Il primo parlamento sardo? Nacque nel 1355 ma non sanò le tensioni tra gli Arborea e gli Aragona.

Fonte:

Il Parlamento di Pietro IV d’Aragona (1355), ed. G. Meloni, Cagliari 1993 (Acta Curiarum Regni Sardiniae, 2) O. Schena, Pietro IV il Cerimonioso re d’Aragona, in I personaggi della storia medioevale, Milano 1987, pp. 457-512

Il 6 gennaio 1355 giungeva a Cagliari, dopo un travagliato viaggio via mare, Pietro IV il Cerimonioso, il più potente e longevo sovrano della Corona d’Aragona: regnò per ben cinquantuno anni, dal 1336 al 1387. Il re e il suo seguito avevano lasciato da pochi giorni il Logudoro, formalmente rappacificato dopo la campagna militare iniziata il 21 giugno del 1354 con lo sbarco dell’esercito catalano-aragonese sulle coste della Sardegna settentrionale, a Porto Conte, e con l’assedio di Alghero; un assedio lungo e difficile per la scarsità dei rifornimenti e delle vettovaglie, per l’inadeguatezza delle macchine da guerra, per la moria delle truppe causata dalla malaria, di cui si ammalò lo stesso Pietro IV. Le condizioni della pace, firmata nel novembre del 1354, furono particolarmente gravose per l’Aragona e certamente favorevoli per il giudice d’Arborea Mariano IV e per il sardo-ligure Matteo Doria, che venivano assolti da tutte le colpe di cui erano stati accusati e ai quali venivano confermate le proprietà, i diritti e i privilegi precedentemente acquisiti. La firma della pace era, in realtà, l’unica possibilità che restava a Pietro IV per risolvere una situazione molto difficile e pericolosa, rappresentata dalla concorrenza genovese e pisana e dal tormentato rapporto con i giudici d’Arborea, che minacciava di compromettere la politica svolta dalla Corona d’Aragona in Sardegna sin dai tempi di Giacomo II il Giusto. Gli ultimi mesi del 1354 videro l’ingresso dei Catalano-aragonesi ad Alghero, la ripresa del ripopolamento della città con genti iberiche e l’emanazione di una serie di provvedimenti finalizzati a una più efficiente amministrazione dei territori settentrionali dell’isola. Dopo una breve visita a Sassari la naturale destinazione del corteo regio non poteva essere che Cagliari, le solide mura del Castello e la radicata.

catalanità di questa città garantivano al sovrano e al suo seguito le condizioni ideali di sicurezza e di serenità che avrebbero consentito di trattare nel modo migliore “gli affari del Regno”. A Cagliari, infatti, si concretizzava una decisione presa, forse, subito dopo la pace di Alghero: la convocazione delle prime Corti generali nella storia del regnum Sardiniae et Corsicae, sul modello delle Corts catalane. La decisione di convocare a Cagliari le Corti fu, dunque, presa dal sovrano in persona per motivi squisitamente politici; era necessario che l’autorità regia, uscita mortificata nella sua dignità dagli insuccessi dell’anno precedente, si riabilitasse tramite la partecipazione all’Assemblea proprio di coloro che ne avevano minato la credibilità: gli Arborea, i Doria, i rappresentanti del Comune di Pisa. Il 23 gennaio partivano da Cagliari le lettere di convocazione, che fissavano la data d’inizio della riunione per il 15 febbraio. Venivano così informati i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle ville regie della Sardegna catalano-aragonese che dovevano formare i tre bracci delle Corti, con l’aggiunta della paretecipazione di un quarto braccio, composto da privati cittadini di nazionalità sarda, il cosiddetto braccio dei Sardi, individuato e compiutamente analizzato da Guseppe Meloni, al quale si deve una nuova edizione degli atti di questo Parlamento, pubblicata nella collana del Consiglio Redionale della Sardegna intitolata Acta Curiarum Regni Sardiniae. L’invito a partecipare alle Corti fu rivolto ai più eminenti rappresentanti del clero isolano, ossia agli arcivescovi e ai vescovi, agli abbati e ai priori dei principali monasteri, ai capitoli delle Chiese di Sassari e di Cagliari, senza distinzioni geografiche o politiche. Vennero sollecitati a presentarsi a Cagliari anche l’arcivescovo di Arborea e i vescovi di Santa Giusta, Terralba, Ales-Usellus, Bosa; il sovrano desiderava, infatti, attribuire agli stessi un rapporto di diretta dipendenza dalla Corona, senza alcuna intermediazione giudicale. Le convocazioni dei prelati arborensi si concretizzarono nella presenza alle Corti del vescovo di Bosa, Eymerico, e del vescovo di Santa Giusta, Bernardo; quest’ultimo, in virtù degli atti di procura, rappresentava l’intero alto clero arborense. Decisamente massiccia la partecipazione ai lavori dei convocati delle altre diocesi sarde, soprattutto di quelle del Meridione, mentre i titolari delle diocesi del Settentrione in alcuni casi defezionarono, anche a causa dei disagi e dei pericoli che bisognava.

affrontrare per raggiungere Cagliari. Delle tre arcidiocesi sarde, solo Cagliari fu rappresentata dal titolare: Giovanni d’Aragona, prima voce delle Corti, il quale pronunciò il discorso di risposta alla prolusione del sovrano e presiedette le riunioni del suo braccio. Furono convocati alle Corti anche gli esponenti del braccio militare, o feudale, sia di origine locale che di provenienza iberica. Fra i primi spiccavano i nomi del giudice Mariano IV d’Arborea, del fratello Giovanni, dei sardo-liguri Matteo, Catonetto e Damiano Doria e del vicario del comune di Pisa, in rappresentanza delle curatorie di Gippi e di Trexenta; fra i nobili di originie iberica Berengario e Giovanni Carroz, Bernardo Dez Coll, Raimondo de Ampurias, Bonanato Ça Pera e molti altri, che risposero prontamente alla chiamata e parteciparono attivamente alle Corti, in quanto legati alla Corona da comuni interessi politici e pertanto direttamente interessati all’andamento dei lavori parlamentari. Non tutti i convocati presenziarono di persona: il giudice Mariano IV d’Arbore nominò suo portavoce Raniero di Bonifacio de Gualandi; Giovanni d’Arborea, tenuto prigioniero dal fratello Mariano per la sua politica filocatalana, fu rappresentato dal figlio Pietro; Matteo Doria, altro esponente di spicco della nobiltà locale di origine non iberica, delegò a Corrado di Sicilia il compito di rappresentarlo in Parlamento. Non si presentarono alle Corti: i sardo-liguri Catonetto e Damiano Doria; Bartolo Catoni, esponente di una delle più illustri famiglie dell’aristocrazia sassarese; il rappresentante del comune di Pisa, per i possedimenti che la Repubblica dell’Arno teneva a titolo feudale in Sardegna. Il terzo braccio, quello reale -composto dai procuratori delle città e delle ville regie non infeudate, direttamente dipendenti dalla Corona-, rispose positivamente alla convocazione delle Corti e sia i quattro principali centri urbani del regnum Sardiniae et Corsicae: Cagliari, Sassari, Alghero e Iglesias, che i numerosi villaggi del Meridione dell’isola provvidero sollecitamente a nominare propri rappresentanti. Parteciparono alle Corti anche numerose persone che si presentarono a Cagliari nomime proprio, ossia a titolo squisitamente personale, e che confluirono nel quarto braccio, quello dei Sardi. Si trattava di liberi cittadini, provenienti prevalentemente da villaggi della Sardegna meridionale, che non erano rappresentati nei tre bracci classici e che forse per meriti di fedeltà alla Corona, furono autorizzati a intervenire alle Corti. Domenica 15 febbraio arrivavano a Cagliari i primi convocati; il giorno successivo, mentre continuavano a giungere in città altri membri dei quattro bracci, nel palazzo regio si tenne una solenne riunione nel corso della quale venne pronunciata la sentenza di condanna, per lesa maestà e alto tradimento, contro il defunto conte Gherardo di Donoratico, accusato di aver tradito la Corona e di aver abbracciato la causa arborense. Il pesante verdetto, pronunciato alla vigilia dell’apertura ufficiale delle Corti, aveva un chiaro significato politico e doveva servire da monito per quanti intendessero abbandonare la causa aragonese. Il 23 febbraio, quando ancora non erano giunti a Cagliari tutti i convocati, Pietro IV “fra gli splendori della regia e il luccichio delle armi”, alla presenza dei rappresentanti dei quattro bracci, pronunciava in lingua catalana il solenne discorso introduttivo, nel quale fanno spicco numerose citazioni bibliche. Il sovrano si presenta, infatti, all’Assemblea nelle vesti di predestinato, investito direttamente da Dio di quel potere temporale che di diritto esercita suoi sudditi, e quindi anche sui Sardi, da lui assimilati ai Filistei, contro i quali era dovuto intervenire, novello re David, per liberare l’isola e ristabilire la pace, “con la volontà di Dio, con l’accordo degli abitanti e dei quattro bracci riuniti in Parlamento”. Alla prolusione del re Pietro risposero i rappresentanti dei quattro bracci, nel rispetto della procedura delle Corti di Catalogna, alle quali si ispirava questo primo Parlamento sardo. Il primo a pronunciarsi fu Giovanni d’Aragona, arcivescovo di Cagliari e portavoce del braccio ecclesiastico; per quello feudale prese la parola Berengario Carroz, esponente di maggior spicco della nobiltà catalana residente nell’isola; per il braccio reale si espresse Pietro de Falcibus, procuratore della città di Cagliari; mentre il portavoce della componente locale, riunita nel quarto braccio: pro parte…brachio Sardorum, fu Giovanni Descanno, sindaco di Gerico, una delle due ville logudoresi rappresentate alle Corti. I lavori dell’Assemblea furono caratterizzati da continue discussioni e trattative e un ruolo di primo piano veniva svolto dal braccio dei Sardi, che riusciva a sottoporre all’attenzione del sovrano e dei suoi rappresentanti una serie di richieste, sulle quali il re esprimeva giudizi e prendeva opportuni provvedimenti, e le cui tematiche sarebbero riecheggiate nelle quattro Costituzioni generali emanate il 10 marzo, nell’aula maggiore del palazzo regio, a conclusione delle Corti. Con la prima costituzione vennero regolamentati gli obblighi feudali e allo scopo di frenare il dilagante fenomeno dell’assenteismo dei feudatari catalani, aragonesi, valenzani e maiorchini venne ribadito l’obbligo, per quanti possedevano feudi in Sardegna, di risiedere personalmente e stabilmente nell’isola. Vennero, inoltre, promesse nuove concessioni feudali esclusivamente a Catalani e ad Aragonesi, i quali venivano autorizzati a sostituire, nel servizio armato, i cavalli spagnoli, che mal si adattavano al clima sardo, con cavalli locali, indubbiamente più resistenti anche se meno pregiati; la sostituzione era però consentita solo nella proporzione di due cavalli sardi per uno spagnolo. La seconda costituzione era, invece, diretta ai Sardi, o meglio a quei Sardi che in passato si erano macchiati di colpe contro l’autorità regia e che avrebbero potuto commettere in futuro il crimine, a giudiuzio del Cerimonioso, più efferato: la ribellione o anche solo l’insubordinazione all’autorità della Corona d’Aragona, rappresentata nell’isola dagli ufficiali regi e dagli stessi feudatari che avrebbero dovuto vigilare sui territori del regnum Sardiniae et Corsicae. Contro i trasgressori, o chi li avesse anche solo aiutati nelle loro azioni, venivano sancite pene severissime, non esclusa quella capitale, già espressamente prevista nella Carta de logu cagliaritana. Il sovrano considerava fondamentale questa seconda constituzione per regolamentare i futuri rapporti con l’elemento locale e quindi ordinò che il testo della legge venisse letto, in volgare sardo, in ogni chiesa durante la messa principale delle festività di Natale e Pasqua e anche all’apertura di ogni assemblea a carattere giudiziario. La terza costituzione si configurava, piuttosto, come un’appendice della seconda e decretava l’obbligo per i maggiori indiziati della passata rivolta di reperire, fra i figli maschi o altre persone idonee, un certo numero di ostaggi da lasciare nelle mani di Pietro IV, allo scopo di prevenire ulteriori atti di ribellione. Gli ostaggi vennero reperiti nelle curatorie di Sarrabus, di Sulcis, di Sigerro, e anche in quelle di Gippi e di Trexenta, pur essendo questi territori ancora soggetti a Pisa Con la quarta costituzione veniva regolamentato l’ammasso dei cereali ed il sovrano ordinava che l’orzo e il frumento venissero depositati nei seguenti castelli regi: Sanluri, Puig de Corones e due non specificati nel Sulcis e nel Sarrabus per il Capo di Cagliari; Sassari, Alghero, Osilo e Casteldoria nel Capo di Logudoro. Il provvedimento aveva lo scopo di assicurare autosufficienza agli stessi, anche in caso di lunghi assedi. La promulgazione delle quattro Costituzioni generali non coincise con lo scioglimento delle Corti; nelle settimane successive proseguirono le consultazioni parlamentari, allo scopo di sanare l’ancora precaria situazione politica sarda, e il 30 aprile venne promulgata una quinta costituzione. A questa data solo pochissimi rappresentanti dei tre bracci erano ancora presenti a Cagliari: Giovanni d’Aragona, arcivescovo di Cagliari, e Antonio Antonini, canonico cagliaritano e rappresentante di tutto il clero sardo, per il braccio ecclesiastico; per quello feudale Berengario Carroz; per quello reale i procuratori di Cagliari, Sassari, Iglesias, Alghero e Gerico, villa del Logudoro. Erano presenti anche una decina di uomini liberi, quanto rimaneva del quarto braccio, quello dei Sardi. L’ultima costituzione lascia già intravedere l’imminente riapertura delle ostilità da parte del giudice d’Arborea, che di lì a poco avrebbe minacciato sia il Logudoro che l’Iglesiente, denunciando l’inosservanza da parte del Cerimonioso dei patti della pace di Alghero. Il sovrano, in risposta alle bellicose iniziative di Mariano IV e allo scopo di impedire l’accumulo di beni nelle mani di persone non gradite alla Corona, vietava la vendita, o anche la sola cessione, di immobili a sudditi pisani, arborensi, dei Doria o dei Malaspina, o ad altri stranierei, e autorizzava solo gli atti di vendita fatti ad acquirenti catalani e aragonesi. Per i trasgressori erano previste pene severissime, compresa quella capitale. Il primo Parlamento sardo si chiudeva senza che venisse affrontato il problema del donativo da versare alla Corona, secondo la consolidata e istituzionalizzata consuetudine delle Corts catalane. L’apparente irregolarità procedurale è motivata “dal particolare momento politico, certamente uno dei meno favorevoli per consentire un rastrellamento di fondi da una terra impoverita da lunghi anni di guerre, pestilenze, carestie, malgoverno”, ma non intacca la validità giuridica di questo Parlamento; è del resto noto che le spese per far fronte alle varie guerre e ribellioni che continuamente agitavano il regnum Sardiniae et Corsicae erano aumentate di anno in anno ed il costo per l’amministrazione dell’isola gravava sempre più sui regni peninsulari della Corona d’Aragona, che avevano generosamente finanziato anche la spedizione militare di Pietro IV in Sardegna. Le Corti del 1355 si chiudevano, altresì, senza che fossero state appianate le profonde divergenze ancora esistenti fra la Corona e la nobiltà locale, capeggiata dal giudice Mariano IV e da Matteo Doria. Neanche la pace di Sanluri -firmata dopo lunghe trattative nella villa omonima l’11 luglio-, destinata a durare una decina d’anni ed a marcare un’importante cesura nel conflitto sardo-iberico, avrebbe posto fine alla tensione di questo travagliato periodo. Il 26 agosto Pietro IV partiva da Cagliari diretto ad Alghero. Il 6 settembre il re lasciva definitivamente l’isola -quieta ma tutt’altro che pacificata- per far ritorno, dopo oltre un anno di assenza, a Barcellona.