Varianti o dialetti della lingua sarda? Di Mario Carboni

Potrebbe sembrare una questione di lana caprina oppure di nominalismi. Ma la scelta di usare il termine dialetto, con tutte le ambiguità di questo termine dato che per i linguisti ogni dialetto è una lingua che non è divenuta ufficiale, corrisponde da parte mia, che non sono un linguista, a un atteggiamento di politica linguistica che è tuttaltra cosa e che molti stentano a comprendere. La questione poi viene complicata dall’inveterato uso del termine dialetto rivolta alla lingua sarda, dalla politica linguistica italiana che tendendo a demoralizzare, rendere di infimo livello e sostanzialmente negandole il ruolo di lingua, definiva la lingua sarda dialetto; quasi poi fosse un dialetto della lingua ufficiale italiana che poi come si sa non è altro che il dialetto toscano normalizzato e reso lingua ufficiale dello stato centralista italiano. Per tre secoli ormai, da quando la Sardegna, passando dai Savoia alla Repubblica ha introdotto questa lingua come ufficiale, unica utilizzata nell’istruzione e nella scuola ad ogni livello, per italianizzare i sardi e disprezzare e uccidere la lingua sarda e le alloglotte isolane, si sta compiendo un genocidio linguistico. Ciò non costituirebbe un grosso danno se invece la lingua sarda non fosse la caratteristica fondante della Natzione sarda e assieme ad altri elementi che non sto ad elencare, fosse la base del suo diritto all’autodecisione, appunto natzionale, e quindi allo stato sardo, repubblica sovrana che solo col federalismo potrebbe cedere parti della propria sovranità ad un organismo di livello superiore di statualità, ma sempre conservando il diritto alla secessione se la natzione lo ritenesse opportuno e giusto. Negli ultimi cinquanta anni, in Sardegna è stata vittoriosa la battaglia politica di che ha portato aventi il riconoscimento giuridico e costituzionale della lingua sarda e delle alloglotte, senza però riuscire ancora a costituzionalizzarlo nello Statuto speciale come in SudTirolo o in Valle d’Aosta. Ciò ha portato alla sostanziale disapplicazione della legge costituzionale 482 che invece attuava l’articolo della Costituzione in difesa e tutela delle minoranze linguistiche storiche. Ad un certo punto in Sardegna un gruppo di, ed evito di usare aggettivi che mi spuntano sulla punta della lingua, ma che politicamente avversavano ed avversano la lingua sarda come lingua natzionale, hanno iniziato una campagna estremamente minoritaria e francamente sgangherata, contro il processo di normalizzazione della lingua sarda, divisa in tanti dialetti e che in previsione del suo suo uso ufficiale e dell’insegnamento curricolare, abbisognava di una operazione di politica linguistica di standardizzazione sostenendo che secondo loro non si trattava di una lingua unitaria bensì di una lingua divisa principalmente in due varianti,, ben sostenuti dai nemici giurati della lingua sarda. Ciò ha creato non pochi ritardi e danni al progresso del processo di ufficializzazione, insegnamento ed uso nei media del sardo ed anche nella Chiesa, perché descrivendo la questione linguistica sarda come un continuo contrasto fra asini di Buridano hanno bloccato ogni progresso in materia. Per cui il termine varietà, che in una situazione più serena non sarebbe altro che un sinonimo di dialetto, teso ad identificare le tantissime variazioni linguistiche che si presentano da sud a nord dell’isola sarda, diviene il grimaldello per affermare surrettiziamente che in Sardegna esistano due lingue sarde, due natzioni, e due processi non solo di unificazione e normalizzazione linguistica ma anche di accesso all’autodecisione nazionale ed ad un unico stato sardo o se si vuole addolcire il termine natzionalità, raggiungibile in varie maniere ma comunque con una evoluzione e passaggio dall’autonomismo, che non prevedeva la lingua sarda come un suo elemento fondante, a un indipendentismo federalista ma comunque unitario anche se fondato sul federalismo interno sardo. Per questo a mio parere, come è stato fatto, in Euskadi, Catalogna, Irlanda Finlandia e tante altre natzionalità senza stato che hanno recuperato la loro sovranità o che ancora lottano per averla e nelle quali fondamentale è stato basarsi su una lingua unica, normalizzata e divenuta fonte politica dell’identità natzionale , la regola vale anche in Sardegna.. unica lingua, unico popolo, unica natzione, unica statualità. Dando per assodato che questa linea di politica linguistica è l’unica che permette di affermare la lingua natzionale e soprattutto proteggere le componenti cosiddette dialettali delle comunità che al contrario sarebbero ben presto sostituite dalla lingua coloniale come in effetti sta succedendo in Sardegna.