L’origine semitica di molti cognomi in Sardegna. Ipotesi di studio del Prof. Salvatore Dedola.

A proposito di cognomi sardi…..

di   Salvatore Dedòla.

Credo opportuno elencare in anteprima qualche cognome, facente parte di una ricerca completa, di imminente pubblicazione, (vedi copertina in foto) relativa ai cognomi della Sardegna, dei quali sarà restituita la vera etimologia, in sostituzione di quelle improprie o inverosimili escogitate senza alcun metodo da altri linguisti.

BARRANCA cognome che Pittau presenta come spagnolo (Madrid etc), derivato dal sost. barranca ‘burrone, dirupo’, di origine prelatina. La proposta del Pittau s’ingaglioffa con le proposte dei linguisti spagnoli (es. il Corominas), che non sanno precisare quale sia il lemma basilare prelatino che avrebbe dato origine a barranca.
In ogni modo, credo più congruo ipotizzare per lo sp. e sardo Barranca la base accadica barrāqu ‘un ufficiale di corte’, con successiva epentesi di -n- eufonica. Una variante del cognome sardo è Baranca e pure Branca, anch’essi corretti da epentesi, i quali, al pari di Barranca, sono varianti di Barracca (vedi).
Occorre notare che ci sono pure altri cognomi sardi corretti dall’epentesi eufonica -n-, es. Burranca e Murranca (vedi), per i quali ipotizzo un diverso etimo.

BARRERA cognome gallurese che Pittau pensa sia originato dal catalano-spagnolo barrera ‘barriera’. Come sempre Pittau preferisce le vie più facili e sbrigative, che sono quelle della paronomasia, senza rendersi conto che in qualunque parte del Mediterraneo sarebbe stato difficile giustificare un cognome del genere, il quale non si riferirebbe né a cose utili alla società né a idee condivise dalla società.
Occorre andare al fondo della questione con scelte coraggiose, anche se possono apparire “fantasiose” a chi non ha mai riflettuto che il paniere dei cognomi sardi è un immenso crogiolo nel quale sono confluiti e sono ancora conservati, in forma cristallizzata, moltissimi appellativi o nomi di cose sardiane, di epoca nuragica e prenuragica.
Così è per Barrèra, un composto basato sull’akk. warûm ‘un copricapo’ + erû(m) ‘aquila, avvoltoio’ (stato costrutto war-erû > *barréru > Barrèra), col significato di ‘copricapo di aquila’, ossia copricapo fatto di piume d’aquila. Il pensiero di qualcuno andrà al diadema tipico dei capi degli Indiani d’America, mentre io penso al tipico copricapo di piume che rappresentò l’emblema della nazione Shardana, quella nazione che si auto-rappresentò nei propri bronzetti e che fu immortalata dal Faraone nelle epiche battaglie sul Delta.

BARRÌLE, Barrìli cognome pansardo che Pittau reputa propriamente italiano, corrispondente al sost. sardo barrile, -i ‘barile’, derivato dallo sp. barril. In alternativa lo considera italiano tout court. Pittau, nella sua immarcescibile idiosincrasia contro tutto ciò che è semitico, non potrà mai ammettere che Barrìli è un antichissimo epiteto riferito al Dio Sommo del Cielo, ad Ilu il dio dei Fenici, degli Ugaritici, dei Aramei, con base nell’akk. warûm ‘un copricapo’ + Ilu ‘Dio’ (stato costrutto war-Ilu), col significato di ‘copricapo di Ilu’ (ricordo che Ilu fu spesso rappresentato con lo stesso copricapo di piume col quale sono stati eternati gli Shardana).

BITTA cognome sul quale Pittau fa quattro ipotesi etimologiche: 1 corrisp. al sost. bitta, femm. di bitti ‘caprioletto, cerbiatto, mufloncino’; 2 corrisp. al sost. bitta ‘vetta, cima, ramoscello’ dal corrispondente italiano; 3 corrisp. al sost. bitta, vitta ‘benda, cordone, nastro’ < lat. vitta; 4 cgn propriamente italiano corrisp. al femm. del nome pers. Bitto, Vito.
Non vale assolutamente la pena d’inseguire Pittau nelle sue ipotesi “italianistiche” (che sono le ultime tre), poichè esse seguono la scia di mere apparenze fonetiche, senza riguardo alla storia e all’evoluzione dei cognomi sardi.
Quanto alla prima ipotesi, aggancio la discussione e l’etimo al cgn Bitti, sul quale mi attesto.

BITTI, Bitta. É un cognome; ma il primo termine appartiene pure a un comune della provincia di Nùoro. Esso ricorda per assonanza il fenicio bt ‘casa, abitazione’, l’ebr. beit ‘casa’, ed il genitivo possessivo accad. biti ‘della casa’ (OCE 88).
Ma in sardo bitthi/bizzi è il ‘piccolo del daino’. In logud. è chiamato bitti il ‘daino’. In Gallura è chiamato bittu il ‘muflone’. Nel Nuorese è chiamata bitta, betta la ‘cerva’. Questi nomi di animale derivano dal lat. bestia ‘animale: in genere’. Ma hanno l’antecedente nell’accadico.
Tanto per cominciare, l’origine del toponimo Bitti/Bitthi non è latina ma sardiana. Esso fa riferimento indiretto alla bellezza e alla ricchezza faunistica delle antiche foreste sarde e, al pari del nome comune bitti, bitta, ha la base nell’akk. bintu, bittu ‘figlia’, bīnu ‘figlio’ < binûtu ‘creazione, creatura’. Cfr. toponimi Bitte, Bittaléo, Bittaló, Bitaló, Bittalói, Bittelotte, Bittita, Bittitá, Bittitái, (con circospezione: Cala Bitta in Gallura e Bitticolái presso Dorgali).

BONA cognome che Pittau, al solito inseguimento dell’omologazione fonetica, crede di origine prettamente italiana, proponendo tre opzioni: 1 l’agg. bona ‘buona’ (di donna); o addirittura corrisp. al femm. del masch. bonu < lat. bonus; 3 infine pensa a un cognome propriamente italiano.
E sì che il cognome è italiano. Ma pensare, con estrema faciloneria, alle due prime soluzioni, solo per un richiamo fonetico, è faccenda che non può riguardare un linguista.
Bona è un antichissimo termine mediterraneo, quindi anche italico, basato sull’akk. būnum‘uccello’.

BOSU cognome pansardo che Pittau considera propriamente italiano, da Boso, che secondo lui deriva da un aggettivo germanico *boso ‘cattivo’. Non è così. Non si può andare all’inseguimento di una omologazione fonetica qualsivoglia, a costo di inventarla (come in questo caso) e comunque di andarla a prendere a casa del diavolo.
Bosu è un cognome prettamente sardiano, basato sull’akk. būṣu ‘bisso’, ‘lino di qualità fine’.

BOTTA cognome sul quale Pittau fa tre ipotesi etimologiche, andando a cercare le omologazioni fonetiche presenti attualmente nei lessici dell’alto Mediterraneo. Comincia con ipotizzare una corrispondenza col sost. it. botta ‘motto pungente’; poi pensa a un cognome italiano di significato uguale; infine pensa al sardo botta ‘scarpa’ < cat.-sp. bota. La terza ipotesi è giusta. Ma Pittau, al solito, non va oltre, nel senso che si appaga nel credere che tutto abbia avuto origine nella penisola iberica. Non pensa affatto che Botta sia una omologazione, ossia una sardizzazione del cgn sardo Scarpa, dal popolo sentito a torto come corrisp. all’it. scarpa (mentre invece è un cognome di origine sardiana).
Scarpa è un cognome che Pittau, manco a dirlo, ritiene derivi direttamente dall’italiano scarpa (il suggerimento è del Wagner). Ma intanto Pittau ricorda che il cognome è già presente nei condaghes di Silki e di Trullas come Iscarpa. Al che può dirsi, senza margine di errore, che tutti i cognomi registrati nelle carte medievali sarde non erano di genovesi nè di pisani ma proprio sardi, per il fatto che il Giudice o gli altri che intendevano registrare notarilmente alcuni fatti, fin a quando gli era consentito andavano a cercare i testimoni tra la propria gente, tra quelli che, vivendo nell’agro, avevano vissuto i fatti sui quali erano invitati a testimoniare nero-su-bianco. Peraltro pisani e genovesi, immigrati alla spicciolata a cominciare dalla seconda metà dell’XI secolo, sceglievano le proprie sedi nelle città o nei paesi costieri, non certo nelle aree interne, dalle quali provenivano invece tutti i cognomi registrati nei condaghes.
I cognomi dei condaghes sono, al 100%, di origine antichissima. Infatti la base etimologica di Scarpa, Iscarpa è nell’ak. iṣu(m) ‘albero, legname’ + karpum ‘chìcchera, tazza’, col significato sintetico di ‘tazza lignea, tazza ricavata da un albero’. Questo nome fu l’equivalente dell’attuale sardo coppu, malùne etc., che sono le note tazze di sughero ritagliate direttamente da un bitorzolo del mastio della sughera. Ogni tazza, in età primitiva (in Sardegna ancora ieri) veniva ricavata dal legno. Pure l’etimo di chìcchera ci dà informazioni in questo senso: deriva infatti dallo spagn. jicara, e questo da una parola azteca che indicava il guscio di un frutto.
Peraltro ancora oggi l’etimo dell’it. scarpa è considerato alquanto inafferrabile. DELI ipotizza un (inesistente) germanico *skarpa ‘tasca di pelle’, probabile prestito dal fr. ant. escharpe ‘sacoche, bourse’. E nessuno si è accorto che le scarpe, specie quelle dei contadini, furono fatte spessissimo di legno (nel nord Europa era normale). Col che ritorniamo forzatamente all’etimologia semitica.

BRÁSIA è un cognome che Pittau registra a Orgosolo fin dal ‘700. Egli lo fa corrispondere al sost. brasia ‘bragia’, il quale secondo lui deriva dal corrispondente italiano bragia, brace, ossia ‘fuoco senza fiamma che resta da legna o carbone bruciati’.
Pittau è sorretto in questa interpretazione italianeggiante dai dizionari etimologici italiani, ivi compreso DELI che pone l’etimo di bragia, brace in un inesistente germanico *brasa ‘carbone ardente’ attraverso un antico (e inesistente) derivato *brasia.
Così si costruiscono le etimologie della lingua italiana. Non c’è chi – sia pure per eliminare quegli odiosi asterischi indicanti una sconfitta – vada a confortarsi nei dizionari semitici, per sapere se prima dei Germani e prima dei Romani nel Mediterraneo esistesse un vocabolo con certa fonetica e pari semantica.
Esisteva, naturalmente, ed era l’akk. barḫu ‘luccicante, brillante’, barāḫu ‘mandare fasci di luce, luccicare, brillare’, che fu la base del vocabolo sardo e di quello prelatino, successivamente di quello italiano. Vedi il cgn Barca, dal punico Barka, ebraico Barak (Brk) ‘fulmine’, akk. barḫu ‘luccicante, brillante’.

BRODU cognome che Pittau traduce all’italiana brodu ‘brodo’. Non si è reso conto che è poco metodico italianizzare i lemmi nell’intento di accedere a una omologazione fonetica qualsivoglia. Peraltro nemmeno DELI sa quale sia l’etimo di it. ‘brodo’. Ma questa è un’altra faccenda, visto che Pittau non si cura quasi mai di scavare diacronicamente alla ricerca di un etimo, bastandogli il conforto dei termini omofonici dell’oggi.
Brodu è un cognome autoctono. Non a caso esiste in mezza Sardegna. Esso è sardiano ed ha la base nell’akk. būru ‘giovane di animale’ + sum. udu ‘pecora’, col significato di ‘agnello’.

BRUSADÒRE cognome di Quartu che Pittau crede significhi ‘bruciatore, incendiario’ da brusiare ‘bruciare, incendiare’. Pittau non tiene conto che il termine brusadòre in sardo non esiste, anche perché non avrebbe avuto alcun senso. Gli incendiari nel passato non erano qualificati come terroristi, quali sono oggi, giustamente. Erano semplicemente persone che ripulivano i pascoli dagli sterpi, operatori di un debbio che la comunità normalmente accettava.
Brusadòre è una classica paronomasia, basata sul sumerico buru’az (un tipo di uccello) + dur ‘uccello’, col significato di ‘uccello buru’az’).

BUESCA cognome che Pittau, con un’operazione strabiliante, fa derivare dall’it. colto buesco, -a ‘da bue, propria del bue’. La proposta ha dell’incredibile. Peraltro non si riuscirebbe mai a capire perché un cognome sardo, che si ritiene antico, abbia origine da un sintagma it. “alla buesca” (come suggerisce Pittau). Che relazione potremmo evincere da un avverbio colto e un cognome regionale? Alla proposta manca una pur labilissima logica.
In realtà Buèsca è termine sardiano, basato sull’akk. bûm, pûm ‘uccello’ + sum. e-sig (un tipo di uccello), col significato di ‘uccello e-sig’.

BÙRGIAS cognome che Pittau, in un eroico sforzo di trovare una qualsivoglia omologazione, pensa che corrisponda al sost. logud. (b)urza, úrgia ‘criniera di cavallo’, ‘ciuffo di capelli lasciato crescere per nascondere la calvizie’. Non riuscendo a capirne l’origine, pensa a un relitto sardiano, del quale ovviamente non rende conto. Peraltro Burgias è documentato nel CDS II 45 per l’anno 1410.
Burgias è senz’altro relitto sardiano, ma è lungi dall’avere le parentele attuali dalle quali il Pittau parte, non riuscendo a fare a meno del suo parossistico bisogno di avere per ogni cognome un riscontro nell’attualità.
Burgias ha la base nel sumerico burgia ‘offerta rituale’, ed è uguale al cognome italiano Bòrgia.

BUSONÈRA cognome che Pittau dà di origine spagnola, corrisp. al sost. buzonera ‘chiavica’, ‘pozzetto di scolo’. Non contesto l’origine geografica del cognome, ma certamente l’interpretazione. Va bene il significato del termine comune spagnolo. Ma esso non si estende al cognome, per il semplice fatto che nessun cognome ha mai assunto, alle sue origini, dei significati infamanti. Per capirlo, basta collocarsi ai tempi in cui i cognomi cominciarono, alla chetichella e sempre più estesamente, a guadagnare utenti. Ogni famiglia ebbe sempre la libertà e il modo di assumere o rigettare un certo soprannome (perché di un soprannome si trattava, per lo più). Quindi Busonèra non è altro che una paronomasia: di ciò dobbiamo essere certi.
Il vero etimo va cercato nella lingua mediterranea, con base nell’akk. būzu ‘brocca di vetro’ + nīru ‘luce’. Questo termine ‘vetro-luce’ si deve evidentemente riferire all’epoca in cui i Fenici (e gli Egizi) cominciarono la produzione degli utensili di vetro. Il ‘vetro-luce’ dovette essere il più trasparente e raffinato in assoluto, degno di figurare alla mensa dei faraoni.

BUTTA cognome di Cagliari, Oristano e Sassari che Pittau fa corrispondere al sost. campid. butta ‘botta, colpo’ < italiano. Non credo affatto a questa derivazione. Un lingua straniera (tale è quella italiana in rapporto al paniere sardo da cui sorsero i cognomi) non può essere presa come base di cognomi sardi, tanto per soddisfare l’esigenza di equivalenze fonetiche.
Butta non può che essere un lemma sardiano, e il reale significato va cercato nella base sumerica, dove possiamo ricavare bu ‘perfetto’ + tu ‘formula magica’, col significato di ‘formula magica esemplare’, o ‘modello di formula magica’ o ‘formula magica perfetta’.

BUTTU cognome che Pittau fa corrispondere al sost. buttu ‘mozzo della ruota’ < piemontese but. Sembra impossibile che un cognome sardo si sia formato, per poi espandersi un tutta la Sardegna, con tre soli secoli di dominio piemontese. In realtà Buttu non è altro che la variante di Butta (vedi).

BÚRDZA, úrdza, búldza, úldza logud. ‘frangia, ‘tela della frangia’, ‘orlo estremo dell’ordito’; (Orgosolo, Fonni) gúrgias; (Urzulei) ar búrgiulas. Wagner non trova l’etimo. Gli sarebbe stato facile reperirlo, se avesse aperto il dizionario sumerico, che per gur dà ‘orlo’. In sardiano evidentemente il lemma sumerico venne trattato in forma aggettivale, aggiungendovi il suffisso in -ia del tipo di quello latino e simile a quello ebraico (cfr. Ozia, Isaia, Geremia, Sedecia, Netanya, Ezechia, Elia, Anania, Zaccaria, termini pronunciati in modo diverso a causa dello spostamento dell’accento: -ìa).

CABÉCCIA cognome di Sassari e Sorso che Pittau crede di origine spagnola, da cabeza ‘testa, capo’. In realtà il cognome sembra di origine còrsa: a Tempio dal 1622 al 1658 si registrò un Cabezia, Capecha, la cui forma ufficiale odierna, Capece, fu rifatta agli inizi dell’Ottocento su quella di un noto cognome napoletano (Maxia CS 152).
La probabile origine còrsa dà più forza al possibile retaggio sardiano (intendendosi per sardiano un aggettivo che riguarda, ovviamente, i Sardi e i Corsi preromani e precristiani).
Cabéccia è un termine importantissimo per il popolo sardiano, basato sull’akk. qābu ‘pozzo’ + ēqu (un oggetto di culto). In assiro per bīt ēqu s’intende un ‘sepolcro sotterraneo’, letteralmente ‘tempio-sepolcro’; invece i Sardiani hanno utilizzato la forma di stato costrutto qāb-ēqu indicante proprio il ‘pozzo sacro’, esattamente ‘pozzo destinato al culto’. Ora conosciamo anche il nome dei celebri “pozzi sacri” della Sardegna.

CABELLA cognome presente a Cagliari, Guspini, Oristano, Tempio Pausania, Trinità d’Agultu. Secondo Pittau può essere una variante del cgn Gabella significante it. ‘gabella, tassa, dazio’; o può essere un cgn propriamente italiano derivato dall’espressione Ca(sa) Bella.
Non sono d’accordo con la tendenza del Pittau d’inseguire una omologazione fonetica purchessia, che lo porta molto spesso ad abbandonare il campo della linguistica sarda per sondare i recessi meno plausibili della lingua italiana. Maxia CS 195, nell’evidenziare l’elemento còrso nella diocesi di Sorres del XV secolo, registra un Paulu Cabeda. Essendo quindi il cognome piuttosto antico, relativo peraltro ad aree interne e non alle città sarde, è impossibile immaginarlo di diretta origine italiana.
In realtà Cabella è un importantissimo lemma sardiano, legato indissolubilmente all’altro lemma che ha generato il cognome Cabéccia. Infatti Cabella ha la base nell’akk. qābu ‘pozzo’ + ellu ‘puro, sacro’ (stato costrutto qāb-ellu), col significato proprio di ‘pozzo sacro’.
Sembra non esserci scappatoia: anche gli antichi Sardiani (o Shardana) avevano il proprio nome per individuare il ‘pozzo sacro’.

CABÍLLA cognome di Baunéi e Silanus, esprimente il femminile dell’epiteto cabíllu (secondo Pittau DCS 148).
Cabíllu a sua volta è un termine oscuro e comunque incompreso. Lo si è considerato, da parte di moltissimi, dalla gente comune e, a quanto vediamo col Pittau, pure da certi linguisti viventi, come un aggettivo etnico indicante ‘chi è del Capo di Sopra’ ossia chi è della Sardegna settentrionale. Ma i dizionari sardi non recepiscono il lemma; in più, non si è dato conto di quel tema in -íllu. Peraltro, se cabíllu significasse realmente ‘quello del Capo di Sopra’, ci aspetteremmo che quanti risiedono a nord dell’isola usino anch’essi un epiteto reciproco per indicare “quelli del Capo di Sotto”. Ma non c’è alcun epiteto. È un dato reale che questo epiteto sia usato soltanto nel sud dell’isola. Nel nord è sconosciuto, se non da parte di quanti lo hanno udito pronunciare dai residenti del sud. Un rompicapo.
Si risolve il problema esclusivamente se mettiamo in campo il vocabolario semitico, dove abbiamo l’akk. ḫābilu, ḫabbilu ‘criminale, malfattore’. Il significato non ha bisogno di commenti. Ma si pone il problema di quando sia potuto nascere un tale epiteto. Poiché il lemma è arcaico, sembrerebbe di poter affermare che sia nato in epoca prelatina, addirittura prefenicia. Ma in ciò occorre prudenza. Infatti la durata della parlata accadica in Sardegna non è ancora cessata neppure oggi, e si può supporre che questa sia stata usata – con piena e reciproca comprensione da parte dei residenti – almeno fino all’anno 1000 di questa Era, nonostante lo sforzo del clero orientale mirante a omologare la parlata sarda a quella di Bisanzio.
È verosimile che l’epiteto sia nato durante l’epoca buia dei quattro Giudicati, allorchè i quattro regni si combatterono tra loro senza esclusione di colpi in vista di una supremazia e con lo scopo di unificare l’isola. L’epiteto, viste le premesse, è nato sicuramente nel giudicato di Càlari.

CACCEDDU, Caceddu cognome che Pittau crede una variante tipicamente olianese del cgn Catteddu e pertanto significante ‘cagnolino’. A me non sembra affatto. Pittau è incorso nella ennesima paronomasia, costruendo una paretimologia.
Cacceddu è un lemma sardiano, pronunciato alla sardiana, ed ha la base in un termine commerciale antico-assiro (II millennio a.e.v.), usato dai commercianti assiri della Cappadocia per nominare una particolare veste della città hittita di Ḫaḫḫum, chiamata ḫaḫḫītu(m). Evidentemente questo vestiario fu commercializzato nell’intero Mediterraneo.

CADDÙCCIU cognome che Pittau colloca nella Gallura e lo fa corrispondere al dim. di caddu ‘cavallo’ < lat. caballus.
C’è molto da discutere sulla trafila etimologica del Pittau. Anzitutto va detto che cáḍḍu è vocabolo autonomo dal latino, ed ha la base accadica, da kallû(m) ‘messaggero espresso, pony express’. Questa tradizione è ancora viva nel Logudoro, dove l’equivalente di ‘cavallaio’ (da lat. căballus) non esiste, preferendosi amante de sos caḍḍos, mentre ‘cavalleria’ si traduce con militia a caḍḍu, e ‘cavallerizzo’ è chìe pigat a caḍḍu. Quindi appare ovvio che cáḍḍu è vocabolo sardiano riferito all’uso nobile del quadrupede, all’uso per la monta, per fini militari, per le competizioni (pony) e, principalmente, per i servizi postali. Quest’ultimo uso, esplicitato dalla radice accadica, lascia ampiamente capire quanto fossero importanti e quale uso si facesse, prima dei Romani, delle strade sardiane che i nostri studiosi insistono a chiamare “romane”.
Ma a parte l’etimologia di caḍḍu, che riguarda esclusivamente il ‘cavallo’, è l’intero cognome Caddùcciu a non basarsi sul sardo caḍḍu. Esso è sardiano ed ha la base nel sumerico kadu ‘copertura’ + uhul ‘pecora’, col significato di ‘ricovero per pecore’.

CADELLO cognome creduto dal Pittau forma italianizzata del cgn Cadeddu. Ma la questione è letteralmente capovolta. È Cadeddu ad avere avuto origine da Cadello.
Andiamo con ordine. Cadeddu è cognome che Pittau considera probabile svolgimento del latino catellus ‘cagnolino’, il quale compare come cognome Catellu nel CSMB 65 e come Cadello nel CDS II 43, 44 per l’anno 1410. Così pensa anche Paulis NPPS 180, che assume questa ipotesi nel trattare il fitonimo cadèḍḍa (Escolca, Nuragus) ‘ranuncolo dei campi’ (Ranunculus arvensis L.).
In realtà, così come ho già spiegato per il fitonimo catheḍḍìna, il termine cadèḍḍu, cadèḍḍa non ha alcuna relazione con i cagnolini e neppure coi cani. Esso è un composto sardiano con base nell’akk. ḫadû(m) ‘gioia’ + ellu(m) ‘puro’, col significato complessivo di ‘pura gioia’ (in relazione alla bellezza del fiore). Cadéllo in quanto cognome indica anch’esso questo fiore, ed è la forma primitiva dello stesso cognome. Cadéḍḍu non è altro che la forma seriore del cognome, dopo aver subito la palatalizzazione della -ll-.


CASU cognome. In sardo casu significa ‘formaggio’, lemma presentato come derivato dal latino căsĕus ‘cacio’ (che è un aggettivale con radice cas-). Dalla somiglianza dei termini sardo e latino si trae la conseguenza che… la Sardegna fosse priva di formaggi (o quasi), prima dell’avvento dei Latini colonizzatori. Senonchè i Sardi avevano le proprie greggi ed i propri formaggi prima ancora dell’avvento dei Romani. Non fu un caso che Cicerone chiamasse i Sardi mastrucati, essendo coperti del vello delle proprie pecore, dalle quali traevano il latte per confezionare il formaggio. Sono molti quindi a porsi il problema di come gli Shardana (gli Jolaenses, gli Ilienses) chiamassero il proprio formaggio. Lo chiamavano pressoché come i Romani: kasu, da sempre, poiché il termine è mediterraneo, ed ha la base arcaica nell’accadico kasû ‘rappreso, quagliato’.
Su casu berbechínu románu (‘il formaggio Pecorino Romano’) è, per la generalità della gente, nient’altro che un formaggio la cui tecnologia fu importata in Sardegna con la conquista romana. Ma pure questa credenza è grossolanamente falsa, e pecca di mentalità colonialista. La storiella è stata confezionata da quanti hanno immaginato che prima di Roma la Sardegna fosse incivile e non conoscesse le tecnologie più vantaggiose del tempo. Invece la questione sta in modo opposto: fu la Sardegna ad esportare a Roma il proprio Pecorino Romano. Si sa che per confezionare il Pecorino Romano occorrono ingenti quantità di sale, e solo la Sardegna ha goduto – nell’intero Mediterraneo – la fortuna di possedere un numero elevatissimo di saline produttive. I Sardi hanno sempre usato il sale come prodotto abbondantissimo, a prezzo vile. Mentre i Romani, notoriamente, importavano il sale, il cui valore per essi era veramente spropositato, tanto da indurli a forgiare il termine salarium, in quanto le paghe, gli stipendi, i salari, erano rapportati a costose misure di sale.
Questo quanto al sale. Quanto a Romano, l’aggettivo ha lo stesso etimo del nome del paese sardo Romana e della piccola altura accanto a Bonassai (nel Sassarese), chiamata Rumaneḍḍa. Deriva dall’ebraico rōmēm ‘elevato’, rūm ‘altezza, altitudine’. Il Pecorino sardo fu chiamato romano da sempre, perchè è stato sempre prodotto sulle ‘alture’, sulle ‘montagne’, dai pastori barbaricini.

MACCIÓNE, Mazzòne, Mattòne. Il primo nome indica una località boscosa sulle pendici del monte Corrasi (Oliena), dove oggi c’è un alberghetto montano. Maccione corrisponde al logudorese mazzone ‘volpe’, così chiamata – a detta di certi linguisti – per avere il covile dentro i ‘macchioni’, proprio come il cinghiale. Non è cosi, invero. Tantomeno è accettabile l’origine che certi linguisti, Wagner in testa, propongono del logud. mazzone (nientemeno che da mazza, con riferimento alla coda dell’animale). Maccione-Mazzone-Mattone, sono anche cognomi, e la loro semantica è tabuica, come tutti sanno, ma essa non deriva dall’it. ‘macchia’ né dall’italiano ‘mazza’. Peraltro il termine ‘selva’ è tradotto nel logud.nord-occidentale maccia e in nuorese matha, quindi dovremmo aspettarci a Sassari maccione ed a Nuoro mattone. Mentre invece, come qui leggiamo, la fonetica territoriale è capovolta.
Come abbiamo ricordato a proposito del cognome Liori (vedi), i brutti nomi sopravvivono al pari dei belli; sopravvivono anche quelli che sono stati “maledetti” da 1600 anni, com’è il caso della triade che stiamo discutendo. Questo nome è uno dei tanti epiteti tabuici della volpe, la quale è ritenuta una forma diabolica e quindi non nominabile direttamente. La sua uccisione è vissuta dagl’indigeni come impulso religioso. Le volpi uccise vengono esposte lungo le strade maestre con funzione apotropaica; talora vengono legate all’automobile e trascinate per decine di chilometri: il loro strazio è vissuto come atto di purificazione. Vengono poi abbandonate fuori paese per non “contaminare” l’abitato. Il capovolgimento semantico dell’appellativo maccione è uguale a quello di Liori, al cui lemma rimandiamo per capirne la dinamica.
Come per Liori, anche Maccione è un attributo demoniaco forgiato dai preti cristiani o preso in prestito dai pre-cristiani. In questo caso, con questo lemma, viene messo in gioco il patibolo, il sito dei condannati a morte. Infatti Maccione deriva dall’antico accadico mātu(m) ‘essere messo a morte’. Il noto sito di Oliena indica, con tutta evidenza, l’antichissimo luogo dove si attuavano le esecuzioni dei condannati.

MADEDDU. Pittau (CDS 131) fa derivare questo cognome dal lat. matella ‘vaso di creta, pitale’. In realtà il termine è più nobile, derivando addirittura dalla celebre casata romana Metellus. A sua volta l’antroponimo latino deriva dall’etrusco Metlυmθ, che il Semerano (PSM 110) attesta come attributo poliade, di divinità protettrice della città. Il tutto ha origine dal tardo babilonese mētellu ‘comando, potere, signore (detto di divinità)’. Il termine ‘signore’ è applicato alle giovani generazioni di dei semitici Šamaš, Marduk, Ninurta ecc. In ogni modo annoto pure l’antroponimo Mutallu attribuito all’ultimo re di Malatya (oggi Arslantepe), uno stato luvio indipendente dell’Anatolia. Egli fu deportato dagli Assiri nel 708 a.e.v.
MALLÓRU, maggiòlu ‘toro’, termine già trattato in TS. É pure un cognome. Wagner lo deriva dal lat. malleolus, con cui però in latino non s’indica il ‘toro’ ma altre cose, peraltro tra loro diverse; anzitutto è il diminutivo di mallěus ‘martello’, poi indica il ‘bottone della scarpa’. Forse che i Sardi hanno visto nel ‘toro’, notoriamente corposo e “nodoso”, una forma che richiama l’energia del martello e la rotondità di un antico bottone? Difficile crederlo. Ricordo che dal lat. mallěus sembra derivare anche il termine malloreddus, tipici gnocchetti del sud Sardegna riferiti ai ‘bottoncini delle scarpe’ degli antichi Romani, che sembra termine diminutivo costruito sul già diminutivo latino: antico *malleolellus < malleolus ‘martellino, martelluccio’. Ma per malloreddus vedi lemma a suo luogo.
Tornando al sardo malloru ‘toro’, esso non corrisponde affatto al lat. malleolus ‘piccolo martello’, ma all’ant.assiro malû ‘abbondanza, pienezza’ + suffisso sardiano -ru, -lu che ha prodotto un aggettivo denominale: ‘quello dell’abbondanza’, riferito all’aspetto magnifico e sontuoso che il toro ha normalmente rispetto ad un bue o ad una vacca.

MASCÌA cognome che altrove è letto Maxìa (x = j franc.), essendo attestato nel sud Sardegna; nel nord è attestato come Masìa.
Pittau DCS fa due ipotesi etimologiche: 1 corrisp. al camp. maxìa ‘magia, stregoneria’ < lat. magia (è presente nelle Carte Volgari AAC XIII come Magia); 2 variante camp. del cgn Masia, Mascia.
Sembrerebbe la prima ipotesi a prevalere nettamente. In tal caso ci riportiamo all’it. mago ‘chi esercita la magìa’. Il termine appare nel 1300 con Dante. Riproduco l’indagine fatta dal DELI: «Vc. dotta, lat. măgu(m) dal gr. mágos, per Erodoto ‘sacerdote persiano che interpreta i sogni’, un prestito dalla stessa lingua dei Persi (già nelle iscrizioni cuneiformi), per i quali maguš era denominazione propria alla sfera della religione e del culto, ancora priva, però, di etimologia. Anche il tardo (in Apuleio, già col senso di ‘stregoneria’) der. magīa(m) riproduce il gr. magéia ‘l’arte dei magi persiani’, e così pure l’agg. măgicu(m) ripete il gr. magikόs».
La lingua persiana era a contatto con quella accadica, ed è proprio nel cuneiforme che troviamo le basi più antiche del termine: maḫḫu ‘esaltato’, maḫḫû(m) ‘estatico, profeta’, mâḫum ‘uscir fuori (di sé), dipartirsi’ (dell’estatico), maḫû(m) ‘diventare frenetico, delirare’.
La storia di Mascìa, Masìa in quanto cognome passa comunque attraverso l’ebraismo, essendo da quella civiltà che approda tra i Sardi, forse dal 1000 a.e.v., questo nome. EBD riporta una serie nutrita di cognomi ebraici: Amasiah (2Cr XVII 16, etc.); Ma’ascia (Ger XXI 1); Ma’asciau (1Cr XXV 18, etc.); Ma’azia, Ma’azian (Neh X 9; 1Cr XXIV 18); masciah ‘messia’; ebr. cat. Massies; ebr. alger. Messiah, Messias, Meziah; ebr. it. di origine nord afric. Masciah, Massiah; ebr. Corfù Maiscia (nel 1515). Quindi possiamo affermare che il cgn sardo Mascìa è un termine autonomo rispetto a logud. Masìa, e significa ‘Messìa’.
Mascìa è un cognome veramente importante, e fornisce una traccia sicura dell’installazione di antichi gruppi ebraici in Sardegna. Il termine ebraico originario è mašiaḥ, aram. mešiḥa ‘l’unto’: egli è propriamente un agente unto da Dio e designato ad uno scopo concernente la sorte del popolo eletto. I Settanta traslarono questo concetto col gr. Χριστός, che nei primi scritti del Nuovo Testamento è già diventato il secondo nome di Gesù; ma mašiaḥ appare dapprima nel libro di Daniele, dove appunto il futuro Davide diviene un unto (Dan 9,25). Nei testi di Qumran si cita esplicitamente l’attesa del Messia (1QS 9,10-11).

MORO cognome che Pittau considera corrisp. all’it. e sp. moro ‘moro’, oppure un cognome di tali origini.
Sappiamo che Moro è un cognome espanso in tutto il Mediterraneo. È celebre quel Tommaso Moro (More), l’inglese giustiziato da Enrico VIII nel 1535 perché respingeva la pretesa del monarca di erigersi a capo della Chiesa d’Inghilterra. Altro More inglese fu Henry, filosofo morto nel 1687; tanti altri furono i More che diedero fama all’Inghilterra e all’America. Moro fu anche il cognome di una famiglia patrizia veneziana, la cui presenza è attestata dal 982, tra le più importanti e autorevoli nella storia della repubblica. Ricordiamo pure Aldo Moro, celebre statista italiano assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse. Esiste pure il cognome Moro tra gli Ebrei italiani (EBD).
Se volessimo andare per facili etimologie, imiteremmo il Pittau, che ha un buon referente nel DELI, il quale però dichiara soltanto l’etimologia del comune aggettivo it. moro ‘della Mauritania’ < lat. Māuru(m).
La base etimologica del cognome mediterraneo Moro può essere trovata nell’akk. murû ‘tempesta di pioggia’ < sumero; ma è più congruo individuarla nell’akk. mūru(m) ‘giovane animale; giovane toro; puledro di asino o cavallo’.
La seconda accezione consente di fare chiarezza su un certo termine carnevalesco, a partire dal Carnevale di Bosa. Giòlzi è il “re” del Carnevale di Bosa. Questo nome ricorre in mezza Sardegna, specie in quella del centro-nord (vedi al lemma Giògli, che non significa affatto ‘Giorgio’). Dolores Turchi (GESMFRP 96) ricorda che sono numerosi i Giolzi di Bosa, incappucciati da una federa di cuscino e ammantati da un lenzuolo. Hanno il viso dipinto di nero e corrono in gruppo da una parte all’altra dei viali fermandosi a tratti per illuminare con un lampioncino la zona dei genitali delle persone che incontrano, gridando spesso Giòlzi!, Giòlzi! Giòlzi moro!
Nessuno ha finora reso conto del termine moro, che a tutta prima sembra l’aggettivo ‘moro, di pelle scura’. Ovviamente non è così.
Strano quanto si voglia, ma esiste pure una poesia lasciva, probabilmente inventata proprio per i Carnevali del centro-nord Sardegna, che recita:

Bidìnne a moro Vedendo un coso scuro
sa cattzèdda tùccada la cagnolina corre
e lestra a s’albergáre si ch’imbòlada, e svelta s’intrufola nell’albergo,
cun lestrèsa a conca nuda imbùccada con sveltezza s’infila a testa nuda
e cun fierèsa tesset et ispòlada, e con fierezza tesse e fa la spola,
s’istìrada, s’allòngada, s’ingrùssada si stira, s’allunga, s’ingrossa
sùede e vèrsada daghi si consòlada, succhia e versa finchè si consola,
e poi chi limpiádu s’ha sa vista e dopo che si è tolta la cispa
si cugùddada e torrat lenta e trista. s’incappuccia e torna molle e triste.

Le allusioni sono fin troppo realistiche. Ma è moro ad apparire come mistero. Molti traducono ‘moro’ come metonimia allusiva alla parte genitale femminile, per il fatto che questa appare tenebrosa. Sarà pure, almeno nella poesia citata. Ma corre l’obbligo di tornare al businco Giòlzi Moro!, un grido allusivo lanciato al momento d’illuminare i genitali femminili, il quale continua a rimanere misterioso, in quanto non è realistico tradurre alla lettera Giòlzi-vulva! Che senso avrebbe?
Eppure raggiungere la chiarezza non è difficile, poichè il nome-aggettivo Giòlzi-Moro di per sè non reca difficoltà di traduzione. Giòlzi (vedi lemma) è un termine sumero indicante il Dio della Natura che viene sospinto al giudizio, condannato a morte e infine arso. Moro è il termine accadico mûru(m) ‘giovane toro’ riferito al sommo Dio fecondatore, principalmente al Dio della Natura. Quindi il grido Giòlzi-Moro!, lanciato mentre si scoprono i genitali femminili, non è altro che una auto-presentazione, ossia è il Dio della Natura (Giòlzi) che si presenta alla donna nella propria qualità di ‘giovane toro’ (mûru), che è poi la qualità con la quale egli normalmente ricorre negli epiteti accadici-assiro-babilonesi. Va da sè che il moro di questa poesia è un residuo, oramai incomprensibile, dei riti legati alla rinascita della Natura.

MOSTALLÍNO cognome del sud Sardegna, attestato specialmente ad Assémini.
Per capirne l’origine, occorre prima discorrere di Musteḍḍínu. Dolores Turchi (GESMFRP 181 sgg) tratta della figura del Bòe Muliáche, essere demoniaco che corre nella notte, mugghiando alla porta dei morituri. In certi paesi ha nome di Cambilalzu, Cambilargiu (vedi), in altri (Lollove) Bòe musteḍḍínu, in altri (Mamoiada) Vacca musteḍḍìna. La Turchi, fatta la tara delle deformazioni ideologiche operate dalla Chiesa sugli antichi riti, riconduce il termine ai riti fertilistici e lo crede uno degli appellativi del dio Dioniso.
La Turchi coglie nel segno, salvo il caso che il dio cui riferire l’appellativo non è Dioniso ma quello della Natura onorato in Sardegna in epoca pre-cristiana, ossia Adon. Musteḍḍinu è un epiteto sardiano basato sull’akk. muštēlum, muštālu(m) ‘(Dio) che prende in considerazione, che delibera (a favore)’ + īnu(m) ‘occhio’ di Dio, col significato sintetico di ‘Occhio di Dio misericordioso’. È ovvio che l’epiteto, uno dei tanti riferiti al Dio della Natura, doveva essere cantato durante le processioni fertilistiche, specialmente durante quella in cui Adone morto viene portato verso l’acqua per l’immersione dalla quale risorge.
Musteḍḍinu, al pari di tanti altri appellativi del Dio (vedi Cambilargiu, Moro, etc) è pure cognome, più noto attraverso l’italianizzato Mostallíno.

MUSCÁU è un tipo di vino della Sardegna, ma è pure un cognome, sul quale Pittau fa due ipotesi: 1 ‘pieno di mosche’ cioè ‘assillato, che fa il pazzo’, ‘ubriaco’; 2 corrisp. al ‘(vino) moscato’, termine che per lui deriva dal corrispondente italiano.
La questione non sta nei termini suggeriti dal Pittau; se si accettasse la sua prima ipotesi, occorrerebbe collegare il cgn Muscau direttamente all’agg. lat. muscārius, che ha relazione esclusiva con le mosche, meglio con lo scaccia-mosche (es. la coda del bove), e non attiene a forme di pazzia o ubriachezza; comunque non andrebbe bene neppure l’interpretazione di ‘pazzo’, ‘ubriaco’ essendoci per questa accezione una base diversa (vedi oltre a proposito dello sciamanesimo). La seconda ipotesi presuppone che il nome italiano del vino, Moscato, sia noto da un’antichità remota almeno quanto questo cognome. Il che non è, almeno dalle fonti ufficiali. Infatti DELI scrive che il termine moscatello è apparso circa il 1348, mentre il termine moscato (dal quale si suppone derivato moscatello) appare molto dopo, nel 1773. In ogni modo DELI fa derivare moscato ed i suoi apparentamenti (es. moscardino) dal lat. mŭscu(m) ‘muschio’ (citato da S.Girolamo) per l’odore vivo e aromatico di alcuni animali o di persone profumate o di vitigni. La voce viene considerata un prestito dal gr. mόschos, pur esso un accatto da lingue limitrofe (iraniano) con significato di ‘testicolo’ (degli animali, dal quale è tratto il musco). DELI precisa che anche muscātu(m) è latino (tardo: sec. VI, Oribasio). Che ci sia una frattura stridente tra il (vino) moscato ed il profumo di testicolo, lo dimostra l’aroma particolare di questo vino, che tanto per cominciare è vino dolce ed è noto come classico “vino da donna” per la soave piacevolezza e per il profumo soavissimo, assai lontano da ogni aroma di muscum.
Però neppure Dolores Turchi (Lo sciamanesimo in Sardegna 111) coglie nel segno quando, nel trattare una materia antichissima come lo sciamanesimo, ritiene che l’aggettivo muscau ‘allucinato’ abbia come base diretta l’Amanita muscaria, il noto fungo allucinogeno che in Sardegna, a livello popolare, non è stato mai conosciuto col nome latino, il quale è pervenuto – ma solo a livello colto – da ed attraverso l’alta cultura post-rinascimentale. Lo stesso dicasi per Amanita, che è la famiglia dei funghi nella quale s’annovera la Muscaria, materia prima della muscarina (il noto allucinogeno).
Amanita è voce dotta, dal lat. scientif. amanita, lat. tardo aman[a]ētae, lat. mediev. amanītēs, dal gr. ’αμανι̃της, che si crede sia dal monte Ámanos in Cappadocia, ma che in realtà ha la base antica nel bab. amānītu (un vegetale).
Tornando a muscáu, è tuttavia prezioso quanto scrive la Turchi 111 a proposito delle erbe allucinogene degli sciamani. «Capita ancora di udire qualche vecchia che, osservando una persona stralunata, la quale si estranea facilmente dall’ambiente che la circonda, esclami: Bene muscau ses?. Oppure musca juches?, intendendo dire: ‘Sei allucinato? Sei fuori di te?’. Attualmente questo modo di dire si usa indifferentemente per indicare un individuo ubriaco o in apparenza assente dalla realtà circostante. Con tutta probabilità deriva dall’uso che alcuni facevano dell’Amanita muscaria, sotto il cui effetto si diventava muscau, ossia in preda alle allucinazioni».
Con ciò abbiamo conferma che l’accezione per ubriaco (vedi Pittau) è alquanto moderna, molto seriore rispetto al cognome ed allo stesso vino.
Nell’intento di trovare un’antica base etimologica per il vino Moscato (Muscau) e del cgn Muscau, occorre anzitutto sgombrare il campo dall’accad. muškû che designa un uccello da preda la cui traduzione significa ‘mangiatore di serpi’. E sgombro pure il campo dall’accad. muskum ‘qualcosa di cattivo’, poichè l’allucinazione da Muscaria non porta l’uomo a diventare perverso.
Sembra di poter vedere invece come base l’accad. mû ‘acqua’ ma anche ‘ordine, regole (cosmiche, con riferimento al culto)’ + ṣūḫu ‘risata’, ma anche droga, incantesimo afrodisiaco, che porta alla risata. Quindi il vino Muscau originariamente fu chiamato ‘acqua dell’incantesimo’ (per la sua indiscutibile bontà). E da esso, per estensione, ebbe la definizione anche l’intruglio o l’acqua nella quale veniva messa in soluzione la polvere o le briciole fresche del fungo oggi noto come Amanita Muscaria. Di qui l’origine del termine sardo muscau ‘allucinato’.

NICOLÁO, Nicolái cognome che Pittau crede di origine prettamente italiana, dal nome personale Nicola derivante dal greco-bizantino. Non sono d’accordo, penso che il nome sia esistito in Sardegna già in epoca pre-fenicia; ma andiamo con ordine. Nicòla è nome personale maschile che i linguisti grecisti traducono come ‘vincitore nel popolo’, altri ‘vincitore delle moltitudini’, ‘vincitore di eserciti’, Nικόλαος (in Polibio, Strabone, Plutarco ecc.), ion. -λεως in Erodoto 7, 134, 137; Nικόλας in Tucidide 67 (da νίκη ‘vittoria’ + λαός, λεώς ‘popolo, turba’). Il nome è detto cristiano (e specialmente bizantino) per il fatto che è più noto in virtù del grande santo Nicolao da Mira (Licia, Anatolia), le cui spoglie furono trafugate dai Baresi e nell’XI secolo gli fu eretta una basilica. É patrono di Bari e di migliaia di altri centri italiani e sardi, patrono della Russia e dei naviganti; in alcune zone dell’Italia settentrionale, in Austria e Germania è festeggiato in luogo della Befana. Famoso è Nicola di Damasco nato intorno al 64 a.e.v., che scrisse una Storia Universale di ben 144 volumi. Il nome nella sua formazione sembra tipicamente greco, suddiviso in due membri di cui il primo è un “predicato” del secondo, nel senso che dichiara qualcosa sul secondo membro: in questo caso la vittoria sulla moltitudine.
É proprio dalla sua prima ed ultima citazione (in Erodoto abitatore dell’Anatolia e infine nel nome del Santo anatolico) che abbiamo forti indìzi del fatto che Nicola o Nicolao fosse ben radicato nell’Anatolia sin da epoche remotissime, addirittura da epoca pre-hittita. L’Anatolia, si sa, fu un territorio di transito delle maggiori correnti commerciali e di pensiero provenienti dalla Mesopotamia e dall’Assiria. Anche tra i popoli mesopotamici i nomi si formavano (con ammissibili eccezioni) “alla greca”, con due membri di cui uno è predicato dell’altro. Moda in uso persino tra i pellirosse, come si sa. Quindi non dà vincolanti elementi di territorialità la bipartizione “alla greca” di un nome formato allo stesso modo un po’ dovunque, specialmente quando è dimostrata una base etimologica imparentata senza subordinazioni di sorta.
Semerano OCE II 197 ricorda che νίκη ‘vittoria in battaglia’ ha il corrispettivo ugaritico in nkt ‘ammazzare, immolare’, nkt ‘vittima’, aram. nekā; accad. nīqu ‘uccisione per sacrificio’, ebr. neqāmā, nāqam ‘punizione, vendetta’. Quanto a λεώς ‘esercito, popolazione’, c’è il corrispettivo ebraico le’ōm, ug. lim ‘popolo, folla’, accad. lē’û, lā’ium (detto di uomini, soldati, artigiani ‘valoroso, capace, bravo’). Ma a ben vedere Nicola è un nome personale ricco di etimologie, esistendo anche un’altra opzione dall’accad. nīqu ‘copula, fornicazione’ + la’û(m) ‘piccolo ragazzo, bimbo’ col significato complessivo di ‘pederasta’, ‘fornicatore di bimbi’.

PILLÒNCA pane sardo dalle tante fogge. A Uta è un pane di frumento confezionato come sa costeḍḍa (vedi), quindi a forma di ciambella, ma non è infarinato esternamente; inoltre la mollica risulta ancora più cavernosa. In certi luoghi è un pane molle grossetto, o una spianata tonda; in altri luoghi pillonca è il pane che altrove (es. a Desulo) è noto come pane ‘e cicci; addirittura in certi posti è così chiamato il pane che nel nord è più noto come fresa (vedi); la stessa pillonca di Uta, a Sestu è chiamata costeḍḍa. Come si vede, siamo in un guazzabuglio. Puddu nel suo Dizionario scrive che sa pillonca è un pane d’orzo biscottato fatto a sfoglie sottili.
Parimenti si esprime Pittau in CDS per il cognome Pillonca, prendendo da Wagner. Egli sostiene che il nome di questo pane (e del cognome) deriva dal camp. pillu ‘strato, sfoglia, pellicola’, e più in là non va. Ma coglie tuttavia nel segno, poichè per estrarre l’originario significato di pillonca occorre anzitutto apprenderlo come aggettivale antico-sardo in -ncu, al pari di Busincu ‘di Bosa’, Sussincu ‘di Sorso’, Lurisincu ‘di Luras’. L’etimologia nominale di pillu- può essere ricavata soltanto sulla base dell’assiro peḫû(m) ‘chiudere ermeticamente, sigillare’. Il verbo assiro indica la creazione di un ‘sigillo’, di uno ‘strato di separazione’, esattamente come quelli delle lumache in letargo, del latte munto messo a serenare, della birra in fermentazione, onde il sardo centr. pìggiu, log. pidzu, camp. pillu. Pillonca era quindi in origine un pane d’orzo a sfoglia, del tipo fresa o carasatu.

PILOSU cognome; piloséddu (Fonni) ‘bimbo in età tenerissima’. Per Wagner l’origine è dal lat. pilosus poichè, ci ricorda, fino all’adolescenza i bimbi non si tagliavano i capelli. Invece la base etimologica è il bab. pelû(m) ‘uovo’.
Questo aggettivale sembra veramente arcaico. Oltre alla forma fonnese abbiamo il termine sud-gallurese lada pilosa (Monti), riferito alla ‘tomba di giganti’. In TS avevo banalmente supposto che la tomba di giganti (lada) fosse aggettivata come pilosa per l’eccesso di licheni che un tempo la ricoprivano. Ma ora debbo convenire sul fatto che il termine pilosu attiene ad ere molto remote, risalenti fino al Paleolitico superiore e certamente al primo Neolitico, allorchè s’affermo l’idea dell’Uovo Cosmico nella mitologia di numerose civiltà, la cui forma ritroviamo in vasi elladici, in crateri minoici, in piatti moldavi (3700-3500 a.C.), nella religione egizia, ecc. Nel riassumere questa breve nota da Diana 63, 64, 149, non posso fare a meno di pensare che la “tomba di giganti”, che ho dimostrato essere nient’altro che l’icastica effige della Grande Madre Universale partoriente, fosse così chiamata dagli antichissimi Sardi perch’era considerata la prima Generatrice, colei che depose l’Uovo Primordiale.

PILU, filu. É anche cognome, compresa la variante Pilo. In log. e camp. significa ‘pelo, capello’ < lat. pĭlus. Ma in Sardegna il termine occorre pure per designare la ‘mastite’, chiamata pilu ‘e titta, filu ‘e titta = ‘indurimento della mammella’ (vedi Wagner, Zonchello DMCDS 19).
Il termine pilu in questo caso non è latino ma neo-bab. e neo-assiro, dove pīlu, pēlu significa ‘calcare, pietra calcarea, blocco di calcare’. L’espressione pilu ‘e titta risulta essere, pertanto, integralmente semitica, poichè anche titta (vedi) è babilonese col significato di ‘nutrimento, cibo’ (tîtum). Il sardo titta in origine significava letteralmente ‘cibo’, presto diventato per traslato ‘mammella’.

PILUDU. Pittau afferma che questo cognome deriva dal sardo piludu ‘peloso < pilu ‘pelo’. In realtà deriva dal bab. pilludû, pelludû ‘cultic officiant’.

PINTÁURO cognome sardo che richiama direttamente Pentauru (EHD 237b), un celebre scriba o forse autore egizio, che scrisse sotto forma di poema il resoconto della celeberrima battaglia di Qadeš, avvenuta tra l’ittita Muwatalli e l’egizio Ramesse II.

PITTÁU cognome che Manconi e lo stesso Pittau ritengono variante camp. rust. del cognome Pittanu ‘Bastiano, Sebastiano’; e considerano Pitau una variazione grafica di Pittau, documentato nel CDS I 855, 2, CL per l’anno 1388.
Invece va osservato – in primis – che il fatto d’essere registrato nelle antiche carte della Sardegna rimanda questo cognome all’antichità preromana; e infatti nell’accadico di El Amarna e pure ad Ugarit abbiamo, con provenienza dal lessico egizio, il pl.tant. pi(ṭ)ṭātu ‘arcieri’. Sembra proprio che il cgn Pittau, considerata l’alta antichità del lemma e la conseguente progressiva perdita del suo significato, sia stato progressivamente sostituito, almeno nel nord Sardegna e in Gallura, dal cognome medievale Balistreri. I due cognomi, infatti, essendo nomen professionis, debbono aver avuto forte notorietà prima che sopraggiungessero le armi da fuoco ad imporre cognomi più moderni.

PISÁNU. Questo cognome non significa ‘nativo di Pisa’, come scrive Pittau DCS 66, ma ha la base etimologica nell’akk. pišannu(m), pisannu(m) ‘scatola, torace’, basato a sua volta sul sum. pisan ‘recipiente, cesta, intelaiatura’. L’arcaicità del cognome è dimostrata anche dal fatto che viene registrato nei condaghes di Trullas e di Bonarcado e nel CDS II 43,45.

PORCU cognome che Pittau ritiene naturale derivare dal sardo porcu ‘maiale’ < lat. porcus. Il cognome è presente nei condaghes di Silki, Bonarcado, Salvennor, Sorres, e in CDS II 44,45. Ne è quindi garantita l’origine dall’antichità preromana. Vedi i cognomi Porceḍḍu, Porcheḍḍu, Porcina, Porcù.
É antico l’uso ingiurioso di questo termine traslato, con riferimento a certe correnti filosofiche (Epicuri de grege porcus: Horatius), alla vulva della donna vergine (Varrone), ai cetacei. L’abbinamento denigratorio non cessò neppure nel Medioevo, allorchè la Chiesa rincarò la dose, richiamandosi pure alla porca (terra rilevata tra due solchi: che evidenzia le “labbra” dei due solchi con al mezzo la “rima”: esattamente com’è nella vulva).
La denigrazione però andò di pari passo con l’ignoranza dell’etimologia di porca e dello stesso porcus, noto come il ‘maiale chiuso in un recinto’ a differenza di quello selvatico chiamato dai Latini aper.
Per capire l’etimologia, occorre anzitutto ricordare altre forme di porca. Vedi gr. πόρκος ‘nassa dal collo stretto’ in cui rimangono chiusi i pesci, e πόρκης ‘cerchio che serra l’asta della lancia’ e le impedisce di uscire. Si nota quindi una semantica di “sbarrare, chiudere, impedire”. La base etimologica si ritrova nell’accad. perku ‘difesa, sbarramento’, aram. peraq, arabo faraqa, ebr. pāraq, accad. parāku ‘sbarrare, dividere, delimitare’, parāqu.
Come accade a moltissimi cognomi sardi, che hanno in gran parte delle semantiche nobili, anche Porcu non ha alcun addentellato con la bestia da tutti vituperata quanto prelibata. Ne avrebbe invece molti con l’etimologia semitica appena evidenziata. Ma principalmente Porcu ha il suo lontanissimo ascendente in Forci, Fòrci(de), gr. Φόρκυς, che ha una mera assonanza col lat. porcus senza averne l’etimo. Φόρκυς è il nome di un re frigio citato da Omero (Iliade II 862), che ha la base etimologica nell’accad. Burruqu ‘dagli occhi fiammeggianti’ o anche ”con viso rosso e capelli rossi’. Egli era, insomma, il “Rosso” per eccellenza. Ugas 26 lo traduce, senza tanta elucubrazione, con ‘Forca’ o ‘Fiocina’, quindi come “un re del mare canuto, perchè è il più antico, essendo assimilabile al Poseidon libio (Erodoto)”. Ugas, nel trattare la geneaologia del sardo Norace, pone Forcy come genitore di Medusa (vedi), antica progenitrice dell’eroe Norace (vedi) capo degli Iberi (Bàlares: vedi) che occuparono la Sardegna da nord-ovest durante l’Età del Vaso Campaniforme. Ma non coglie il fatto che la semantica richiamante il “rosso” (non certo la “fiocina”) entra in relazione col tramonto del sole. Infatti, rispetto ai Greci (ed ai Frigi) il personaggio che generò Medusa stava ai limiti occidentali dell’Oceano, nel luogo dove poi fiorì Atlantide, che poi non è altro che l’isola di Sardegna.

SABA cognome già trattato in TS. È registrato in alcuni condaghes, che ne attestano l’origine antichissima. Pittau (CDS 208) lo fa ascendere al latino ecclesiastico Saba ovvero al sostantivo saba ‘sapa’ < latino sapa. Ma Pittau sbaglia. Anzitutto dovrebbe sospettare la presenza del cognome nei condaghes di Trullas e di Bonarcado, che ne attestano la più alta antichità, la quale è certamente preromana.
In realtà questo termine, registrato nel Dizionario Fenicio come Ṣb’, è un nome proprio cartaginese-berbero ma l’origine è sicuramente fenicio-cananea. È riportato nientemeno che nella celebre Stele di Nora: infatti il nome di colui che dedicò la stele è Saba figlio di Milkaton. Il nome (che talora è un coronimo) è notissimo nel mondo ebraico, col significato primario di ‘nonno’ (אבּסַ) ed è citato in 1Re 10,1-10.13; 2Cr 9,1-9.12; Gb 1,15; Is 43,3; 45,14; Gn 10,7. La Regina di Saba è il personaggio più famoso legato a questo nome-coronimo. Anche in Israele ci fu il nome Sceba (Gn X 7; 1Cr 9 etc.); Vulgata Saba; è diffuso tra tutti gli Ebrei mediterranei (EBD).
Occorre adesso trovare la base etimologica di questo nome. Al riguardo abbiamo l’akk. sābû ‘oste, fermentatore di birra’, da sabû(m) ‘produrre, fermentar birra’, che in sardo ha prodotto il suffisso -a dall’accus. accadico. La base dell’accadico è a sua volta il sumerico sab ‘giara per la fermentazione della birra’.

SANNA. Riporto anzitutto quanto scritto da Emidio Di Felice (Dizionario dei cognomi italiani): «Cognome peculiare della Sardegna, diffuso con altissima frequenza specialmente a Cagliari e nel Campidano e nel Sassarese, derivato da un antico nome e soprannome f. e m. già documentato nei “Condaghi” medievali e rinascimentali: “donna Sanna del Monte”, “Josef Ludovico Sanna Notario”, ecc.), formato dal sardo sanna “zanna, dente grosso e sporgente”, esteso a denominare una persona dai denti anteriori molto sviluppati e sporgenti».
Pittau (CDS 211) opera una variante: «1) corrisponde al nome pers. Osanna, Usanna “Osanna”, che è il nome biblico di due sante cristiane (Tagliavini II 163) (è documentato nei Condaghi di Silki 277, di Trullas e di Salvennor, nel Codice di Sorres e nel CDS II 44); 2) in subordine corrisponde anche al sost. sanna “zanna” che deriva dall’antico italiano sanna “zanna” (DES II 381)».
Si può notare che il linguista italiano afferma essere Sanna d’origine sarda, il linguista sardo afferma essere Sanna d’origine italiana.
Tramite il GDLI tentiamo di scampare dall’imbarazzo ma, ahimè, esso ci lascia nel dubbio circa l’etimologia di zanna con l’affermazione: “Forse dal longobardo *zan ‘dente’, da cui anche il tedesco Zahn, anche se non mancano difficoltà di ordine fonetico e morfologico”.
A questo punto, poiché due linguisti italiani sembrano respingere dalla propria area l’origine prima di Sanna, dobbiamo convenire che il Pittau ha sbagliato l’approccio per eccesso di… “italianità” e che, essendo fortemente dubbia anche l’origine longobarda, sarebbe stato meglio esplorare meglio l’ambito sardo, per le opzioni ch’esso offre in fatto di antichità. È proprio l’universalità dell’espansione del lemma che lascia intendere la sua antichissima origine dall’area semitica.
Il fatto che il cognome sia registrato nei condaghes lascia intuire che in Sardegna esso è approdato, a dir poco, coi Fenici, se non era già usato addirittura dagli Šardana. L’etimologia di Sanna sembra avere la base nell’accadico šinnu ‘dente’, aramaico šēn ‘dente’, ebraico šēn ‘dente, zanna’. Ma è valido pure l’etimo dal neo-assiro šamnu(m), accus. šamnam ‘olio fine, olio vergine d’oliva’.

SASSU. Questo cognome manca nel Wagner ma c’è nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau (CDS) lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. In realtà deriva dal bab. sassu ‘base, pavimento’. Va in ogni modo ricordato che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.), onde forse è da qui che deriva il cgn. sardo Sassu. In tal caso, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del “ritorno degli Shardana” in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d’Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori.

SCARPA cognome che Pittau, manco a dirlo, ritiene derivi direttamente dall’italiano scarpa (il suggerimento è del Wagner). Ma intanto Pittau ricorda che il cognome è già presente nei condaghes di Silki e di Trullas come Iscarpa. Al che può dirsi, senza margine di errore, che tutti i cognomi registrati nelle carte medievali sarde non erano di genovesi nè di pisani ma proprio sardi, per il fatto che il Giudice o gli altri che intendevano registrare notarilmente alcuni fatti, fin a quando gli era consentito andavano a cercare i testimoni tra la propria gente, tra quelli che, vivendo nell’agro, avevano vissuto i fatti sui quali erano invitati a testimoniare nero-su-bianco. Peraltro pisani e genovesi, immigrati alla spicciolata a cominciare dalla seconda metà dell’XI secolo, sceglievano le proprie sedi nelle città o nei paesi costieri, non certo nelle aree interne, dalle quali provenivano invece tutti i cognomi registrati nei condaghes.
I cognomi dei condaghes sono, al 100%, di origine antichissima. Infatti la base etimologica di Scarpa, Iscarpa è nell’akk. iṣu(m) ‘albero, legname’ + karpum ‘chìcchera, tazza’, col significato sintetico di ‘tazza lignea, tazza ricavata da un albero’. Questo nome fu l’equivalente dell’attuale sardo coppu, malùne etc., che sono le note tazze di sughero ritagliate direttamente da un bitorzolo del mastio della sughera. Ogni tazza, in età primitiva (in Sardegna ancora ieri) veniva ricavata dal legno (e la scarpa può essere assimilata ad una “chicchera”). Pure l’etimo di chìcchera ci dà informazioni in questo senso: deriva infatti dallo spagn. jicara, e questo da una parola azteca che indicava il guscio di un frutto.

SETTE, Setti, Setzi, Setzu sono tutte varianti dello stesso cognome. Non così la pensa il Pittau, il quale li distingue ed ipotizza che Sette corrisponda al numerale sardo ed italiano setti, sette.
La base etimologica di Sette (e dei suoi collegati) è invece l’akk. sītu(m), sētu(m), sittu ‘proiezione, saliente (nelle mura cittadine, in una casa’. A meno che non derivi direttamente dall’accad. sebet ‘sette’, significato al quale pensa Pittau il quale però risale per esso soltanto al lat. septem anziché all’origine accadica. In alternativa all’etimo qui prodotto, Sette (e sue varianti) può avere come base l’egizio Sethi, nome di un faraone della XIX dinastia (1202-1196 a.e.v.).

SODDU cognome che Pittau fa giustamente risalire al sostantivo soddu ‘soldo’ (antica moneta di basso valore), il quale deriva, secondo lui, dal latino sol(i)dus incrociatosi con follis ‘follaro’ (moneta bizantina).
Per quanto l’origine del cognome sia proprio da sardo soddu (antica moneta di basso valore), la fonte dell’arcaico sostantivo sardo non è affatto il latino, per quanto le apparenze giochino a favore. Queste vanno chiarite per evidenziarne le stridenti contraddizioni. E allora cominciamo col dire che in latino (e poi in italiano) il termine sŏlidus > soldus > it. soldo ha avuto la storia seguente: inizialmente indicò il nǔmmum sŏlidum, che era una moneta imperiale d’oro massiccio, la prima zecca gli dava il valore di 25 dēnārĭi, più tardi quasi solo la metà (a sua volta il dēnārĭus era una moneta d’oro del valore di dieci aurei, poi fu anche una moneta d’argento che aumentò di valore fino a sedici asses, ossia quattro sextertii, un valore che è paragonabile alla Lira d’oro d’epoca fascista, ed al Dollaro d’oro della stessa epoca). Insomma, il valore del sŏlidum fu veramente notevole.
Ma il destino delle unità di misura e di valore varia notevolmente secondo le epoche storiche. Sta di fatto che nel XIII secolo apparve in Italia il soldo, unità monetaria equivalente a 12 denari e alla ventesima parte della lira. Da quel momento la storia del termine sòldo prese contrastanti caratteristiche: andare al soldo ‘andare al servizio di qualcuno’; soldato ‘assoldato, stipendiato’; essere pieno di soldi ‘essere ricchissimo’; ma anche essere senza un soldo ‘essere poverissimo’; non valere un soldo ‘non valere nulla’; quattro soldi ‘poco denaro’; opera di quattro soldi ‘opera senza alcun valore’; alto come un soldo di cacio ‘piccolo di statura’ (poiché con un soldo si riceveva una fetta di formaggio dallo spessore veramente minimo).
A ben vedere, la tradizione italiana subisce indubbiamente l’influsso latino, ma a sua volta subisce un altrettanto indubbio influsso mediterraneo che nel Medioevo riappare spesso, dal momento che la pesante ed esclusiva cappa della tradizione romana si era fortemente alleggerita a vantaggio delle antichissime parlate pre-romane. Ed è nelle parlate preromane fiorenti nel Mediterraneo che dobbiamo ricercare la vera etimologia del sostantivo sardo, quella del cognome sardo ma pure quella del significato arcaico che riaffiora nella Penisola.
Soddu ha la base nell’accad. suddû ‘un sesto di un shekel’ (questo era l’unità di misura prevalente nel Vicino Oriente in epoca preromana ma pure in epoca romana).

SORU, Soro cognome che Pittau mette a confronto con soru ‘siero’, nella pretesa, tipica della metodologia del Pittau, che la maggior parte dei cognomi sardi siano mere traslazioni dai nomi attuali delle cose ai nomi di persona. Così operando egli si preclude la cognizione dei processi cognominali quali storie diacroniche. Questo cognome, ad esempio, è già documentato nel condaghe di Silki 215 e in quello di Bonarcado 203, e ciò è spia del fatto che è antichissimo: infatti non è altro che un aggettivale di origine geografica: dall’assiro aššurû ‘Assiro’.
La forma sarda *Assuru, *Assoru, col passare dei secoli fu vista per paronomasia come corruzione di soru (indebitamente modificato dalla protesi as-, frequentissima nei termini campidanesi comincianti in s-); quindi l’antico significato, non più compreso, venne modificato per la legge della paronomasia e parificato tout court a soru ‘siero’. Mentre Soru significa ‘Assiro’, l’Assiro. In origine tale cognome dovette appartenere a uno dei tanti mercanti assiri che giravano per il Mediterraneo (sono notissimi quelli insediatisi in Cappadocia in epoca pre-ittita).
Fatta giustizia dell’errata interpretazione del Pittau, tantomeno accetto l’ipotesi della Turchi (Lo sciamanesimo in Sardegna 206-7) di un’origine bizantina, collegata al fatto che, secondo lei, molti nuraghi dovevano essere delle cattedrali che tenevano in perenne esposizione la salma del re-ecista, elemento collante dell’identità tribale. Ma lasciamo il campo a lei: «È probabile che in tempi assai lontani siano approdate nell’isola popolazioni orientali alle quali si aggiunsero successivamente genti micenee, molto prima che i Fenici vi stabilissero le loro colonie. Quando dai nuraghi scomparvero le salme con i loro trofei, forse interrate in altri luoghi per tema di profanazione, la frequentazione della tomba-tempio dovette continuare ancora per secoli, se la nuova religione sentì l’esigenza di cristianizzare i nuraghi dando loro nomi di santi, benchè molti abbiano conservato il nome originario: Nuraghe Soro. Nel mondo greco-miceneo il termine sorós (σωρός) significa urna sepolcrale e molti nuraghi sono così denominati indicando chiaramente che quella costruzione era il luogo sacro dove si trovava la salma dell’antenato. Ne citiamo alcuni: Nuraghe Pedra ‘e Soru (Ottana); Nuraghe Soro (Sorso); Nuraghe Soru (Gonnosnò); Nuraghe Soru (Curcuris); Nuraghe Soru (Figu); Nuraghe de Sorosi (Ollastra Simaxis); Nuraghe Soroene (Lodine); Nuraghe Sorolo (Bortigali); Nuraghe Soroeni (Lodè); Nuraghe Sorene (Silanus); Nuraghe Sorolo (Birori); Nuraghe Sorogana (Abbasanta); Nuraghe Sorolo (Aidomaggiore); Nuraghe Busoro (Sedilo); Nuraghe Asoro (San Vito)».
A me non sembra proprio che i nomi di questi nuraghi indichino un’urna (per la cui trattazione rimando più appropriatamente al lemma Sorres). Essi hanno semplicemente i nomi (cognomi) degli antichi proprietari del luogo (Soru, Soro è un cognome pansardo); noto poi che alcuni nomi proposti dalla Turchi sono sbagliati: ad es. Sorolo di Bortigali e Birori (vedi al lemma Orolo); Asoru di S.Vito (vedi lemma Asoru); Sorogana di Abbasanta (composto dai cognomi Soro + Gana); Soroene di Lodine, che indica chiaramente sa ena ‘e Soru ‘la sorgente di (proprietà di) Soru’; nuraghe de Sorosi di Ollastra Simaxis, che indica una perdita del significato originario (infatti il de introduce un nome personale al genitivo ed il significato complessivo è ‘nuraghe di Sorosi’ mentre a sua volta Sorosi doveva avere la base nell’akk. šu rūšum ‘il [nuraghe] rosso’ a causa dei caratteristici licheni chiamati Auricellum). E così via.
Vedi comunque il cognome Assòro, di cui Soru e Soro sono semplici varianti.

VARGAS cognome che Pittau presenta come originario dalla Spagna, corrisp. al sost. varga ‘parte ripida di un pendio’ oppure ‘specie di grongo’. Questa posizione è pure di EBD che presenta il cgn ebr. sp. Varga, Verga ‘verga’. Ma intanto egli ha il dubbio che non sia dal berbero Argas ‘uomo’ (ebr. sp. Ergas, ebr. tun. Vergas).
Ma è proprio l’attestazione di tali cognomi ebraici a far propendere per un’antichità che escluda la diretta origine iberica. A mio parere, Vargas è un cognome autonomo e antichissimo, radicato in tale forma in tutto il Mediterraneo, con base nell’accad. warḫu(m) ‘la Luna’.

VÁRGIU, Bárgiu. Il cognome significa, letteralmente, ‘vario’. Per l’etimologia vediamo Campavaglio, toponimo dell’agro di Tempio Pausania, che indica un raggruppamento di stazzi e prende il nome dai pascoli arborati sparsi tutt’attorno, ricavati espiantando l’antica foresta. Il toponimo va diviso nel composto campo-vaglio (con successivo passaggio della -o ad -a, tipico della Gallura) ed è presente in altre aree della Sardegna. Confronta per tutti Campo bargios nel Supramonte di Urzuléi. Sardo campu è ritenuto di diretta origine latina < campus, il quale (giusto OCE II 359) ha il significato originario di ‘superficie piana, palmo della mano’, accad. kappum ‘palmo della mano’. Vagliu, bargiu < lat. varius ha la base etimologica nell’accad. barāwu (leggi barāmu) ‘essere variopinto’ (OCE II 605).

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