protettore declaradu
Ses de su piemontesu.
Cun issu ti fist intesu
Cun meda fazilidade:
Isse papada in zittade
E tue in bidda a porfia.

Fit pro sos piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sas Indias s ‘Ispagna
Issos s ‘incontrant inoghe;
Nos alzaiat sa oghe
Finzas unu camareri,
O plebeu o cavaglieri
Si deviat umiliare…

Issos dae custa terra
Ch’hana ogadu migliones,
Beniant senza calzones
E si nd’handaiant gallonados;
Mai ch’esserent istados
Chi ch’hana postu su fogu
Malaittu cuddu logu
Chi criat tale zenìa

Issos inoghe incontr’na
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fint sos impleos,
Pro issos sint sos onores,
Sas dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
Et a su sardu restada
Una fune a s’impiccare!

Sos disculos nos mand’na
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione
Cun impleu e cun patente;
In Moscovia tale zente
Si mandat a sa Siberia
Pro chi morzat de miseria,
Però non pro guvernare

Intantu in s’insula nostra
Numerosa gioventude
De talentu e de virtude
Oz’osa la lass’na:
E si algun ‘nd’imple’na
Chircaiant su pius tontu
Pro chi lis torrat a contu
cun zente zega a trattare.

Si in impleos subalternos
Algunu sardu avanz’na,
In regalos non bastada
Su mesu de su salariu,
Mandare fit nezessariu
Caddos de casta a Turinu
Et bonas cassas de binu,
Cannonau e malvasia.

De dare a su piemontesu
Sa prata nostra ei s’oro
Est de su guvernu insoro
Massimu fundamentale,
Su regnu andet bene o male
No lis importat niente,
Antis creen incumbeniente
Lassarelu prosperare.

S’isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare.

De custu flagellu, in parte,
Deus nos hat liberadu.
Sos sardos ch’hana ogadu
Custu dannosu inimigu,
E tue li ses amigu,
O sardu barone indignu,
E tue ses in s’impignu
De ‘nde lu fagher torrare

Pro custu, iscaradamente,
Preigas pro su Piemonte,
Falzu chi portas in fronte
Su marcu de traitore;
Fizzas tuas tant’honore
Faghent a su furisteri,
Mancari siat basseri
Bastat chi sardu no siat.

S’accas ‘andas a Turinu
Inie basare des
A su minustru sos pes
E a atter su… giù m ‘intendes;
Pro ottenner su chi pretendes
Bendes sa patria tua,
E procuras forsis a cua
Sos sardos iscreditare

Sa buscia lassas inie,
Et in premiu ‘nde torras
Una rughitta in pettorra
Una giae in su traseri;
Pro fagher su quarteri
Sa domo has arruinodu,
E titolu has acchistadu
De traitore e ispia.

Su chelu non faghet sempre
Sa malissia triunfare,
Su mundu det reformare
Sas cosas ch ‘andana male,
Su sistema feudale
Non podet durare meda?
Custu bender pro moneda
Sos pobulos det sensare.

S’homine chi s ‘impostura
Haiat già degradadu
Paret chi a s’antigu gradu
Alzare cherfat de nou;
Paret chi su rangu sou
Pretendat s’humanidade;
Sardos mios, ischidade
E sighide custa ghia.

Custa, pobulos, est s’hora
D’estirpare sos abusos!
A terra sos malos usos,
A terra su dispotismu;
Gherra, gherra a s’egoismu,
Et gherra a sos oppressores;
Custos tirannos minores
Est prezisu humiliare.

Si no, chalchi die a mossu
Bo ‘nde segade’ su didu.
Como ch’est su filu ordidu
A bois toccat a tessere,
Mizzi chi poi det essere
Tardu s ‘arrepentimentu;
Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare.
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